GIOVANNI
GUARINO AMELLA:
UNA VITA PER IL POPOLO SICILIANO
di
Gabriella Portalone
Il mio contributo allo
studio di questa grande figura d'uomo, di giurista, di politico di poeta delle
cose concrete, ritengo non possa che partire da una frase scritta da Pier Luigi
Ingrassia, direttore de L'Ora di Palermo, in occasione della presentazione del
discorso di commemorazione tenuto dall'on. Paolo D'Antoni al Circolo della
Stampa di Palermo il 6 febbraio 1950, Ingrassia che lo conobbe molto da vicino
nei caotici mesi che precedettero la conquista dell'autonomia e che lo apprezzò
per la chiarezza delle idee e la coerenza dei comportamenti, scrisse in
quell'occasione che <<Giovanni Guarino Amella aveva speso una esistenza
intera con il popolo siciliano e per il popolo siciliano>>.(2)
Purtroppo, tuttavia, di quest'uomo che spese una vita per il miglioramento delle
plebi meridionali e per la crescita morale ed economica della sua Sicilia, i
siciliani che abbiano meno di cinquant'anni conoscono ben poco: è questa
l'ingrata legge della storia che spesso, molto spesso, riconosce grandi meriti a
chi pochi ne ha, e si dimentica di chi ha effettivamente agito nell'interesse
collettivo, magari rifiutando ogni forma di protagonismo. Così oggi, accanto a
personaggi che sono stati immortalati dalla storiografia e dalla pubblicistica
come padri e madri dell'autonomia e dello statuto, sol per aver abbozzato un
articolo dello stesso o per aver genericamente scritto di regionalismo(3),
l'uomo che aveva fatto parte della Consulta regionale elaborando uno dei primi
progetti d'autonomia, dal 1860 in poi, che aveva appassionatamente difeso lo
statuto approvato dalla consulta regionale, nel suo ruolo di consultore
nazionale, contro la tenace opposizione di Einaudi e di Ricci, che aveva lottato
affinché la carta dell'autonomia fosse varata immediatamente con decreto
luogotenenziale, senza attendere l'elezione dell'assemblea costituente e che
aveva, infine, fatto parte della Commissione paritetica per l'attuazione delle
norme statutarie, dando un contributo determinante per la sua preparazione
giuridica e per il suo equilibrio, meritando di essere definito <<tra gli
uomini politici siciliani, il più competente nel problema dell'autonomia
siciliana e il più appassionato e tenace sostenitore(4)>>, non è nemmeno
citato come parente lontano di quella che, allora, fu una delle più grandi
conquiste che il popolo siciliano avesse conseguito nei millenni della sua
storia.
Non si pretende certo, in questa sede, di fare completa giustizia, ma ci si
augura di far meditare, soprattutto le più giovani generazioni di studiosi,
sulla necessità di avviare approfondite indagini storiche e giuridiche su
questo grande siciliano, indagini che ora appaiono certamente favorite dai
documenti messi a disposizione dalla neonata fondazione Giovanni Guarino Amella.
Guarino Amella che, fin da giovane, "esercitò la politica come una scienza
ed un'arte, che mentre difende e regola concreti interessi, non perde di vista i
fini umani e morali della vita"(5), nacque da famiglia di piccoli
proprietari di Sant'angelo Muxaro, in provincia d'Agrigento, l'8 ottobre 1872.
Giovanissimo, si trasferì per motivi di studio a Canicattì dove entrò nelle
grazie del barone Francesco Lombardo, ricchissimo proprietario lungimirante e
aperto ad ogni forma di progresso che, conquistato dall'intelligenza del
giovane, lo pose sotto la sua protezione finanziandogli tutti gli studi fino
alla laurea in giurisprudenza, conseguita presso l'ateneo palermitano e che
finì per considerarlo come un vero e proprio figlio adottivo.
Ritengo che non si possa comprendere appieno la personalità del politico
agrigentino prescindendo dall'influenza che su di lui esercitò il barone
Lombardo. Questi fu uno dei pochi aristocratici siciliani, forse perché figlio
di un'aristocrazia nuova, nata da una borghesia intraprendente e laboriosa, che
seppe comportarsi alla stregua degli antichi possidenti inglesi, la cosiddetta
gentry, cioè quella nobiltà di campagna che aveva trasformato le terre avite
in vere e proprie aziende attive e aperte sempre a nuove sperimentazioni
culturali, oggetto d'investimenti continui, determinanti per l'ulteriore
arricchimento dei proprietari, ma soprattutto per il miglioramento dell'economia
locale. Così Francesco Lombardo, come del resto molti altri possidenti
dell'alacre centro agrigentino, lungi dall'accontentarsi dell'esigua rendita
cerealicola e dall'appiattirsi sulla parassitaria conduzione latifondistica,
comune alla maggior parte del territorio isolano, volle sperimentare nuove
colture, come, per esempio, quella del mandorlo che soppiantò la vite dopo
l'epidemia della fillossera. Convinto che fosse meglio per tutti favorire
l'evoluzione delle plebi contadine verso forme di vita più civili, favorì la
nascita delle prime affittanze collettive cattoliche, cedendo in affitto a tali
cooperative parte dei suoi estesissimi latifondi, all'interno dei quali costruì
una razionale rete stradale di ben 60 chilometri e parecchie case coloniche.
