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LA FESTA E IL CULTO DI SAN DIEGO, PROTETTORE DI CANICATTI'

L’ultima domenica di agosto si celebra a Canicattì, per antichissima tradizione, la festa di San Diego, protettore della città fin dal tempo della canonizzazione, avvenuta nel 1588, quindi 125 anni dopo la morte, poiché egli si spense il 12 novembre 1463 ad Alcalà de Henares, grosso centro che dista 36 chilometri da Madrid, in direzione nord-est, e conta attualmente 160.000 abitanti. La città natale di San Diego è però San Nicola del Puerto, nella diocesi di Siviglia, in Andalusia. Della nascita non si conosce con esattezza la data. I suoi biografi concordano nel dire che nacque “intorno al 1400”. Quindi era poco più che sessantenne quando morì. I genitori, molto poveri, gli avevano dato al fonte battesimale il nome di Giacomo, che in lingua spagnola suona Jago, donde, per pronunzia popolare, il nome di Diego, con cui venne chiamato e con cui è ora universalmente noto.

I primi anni della sua vita San Diego li trascorse nella solitudine di un eremo. Egli, come raccontano i suoi biografi, in giovanissima età, lasciò i genitori, abbandonò il mondo, indossò l’abito della penitenza e si ritirò in una piccola e solitaria chiesa, dedicata a S. Nicolò, non molto distante dalla sua città, insieme con un devoto sacerdote, che fu per lui, maestro, confessore e direttore spirituale. Per procurare a entrambi il pane coltivava la terra. Ogni settimana poi si recava nei paesi e castelli vicini a far la questua, con tanta modestia ed umiltà, come dice uno dei suoi biografi, padre Gaetano da Marsala, «che non vi era persona, o uomo o donna che fosse, che si mostrasse alle sue richieste restia». A tutti, durante la questua, indirizzava i suoi saggi e cristiani consigli, facendo comprendere a ognuno che gli stava più a cuore il guadagnar anime a Gesù Cristo che acquistar di che vivere per sé e per il suo compagno.
Circa trent’anni trascorse San Diego nelle solitudine, nella meditazione, nella preghiera e nella penitenza dell’eremo, finché decise di passare alla vita monastica nell’Ordine di San Francesco, tra i minori osservanti. Ammesso nel noviziato d’Arrizafa, vicino a Cordova, vi trascorse l’anno di prova nella perfetta osservanza della Regola di san Francesco, con esemplare condotta. Sicché al termine potè fare la professione religiosa con i voti di povertà, castità e obbedienza, come frate laico, cioè senza l’ordinazione sacerdotale.
La sua opera di apostolato fu insonne, in tutti i conventi in cui l’obbedienza lo ebbe a destinare. Instancabile fu soprattutto la sua azione nelle opere di carità, nell’aiutare i poveri, nel soccorrere i bisognosi, nel confortare gli ammalati, nel portar sollievo ai disperati. Nello stesso tempo digiunava e macerava il suo corpo con aspre penitenze.
Per la sua vita santa era ormai talmente entrato nelle grazie dei suoi superiori che, quando nel 1441 essi decisero di mandare una missione nelle Canarie, ne affidarono proprio a lui la guida. Ed egli in quelle isole disseminate nell’Oceano Atlantico non si prodigò soltanto per diffondervi il Vangelo, ma anche per salvare gli indigeni dalla schiavitù cui volevano ridurli gli spietati e avidi colonizzatori. Incessante fu la sua opera di conversione, senza mai retrocedere, neppure dinanzi a ingiurie, derisioni e minacce, ché anzi queste gli erano di stimolo a fare ancora di più, perché nessuna paura aveva di quelli che «possono uccidere il corpo e non l’anima».
La sua vita missionaria durò circa otto anni. San Diego ritornò, quindi, nella Spagna. Egli, umile frate laico, senza laurea, senza diploma, discuteva di argomenti biblici e teologici con tale competenza e chiarezza da fare restare meravigliati anche i più dotti teologi, i quali confessavano anche di avere appreso e compreso da lui perfino le dottrine più difficili, che neppure i dottori delle più celebri Accademie o i professori delle Università di Salamanca o di Parigi avrebbero saputo spiegare meglio.
