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IL CASTELLO DI CANICATTÌ E LA CELEBRE ARMERIA

di Diego Lodato

         Del castello di Canicattì restano ora solo pochi ruderi, ma splendidamente torreggiante era esso un tempo, in cima al colle, dove si ergeva solitario, dal lato boreale, al di sopra dell'alveo dell'alto corso del fiume Naro, le cui acque, scaturenti dalla vicina, copiosa sorgente Cuba, potevano bere, a detta degli antichi, gli uomini e gli animali. La valle, in cui fluiva il fiume, lo faceva giganteggiare ancora di più al di sopra della Piazza Grande, oggi Piazza IV Novembre. Di fronte al castello gradatamente s'inerpicava verso le alture di Borgalino l'antico agglomerato urbano. Dalla parte di mezzogiorno, di fronte ad esso, campeggiava la vetusta Torre dell'orologio. Questa nel 1930 venne demolita e sostituita nel 1932 con quella che attualmente si slancia al cielo con i quattro quadranti e le due campane, che i baroni Giacomo Bonanno Crisafi e il figlio Filippo Bonanno Marini, nella seconda metà del Seicento, regalarono alla città, con l'augurio che la scansione del tempo avvenisse in auspicio di buoni anni, "ut mensura temporis bonorum annorum sit in auspicium", come si legge in una di esse, dove è evidente il giuoco di parole del cognome Bonanni, come preferivano chiamarsi, con buoni anni.
         A costruire il castello furono gli Arabi che, venuti in possesso della Sicilia nel IX secolo, si adoperarono, secondo il loro costume, come narra l'autore delle Memorie storiche agrigentine, a far sorgere presso le grosse terre e i popolosi casali, "vicine formidabili castella, soggiorno dell'arabica aristocrazia, e di agguerriti presidî". Si dice che il conte Ruggero, impegnato nella guerra contro i Saraceni per la conquista dell'isola, abbia scelto il castello di Canicattì come suo quartier generale, quando, nell'anno 1086, secondo quanto racconta Goffredo Malaterra nel De acquisitione regni Siciliae, se ne impadronì assieme a undici altre fortezze. In proposito il giornalista Gustavo Chiesi nel 1892 scriveva su Canicattì nella sua Sicilia illustrata nella storia, nell'arte, nei paesi: "I Saraceni vi si fortificarono; e vuolsi che questa sia la prima terra che loro fu tolta da Ruggero normanno". Egli si riferiva, naturalmente, alle conquiste fatte dal Conte nel territorio compreso tra Girgenti e Castrogiovanni. Sulla sua scorta i fratelli Alfonso e Giovanni Tropia, nella monografia da loro composta nel 1908 per il Dizionario illustrato dei Comuni Siciliani, affermano: "Che il conte ivi siasi fortificato non è improbabile, poiché il luogo ove sorge il castello è un punto strategico importantissimo, posto com'è sulla via da Girgenti a Castrogiovanni, via necessariamente battuta da Ruggero, per le sue operazioni strategico-militari".
        Secondo la tradizione, fu il Conte Ruggero a rendere famoso in tutta la Sicilia il castello di Canicattì per avervi trasportato le armi sottratte agli Arabi nella battaglia di Monte Saraceno, per consacrarle all'Immacolata in segno di gratitudine per il miracolo concessogli. Al riguardo il filosofo e professore universitario Calogero Angelo Sacheli, nelle sue Linee di folk-lore canicattinese, riporta così la leggenda: "Il Conte Ruggero, per riuscire vittorioso della giornata che volgeva al tramonto, pregò con intenso fervore 1'Immacolata, che è nella chiesa di S. Francesco a Canicattì, perché fermasse il sole. Ottenuto il miracolo, il Conte riuscì vincitore, e, trofeo di gloria, le armi dei vinti furon portate su un carro di buoi a Canicattì, sacre alla Madonna ed esposte nel Castello". Quello che è certo è che le armi furono, come afferma il Lexicon Topographicum Siculum, "ivi raccolte dagli antichi Baroni avidi di gloria".
