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ROSARIO LIVATINO, GIOVANE-GRANDE GIUDICE CANICATTINESE

La mafia che la mattina del 21 settembre 1990 tese sulla superstrada Canicattì-Agrigento il mortale agguato a Rosario Livatino, giovane magistrato appena trentottenne, stroncò una lucida intelligenza e fermò per sempre un generoso cuore, che si era costantemente prodigato per "dare alla legge un'anima". Questo doveva essere, infatti, secondo Livatino, il primario compito del giudice: dare un volto umano all'astratto comando della legge, come ebbe solennemente ad affermare in una sua dotta conferenza, tenuta a Canicattì il 30 aprile 1986, conferenza in cui pose a suggello questa emblematica affermazione: "Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico".

Fu questo il principio che lo guidò costantemente nelle sue funzioni di magistrato, convinto com'era che la legge andava applicata con il contributo e la partecipazione delle doti della mente e del cuore. Tali doti rifulsero in lui fin dai primi anni dell'infanzia, che egli trascorse nella casa di Viale Regina Margherita, dove si erano stabiliti i suoi genitori poco tempo dopo la sua nascita. A Canicattì egli era venuto alla luce il 3 ottobre 1952 e fin da piccolo aveva cominciato a dar prova di intelligenza, di saggezza e di bontà. Alunno di scuola elementare, aveva dimostrato, pur con la sua tenera età, una saggezza e una prontezza d'ingegno tali, da indurre il suo anziano maestro a definirlo, più che eccellente, eccezionale. Agli esami di licenza media, superati brillantemente nell'anno scolastico 1965-66, ebbe il giudizio più alto che si possa attribuire agli alunni. Ottime furono ritenute le sue capacità; ottima la sua preparazione e anche la sua formazione umanistica; sicché il consiglio che gli si diede, per l'orientamento sulla prosecuzione degli studi, fu quello dell'iscrizione al Liceo classico. E in tale scuola, nei cinque anni di corso, con il suo carattere riservato, frutto di finezza di educazione e delicato senso di discrezione, si mostrò sempre con tutti cordiale e generoso.

Non c'era disciplina al cui studio egli non si applicasse con totale dedizione. Pur avendo particolare propensione per gli studi classici, eccelleva in tutte le materie, riportando sempre il massimo dei voti. La laurea in giurisprudenza, conseguita con centodieci e lode, coronò degnamente il suo curriculum scolastico, ma non gli fece abbandonare l’applicazione allo studio, anzi lo predispose maggiormente ad ampliare ed arricchire il suo pur vasto patrimonio culturale.

Vincitore di concorso, assolse i suoi primi impegni di lavoro presso l'Ufficio del Registro di Agrigento, meritandosi, per la sua instancabilità, affabilità e modestia, la stima e l'affetto di tutti. Otto mesi soltanto bastarono a Rosario Livatino per lasciare nei suoi colleghi e nei superiori un ricordo indelebile. Poi passò in magistratura: ed alla giustizia consacrò integralmente se stesso, per difendere la dignità dell'uomo, tutelare la civiltà giuridica e impedire che avesse il sopravvento la barbarie.

Il lavoro e la famiglia furono i due poli di maggiore impegno della sua vita. Quando terminava il suo lavoro al Palazzo di Giustizia, continuava a casa l'esame e l'approfondimento delle carte e dei fascicoli giudiziari. E spesso fino a tarda notte, seduto alla scrivania del suo austero studio, sulla quale teneva sempre una copia del Vangelo, restava chino sugli atti processuali, rimettendoci il riposo e il sonno. Era invero un magistrato a tempo pieno. E quando i momenti di sconforto lo angosciavano, come si rileva dal suo diario personale, grande sollievo gli dava lo stare vicino ai suoi diletti genitori, dott. Vincenzo e Rosalia Corbo, verso i quali nutriva un affetto infinito. Bastava talvolta una breve gita in auto con loro per fargli esclamare nel suo diario: "Bella giornata trascorsa con i genitori!".

Ma ci sono anche nel suo diario annotazioni che rivelano la sua sofferenza di uomo consapevole dei gravi rischi cui ogni giorno andava incontro nell'assiduo compimento del proprio dovere. Questo suo umano soffrire ce lo fa sentire molto vicino, affratellato a noi dalla comune tristezza della condizione umana, come ce lo fa sentire vicino anche la semplicità cui egli ispirava quotidianamente la sua condotta di vita, che lo portava ad evitare ogni ostentazione della propria autorità. Se doveva talvolta recarsi in qualche ufficio per accudire a qualche pratica burocratica, rispettava pazientemente il turno come i comuni cittadini, evitando di farsi riconoscere, poiché non voleva far valere nessun privilegio a suo vantaggio.

Del giudice Rosario Livatino è stato detto, come si legge in una stele dedicatagli dai Lions di Siracusa, che "la sua vita esemplare assurge a simbolo di dirittura morale ed è, per tutti, richiamo e stimolo a quella tensione ideale, senza la quale non può che vincere la barbarie".

Diego Lodato

 


solfano@virgilio.it


























































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