Sisto V, il papa francescano che lo innalzò alla gloria degli altari, uomo di grande rigore morale, ha lasciato scritto nella Bolla di canonizzazione che il nome di Diego, per i miracoli, per la dottrina, per la santità, era diventato famosissimo in tutta la Spagna, e grande era l’ammirazione e la venerazione per lui. Era disegno della Provvidenza che anche in Italia avvenisse altrettanto.
Correva l’anno 1450, anno santo, l’anno del Giubileo. A Roma c’erano in programma il Capitolo Generale dell’Ordine e la canonizzazione del francescano San Bernardino da Siena. San Diego chiese ai suoi superiori, e ottenne, di andare pellegrino a Roma per lucrare le indulgenze e assistere alla canonizzazione. Quindi, con un suo confratello per compagno, intraprese a piedi il lungo e faticoso viaggio, con il bastone e la croce dei pellegrini. Giunto a Roma, prese alloggio nel convento di Aracoeli, strapieno di francescani, provenienti anche da lontane regioni, molti dei quali, stanchi e debilitati, si erano ammalati.
In tali frangenti si adoperò con mirabile dedizione ad assistere gli infermi e a non far loro mancare niente, mostrandosi sempre presente sia di giorno che di notte per sopperire a tutte le necessità e provvedere ai vari bisogni degli ammalati. Pur imperversando una gravissima carestia proprio in quell’anno, nessuno dei malati ebbe a soffrire di qualche privazione. San Diego riusciva a raccogliere elemosine in tale quantità, che di quanto avanzava si servì per far costruire una gran cisterna nel secondo chiostro dello stesso convento d’Aracoeli, la quale venne poi chiamata "Cisterna di San Diego".
Dopo quattro mesi trascorsi a Roma, ritornò in Spagna, a Siviglia, dove chiese ai suoi superiori di essere mandato in un convento non disturbato dalle visite di curiosi e forestieri, un qualche eremo in cui potesse dedicarsi del tutto alla vita penitenziale e contemplativa. Trascorse, pertanto, cinque anni nel quieto e solitario chiostro di Saliceto, tra flagellazioni, privazioni e sofferenze indicibili, come a liberarsi dai vincoli del corpo, «sicché - ­ dice un suo biografo – pareva che egli fosse fatto di purissimo spirito».
Ma i superiori avevano bisogno di lui come uomo di azione. Si era appena finito di costruire il convento di Alcalà de Henares. E fu proprio a lui che nel 1456 pensarono le autorità francescane, perché con i suoi poteri sovrannaturali contribuisse a provvederlo di quanto ancora vi mancava. E quivi si concludeva l’ultimo atto della sua vita terrena. Il 12 novembre 1463 il suo corpo, fiaccato anche dalle aspre penitenze, rendeva l'anima a Dio..
Tanti sono i prodigi che si verificarono dopo la sua morte, ma tanti sono anche quelli che lui fece in vita, perché egli, come affermano i suoi biografi, aveva il dono dei miracoli, per compiere i quali ricorreva quasi sempre al segno della Croce e all’olio della lampada della Madonna: in tal modo sparivano le malattie, si sanavano le ulcere, si raddrizzavano gli storpi, acquistavano la vista i ciechi e l’udito i sordi.
Un prodigio singolare fu quello delle rose in pieno inverno. Estremamente caritatevole con gli indigenti, San Diego era solito prendere dalla dispensa del pane da portare ai poveri che aspettavano davanti al convento. Di ciò si era lamentato qualche confratello con il padre guardiano. Questi un giorno lo incontrò mentre reggeva con le mani la tunica stracolma di pane. Alla richiesta di che cosa portasse rispose che erano rose. Fu difficile, però, per il guardiano credergli, perché tra l’altro era una gelida stagione invernale. Ma, quando guardò, potè constatare con stupore che la tunica era davvero piena di fresche e fragranti rose.
Questo prodigio ha colpito tanto la fantasia degli artisti che è diventato un motivo ricorrente nella iconografia di San Diego. L’altro motivo è quello che lo rappresenta con la croce levata in alto con la mano sinistra e con un pane nella destra, protesa verso un ragazzetto scalzo che gli sta accanto. Nei due gesti è sintetizzata l'attività che caratterizzò la sua vita: l'opera missionaria e la costante azione caritatevole in favore degli umili e dei biso­gnosi. In quest’ultimo atteggiamento la statua di San Diego campeggia sul prospetto della chiesa di Canicattì, dove fu collocata nel 1912, e sull’altar maggiore.