        L'autore del Lexicon, l'abate benedettino Vito M. Amico Statella, che nella prima metà del Settecento ebbe modo di vedere l'Armeria del castello, la definì "celebris per insulam universam", famosa in tutta la Sicilia, e descrisse con stupore le militari armature di ogni sorta e dimensione, specie cavalleresche, intessute d'oro e d'argento; i bellici strumenti a mano, di vario e straniero artificio, a due a tre canne, adatte a cacciar fuori più palle in un colpo; gli schioppi pneumatici, le daghe, le spade, i puntoni, le lance, le spadette alla spagnola, le clave con else elegantissime, e le innumerevoli altre cose di simil genere. E restò ammirato dinanzi alla eccezionale spada, che il popolo diceva essere stata un tempo del conte Ruggero: "...ensemque praecipuum, quem vulgus Rogerii Comitis olim fuisse tradit". A detta del sindaco Raimondo Gangitano, che fu a capo dell'amministrazione comunale di Canicattì dal 1850 al 1852 e compose dei brevi cenni storici sulla città, faceva pure bella mostra di sé nel castello anche lo scudo del Conte Ruggero che, istoriato con le scene degli Orazi e Curiazi, "ammiravasi come capo d'opera nobilmente lavorato ed inciso a magnifici rilievi d'oro".
        A lungo rimasero le armi nel castello di Canicattì, oggetto di ammirazione dell'intera Sicilia, finché nel 1827 donna Teresa Moncada, vedova di Giuseppe Bonanno Branciforti, ultimo della baronia, ucciso a Bagheria durante la rivolta popolare del 1820, le cedette come legittima proprietaria a Francesco I, re di Napoli. Questi le affidò al Museo di Capodimonte, da dove, dopo la proclamazione del Regno d'Italia, furono trasferite all'Armeria Reale di Torino. Ma, già in precedenza, nel 1808, suo marito, barone di Canicattì e principe della Cattolica, aveva regalato a Ferdinando I la spada e lo scudo del conte Ruggero.
    Epoca di splendore fu per il castello di Canicattì la prima metà del Seicento. Era il tempo in cui barone della città era il duca Giacomo Bonanno Colonna, di cui tesse meritatamente le lodi la Bibliotheca Sicula, che lo definisce non solo uomo colto e letterato, ma anche protettore di letterati, di cui fu generoso amico e benefattore: "Ne dum literis et eruditione addictus, verum etiam et literatorum studiosus fuit, quos liberalitate, et benevolentia complexus est". Egli - narra il Lexicon - ornò Canicattì di pubblici elegantissimi edifici ("Candicattinum publicis elegantissimis aedificiis instruxit"). Fu un precursore dei tempi e con le sue opere gettò le basi per il futuro sviluppo della città nella zona bassa pianeggiante, favorendone il progresso come importante centro viario e commerciale. Egli, pur ritenendo come sua patria la città di Siracusa, preferiva, quando era di ritorno dai suoi lunghi viaggi di studio attraverso le città d'arte d'Italia, la tranquilla dimora del castello di Canicattì. Quivi egli scrisse le pagine Dell'Antica Siracusa Illustrata e, nella dedica che ne fece al Conte di Lemos, già viceré della Sicilia, appose questa data: "Di Cannicattini a dì 4 di Gennaio 1624".