Il culto di San Diego a Canicattì ebbe inizio subito dopo la canonizzazione, perché, a sfogliare gli antichi fascicoli dell’Archivio del Comune, si nota che tanti canicattinesi nella prima metà del Seicento portavano già il nome di Diego. E di essi parecchi erano nati sul finir del Cinquecento. A introdurne il culto furono con molta probabilità i monaci del convento dello Spirito Santo, che erano dello stesso Ordine cui apparteneva San Diego. Con entusiasmo, perciò, si prodigarono a dif­fonderne la devozione, erigendo a lui subito un altare e infervorando alla sua venerazione l'intera Canicattì, sì da accendere la fantasia popolare e far nascere leggende e detti come questo:



San Caloiaru di Naru,
Santu Roccu di Butera,
Santu Decu di Canicattì
sunnu frati tutti tri.

Ma i tre santi nulla hanno in comune se non la santità. Non è pensabile però che i minori osservanti siano venuti a Canicattì nel 1633, quando il convento venne costruito. Piuttosto ha ragione fra Saverio Cappuccino, il quale negli Annali della Fulgentissima Città di Naro fa chiaramente capire che il convento era già esistente, e quindi, più che edificato, nel 1633 venne ricostruito e ampliato.
Leggiamo, infatti, nel manoscritto dello storico narese che nel 1475 fece la sua professione religiosa nell'Ordine dei minori osservanti fra Girolamo da Naro, "uomo di vita santa e di aspra penitenza", che spese tutte le energie della sua vita nell'aiutare i bisognosi e nell'assistere gli infermi. Egli, pur di alleviare le pene degli ammalati, cercava di accontentarli in tutto, anche nei desideri più singolari, come quando chiedevano particolari frutti fuor di stagione. E racconta fra Saverio che fra Girolamo glieli portava "freschi, e come colti dagli alberi li frutti desiderati, anco quando era già sterile ogni pianta, e la terra ricoperta di neve".
Questo santo religioso, secondo quanto scrive fra Saverio, trascorse la sua esistenza nel convento di Canicattì. Quindi si deve dedurre che prima del 1633 ci fosse un piccolo cenobio accanto a quella che allora era una piccola chiesa dedicata allo Spirito Santo. Ma leggiamo quello che testualmente scrive fra Saverio sulla morte di fra Girolamo da Naro della famiglia Nocera: "Nella sua morte si udì suonare a gloria la campana del convento di Cannicattì ov'egli visse e chiuse la vita, ed accorsi i padri a visitare il cadavere, lo trovarono in mezzo a 12 cerei accesi senza umano soccorso. E' sepolto nel Convento di Cannicattì".

Pertanto si può con fondamento pensare che il culto di San Diego sia cominciato a Canicattì nella seconda metà del Cinquecento. Esistevano in quel tempo i quartieri di Borgalino, nella parte alta del paese, e di San Pancrazio, presso il Castello, dove sorgeva l'antica Matrice. Ma si fa menzione, negli antichi documenti del Cinquecento, anche del quartiere di San Francesco e di quello di San Sebastiano, dal nome della chiesa che poi venne dedicata a San Diego. Nella chiesa di San Sebastiano aveva sede l’omonima confraternita, che un Breve del papa Urbano VIII del 12 luglio 1635 chiama anche confraternita di san Diego. Ma c’è di più. C’è una licenza della curia vescovile di Girgenti, datata 8 giugno 1621, con cui si autorizza la chiesa di San Sebastiano a portare in processione per le vie del paese la statua di San Diego. Da ciò desume padre Gaetano da Marsala che «prima del 1621 San Diego Protettore si era della Terra di Cannicattì».
Di come San Diego sia diventato protettore di Canicattì si è impadronita la leggenda. Così come l'ha raccolta il Sacheli, essa racconta che un giorno una statua di San Diego stava per essere portata, sopra un carro tirato dai buoi, dalla Spagna a Caltanissetta. Ma "a lu strittu di Naru", spossati e assetati, gli uomini si erano fermati per dissetarsi, cercando, però, l'acqua invano. Li soccorreva allora San Diego, facendo zampillare ai suoi piedi un "galofaru" di chiara e fresca acqua, che avrebbe poi formato "la funtana di lu strittu". Era il primo prodigio; il secondo avveniva a Canicattì, davanti alla chiesa di San Sebastiano. Quivi i buoi piegavano le ginocchia e non volevano sentirne più di continuare il viaggio: "Non ci fu forza umana - scrive il Sacheli - che valesse a smuoverli. Il Santo voleva essere protettore di Canicattì, e così fu fatto".
La devozione a San Diego fu, fin dai primi anni dall'introduzione del suo culto, assai sentita dai canicattinesi; ma essa crebbe ancora di più in seguito al terribile terremoto del 1693, "il quale - scrive fra Salvatore da Naro - in più scosse rovinò molte Città, Terre, Casali, e Castelli, con la perdita da circa cento mila Huomini, e la Città della Licata qui vicina hebbe danni notabilissimi". Ma, come Naro per grazia di San Calogero, possiamo scrivere con l'autore dell' "Aurea Fenice", anche Canicattì, per intercessione di San Diego, "non hebbe un Iota di danno, in tante scosse di notte, e di giorno". La prima scossa si ebbe la sera del venerdì, 9 gennaio, e durò - scrive fra Salvatore, che ne fu testimone oculare - quanto "un Credo cantato a canto fermo".
Così il dotto cappuccino racconta, con l'ortografia del tempo, il terremoto di due giorni dopo: "La Domenica poscia dell'11 di detto mese replicò il terremoto assai spaventevole ad hore 20 e menza doppo il vespro, e prima del terremoto si levò una nuvola da Mongibello che coprì la Città di Catania, ed a ciel sereno, s'oscurò in un baleno tutt'il Regno, come se fosse stata la menzanotte; sibilava un vento extemporaneo, e senza che fosse stato tanto gagliardo, arrecava con tutto ciò orrore grandissimo, in maniera che l'uccelli scappavano spaventati, tutti l'animali quadrupedi rotulavano e fugivano, e senza potersi regere in piedi si coricavano atterriti e tremanti: in un medesimo tempo si turbò il Mare di Catania e di sifatta maniera s'inalberò, che pareva quasi toccar le nubi, e si sentì un tal scoppio, che se tutti i tuoni si fossero in uno congregati, non potevano cagionar magior ribombo; caddero allora assieme con la Città di Catania tutte le torri e casini di campagna quanto pure tutte le terre e casali convicini... Il detto terremoto durò fierissimo, e terribilissimo, più d'un quarto d'hora, e tutte quelle Città e Terre restorno rovinate, come mai vi fosse stata fabrica veruna".

Canicattì rimase illesa e gridò al miracolo: molto ci guadagnò allora il culto di San Diego, che da tempo era onorato insieme con il patrono San Pancrazio nella giaculatoria:



Sia da tutti veneratu
lu patruni San Brancatu.
E lodammu cu firvori
Santu Decu lu protetturi.