        Ma ai tempi della trisavola Ramondetta De Crescenzo per il castello di Canicattì ci fu una giornata drammatica. Essa, rimasta vedova di Calogero Bonanno, era passata a nozze con Angelo Lucchese, patrizio della città di Naro, il cui padre Bernardo vi spadroneggiava da predone come amministratore delle imposte, capitano di giustizia ed esattore. Egli rivestiva le cariche più odiate dai cittadini a causa delle rapine fiscali e angherie poliziesche, che essi erano costretti a subire. Contro Bernardo Lucchese nel 1516 insorsero esasperati i Naresi, reclamando la restituzione del denaro, che egli aveva loro ingiustamente tolto. L'anno seguente la rivolta degenerò in guerra aperta. I cittadini di Naro assaltarono il castello della loro città e si impadronirono delle armi e delle munizioni. Egli cercò di salvarsi, fuggendo verso il castello di Canicattì, di cui era signore suo figlio. Ma venne inseguito da una grande folla armata, che scatenò l'inferno contro l'antico maniero canicattinese, con fucili e bombarde. Il fuoco non cessò neppure quando la moglie di Bernardo Lucchese uscì fuori e andò verso i rivoltosi con il Crocifisso in mano e le figlie attorno piangenti. Essa fu trucidata senza pietà e il marito venne catturato, incarcerato e privato degli averi.
        Circa due secoli dopo il castello di Canicattì fu al centro dell'attenzione dell'intera Sicilia in seguito alla cattura di una pericolosa banda, che terrorizzava tutto il territorio da Girgenti a Castrogiovanni e di cui era a capo l'ex chierico Raimondo Sferlazza. Della sua eliminazione si era fatto carico lo stesso sovrano Carlo VI, il quale aveva affidato pieni poteri, con la carica di vicario generale, a Francesco Bonanno Del Bosco, principe della Cattolica. Questi, venuto da Palermo con un buon numero di soldati, riuscì a sgominare la banda, a sterminarne parecchi e a catturare i superstiti, compreso il loro capo. Condotti nel castello di Canicattì, vennero rinchiusi nelle celle carcerarie ivi esistenti. Sette di essi ebbero la condanna alla pena capitale. A prepararli alla buona morte provvidero i confrati della Compagnia dei Bianchi e della confraternita di Maria SS, degli Agonizzanti. Raimondo Sferlazza di Grotte, Antonio Cacciatore di Girgenti e Sigismondo Lauretta d'Aragona vennero impiccati il 5 maggio 1727; mentre per l'agrigentino Francesco Borsellino e gli ennesi Michele Pirricone, Giuseppe Chiaramonte e Antonino Arrostuto l'esecuzione avvenne il 17 dello stesso mese, in quella contrada che ancora porta il nome di Folche.
        Le celle carcerarie erano al pianterreno del castello, attorno a un vasto cortile, al centro del quale si ergeva una gran cisterna per la raccolta delle acque piovane. Di fronte, in tre ampie sale, c'era esposta la famosa Armeria. Seguivano gli alloggi delle guardie, le stanze dei servi, le scuderie e i magazzini. Al piano superiore, a cui si accedeva da una larga e fastosa scala d'onore, c'erano gli appartamenti nobili del barone e della baronessa, con una grande camera d'angolo, strutturata come cappella per le cerimonie religiose. L'ingresso al castello era costituito da un imponente portone centrale, al di sopra del quale un grandioso salone, con affreschi e ritratti dei baroni Bonanno, divideva i due appartamenti. Questi destarono l'ammirazione dello storico Mariano Scasso Borrello, il quale nelle aggiunte da lui inserite nella Storia Generale di Sicilia di De Burigny pone in risalto l'eccellenza degli spaziosi appartamenti e scelti mobili. Ma attratto rimase soprattutto dall'Armeria, "nella quale - scrive - si trova una compita raccolta di tutto ciò, che serviva d'uso agli antichi Guerrieri". Chi cercasse oggi a Torino le famose armi del castello di Canicattì resterebbe fortemente deluso. Nell’Armeria della città piemontese non se ne trova traccia alcuna. Che fine abbiano fatto nessuno finora è riuscito a saperlo.

Diego Lodato, Il Castello di Canicattì e la celebre Armeria, in La Comarca, a. I n. 2, Naro, novembre 2008.




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