Il suo nome si era diffuso tra la gente canicattinese e a tanti bambini veniva imposto al battesimo. Lo aveva assunto anche la confraternita di San Sebastiano, denominandosi confraternita dei Santi Sebastiano e Diego. E' certo che fin dalla metà del XVII secolo la chiesa di San Sebastiano cominciò a essere chiamata anche chiesa di San Diego, finché questo nome non diventò esclusivo: e ciò avvenne per interessamento di un grande devoto, il sacerdote Pietro Termini, quando la vecchia chiesa, ormai fatiscente, fu demolita e nello stesso luogo fu ricostruita l'attuale, più solida e più grande, con lavori che durarono dal 1770 al 1782.
Era ormai dalla metà del Seicento che da parte di questa chiesa se ne celebrava solennemente la festa, col favore anche dei baroni Bonanno. Un forte impulso le aveva dato il duca Giacomo II nel 1656 con l'istituzione della "fiera franca di San Diego glorioso", una fiera di nove giorni da tenersi nello spiazzo dove ora sorge il Municipio, senza che nessun mercante dovesse pagar gabelle, ma solo la tassa dell'assetti­to, cioè del posteggio, da versare alla confraternita dei Santi Sebastiano e Diego a beneficio della chiesa. Nel 1825 questa tassa se 1'accaparrò il Comune e la fiera fu ridotta a cinque giorni, finché nel 1860 non scese a tre.
Vi si praticava il commercio di tanti prodotti dell'artigianato siciliano. Si vendevano tessuti e prodotti d'oreficeria di Palermo, cera­miche di Caltagirone, terraglie e pentole di Patti, lino di Messina, stacci di San Cataldo, candelieri, caldaie, padelle, bracieri, scaldini e altri oggetti di rame di Riesi, coltelli e attrezzi di ferro di Canicattì, furetti di Mazzarino, e poi legnami, mantelli con cappuccio di tela incerata, eccetera. Non molto distante, presso il vecchio Ospedale Civile, nel luogo detto "Poggio della Madonna", si teneva invece l'animata fiera del bestiame.
Un tempo, la sera della vigilia della festa, durante i Vespri, si poneva su un tavolo, davanti all'ingresso della chiesa, una statuetta di San Diego e le si accendevano innanzi dei piccoli falò, mentre lanterne di carta colorata e lumeri di creta pendevano da ogni parte, dal campa­nile, dalla facciata della chiesa, dai rami degli alberi e dalle finestre e porte delle case circostanti. Il giorno della festa poi, tra tanta folla, si svolgevano spettacoli, giochi vari, tornei, giostre e una entusiasmante corsa di cavalli, che si teneva in quella via che è ora il Viale Regina Margherita. E anche la gola aveva la sua parte, poiché per diversa gente il giorno della festa era l'unica occasione dell'anno per assaggiare al bar il gelato, lu gelatu a piezzu precisamente.
I canicattinesi si sono sempre rivolti a San Diego, per essere preservati da ogni male. Non c'era nel passato calamità in cui essi non si prodigassero a portarne in processione la statua, spesso insieme con l'Immacolata della chiesa di San Francesco, per impetrare la fine del flagello. Grati a San Diego, solenne festa gli hanno sempre tributato i canicattinesi nell'ultima domenica di agosto.
Per avere un'idea di come si celebrava la festa di San Diego anche nel recente passato, basta leggere il "Notiziario Canicattinese" del 21 agosto 1927. Il periodico, diretto dal prof. Giuseppe Alaimo, riporta "un programma di festeggiamenti ricco ed originale" della durata di otto giorni, che aveva inizio con "un artistico carro trionfale, con il simbolo del Protettore", fatto sfilare "fantasticamente illuminato" per le vie di Canicattì. La banda cittadina allietava per otto giorni i canicattinesi "coi suoi melodiosi concerti alternativamente alla Villa della Vittoria e in Piazza Umberto", cioè nella Villa comunale e nella piazza principale, che adesso porta il nome di IV Novembre. La vigilia della festa si assisteva in piazza San Diego a "svariati e divertenti giuochi", mentre la sera, "di fronte alla Villa riccamente illuminata", si ammirava lo spettacolo dei "fuochi pirotecnici". La domenica si trascorreva di nuovo tra "svariati e divertenti giuochi", finché alle ore 17, si procedeva in Piazza Umberto, "con l'intervento delle autorità ecclesiastiche, civili e militari", alla "benedizione delle automobili". La sera della festa, dopo la cosiddetta "musica a palco", si concludeva tutto con "sparo di fuochi d'artificio e lancio di palloni artistici in via Nazionale", vale a dire in quella che è ora la via Capitano Ippolito.

Erano i mugnai anticamente ad organizzare la festa e notevole era il concorso di popolo, perché tutti erano devoti al Santo e fiduciosi nella sua protezione contro ogni flagello. E ancora oggi nel rosario delle pie donne c'è un Paternoster per San Diego, ca n'avi a scansari di pesti, di fami, di guerra, di tirrimotu e di mali nemici.

Diego Lodato

© Proprietà letteraria riservata


solfano@virgilio.it


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