Tale sua intraprendenza e la lungimiranza, nell'avvertire la necessità sempre
più impellente di cambiare le insostenibili condizioni imposte al mondo
contadino dalla struttura latifondistica, procurarono lavoro e mantenimento ai
tanti derelitti che costituivano la stragrande maggioranza della Sicilia del
tempo.(6) Per tali iniziative fu citato da Giovanni Lorenzoni nella sua
relazione sull'inchiesta agraria condotta in Sicilia dal governo nel 1910.(7)
In collaborazione con il suo pupillo, il barone costituì una commissione per
richiedere al governo di Roma l'ampliamento del territorio di Canicattì e si
adoperò tenacemente per l'abolizione delle decime regie nel territorio
agrigentino, anacronistica derivazione dalle decime ecclesiastiche la cui
completa abolizione sarà ottenuta in seguito, proprio per l'indefesso lavoro
del Guarino.(8)
E' indubbio che l'interesse del barone per i problemi della società circostante
e il suo tenace impegno per il miglioramento delle plebi locali, influirono
positivamente sulla formazione spirituale e politica del giovane Guarino che, in
un periodo particolarmente ricco di avvenimenti per la Sicilia, - i Fasci, la
crisi agraria, le ripercussioni negative della tariffa doganale, l'inizio
dell'emigrazione - trovò un'effettiva rispondenza ai suoi ideali nella sinistra
estrema del tempo, costituita da repubblicani, democratici mazziniani, radicali,
riuniti intorno alle figure carismatiche di Imbriani e Cavallotti, a livello
nazionale, e di Napoleone Colaianni, a livello regionale. Giovane studente
universitario nella Palermo dei Fasci, Guarino se ne fece sostenitore insieme a
Colaianni e, dopo la proclamazione dello stato d'assedio e lo scioglimento degli
stessi nel gennaio del 1894, si sottrasse alla prigione grazie, ancora una
volta, al barone Lombardo che ne protesse la latitanza. Già da allora, alla
scuola del Colaianni che, dalla redazione dell'Isola prima, e del Siciliano poi,
lanciava il suo programma politico alla gioventù assetata di giustizia e di
cambiamenti, Giovanni Guarino aveva cominciato ad accarezzare l'idea
dell'autonomia, esaltata da quella sorte d'esperimento politico e amministrativo
che fu il Commissariato civile di Codronchi e dal famoso Memorandum a lui
indirizzato dai socialisti siciliani.(9) Nel radicalismo di fine Ottocento il
giovane avvocato di Canicattì trovava la soluzione ai disagi derivanti, sia da
un collettivismo livellatore e distruttore d'ogni libertà personale, proprio
del messaggio marxista, sia da un liberismo sfrenato ed individualista
assolutamente insensibile ai problemi dei più deboli. Tale concetto sarebbe
stato alla base dell'azione politica del Guarino fino alla sua morte, se in un
articolo de La Fiaccola, giornale da lui fondato nel dopoguerra, quando era
ormai esponente del partito demosociale, dove era confluito dopo la diaspora che
aveva svuotato il partito radicale nel primo dopoguerra, così scriveva:
"Mai nel campo economico è esistito ed esisterà un asserto che sia
puramente liberista o assolutamente comunista. Vi è sempre una coesistenza
d'iniziativa privata e d'intervento di Stato. Si tratta di realizzare, in ogni
situazione storica, la sintesi più efficace"(10).
Da sempre il lavoro fu per lui elemento distintivo e qualificante all'interno
della società: " chi non lavora non dovrebbe essere né elettore, né
cittadino", ma il lavoro non era inteso solo come lavoro manuale, ma anche
come lavoro di concetto dei professionisti, degli impiegati degli stessi
proprietari terrieri o imprenditori attivi e propensi, con lo sforzo della
mente, ad incrementare la produzione e lo sviluppo del benessere generale. Tale
posizione lo avvicinava molto al pensiero e al progetto politico di uno dei
primi socialisti italiani, annoverato fra la pattuglia dei socialisti utopisti,
cioè premarxisti, Giuseppe Ferrari, convinto sostenitore del principio di un
diritto di proprietà vincolato essenzialmente al lavoro. Guarino, pur ampliando
il concetto del Ferrari, col riconoscere l'ammissibilità anche della proprietà
ereditaria, purché gestita attivamente e in senso imprenditoriale, era
anch'egli schierato sul fronte della socializzazione dei servizi essenziali:
" Il nostro movimento si riassume nel binomio di democrazia e di lavoro. […]
Dalle soffocanti ingerenze del regime fascista e poi dell'economia di guerra noi
aneliamo ad un maggiore respiro di libertà e di iniziativa privata; ma è
indispensabile la guida e il controllo dello Stato che si spingerà sino alla
socializzazione, per dati servizi essenziali ed industrie chiave, ed
alleggerirà, invece, la mano per altre attività economiche".(11)
Il suo ingresso nell'agone politico risale al 1902 quando fu eletto consigliere
al Comune di Canicattì, imponendosi sulle forze conservatrici di Cesare
Gangitano; arriva, finalmente, l'occasione per trasferire i suoi ideali da un
piano eminentemente astratto alla realizzazione concreta o, almeno, alla lotta
effettiva per farli trionfare. Nel 1906 viene eletto consigliere provinciale per
la provincia di Girgenti, come esponente dell'Unione Democratica Popolare,
battendo, ancora una volta, nel collegio di Canicattì, il Gangitano, la cui
famiglia aveva monopolizzato fino a quel momento la politica cittadina.
Fondamentale nel suo successo elettorale era stata la propaganda condotta sul
primo fra i tanti giornali da lui fondati, Il Moscone, in cui aveva esposto con
chiarezza e determinazione il suo programma politico centrato, soprattutto, sul
risveglio delle plebi siciliane e sul miglioramento della situazione economica e
sociale della regione. Egli sosteneva la necessità di migliorare le condizioni
di vita delle masse rurali, con una maggiore istruzione e con una maggiore
tutela della salute dei lavoratori, cominciando col fornire loro abitazioni
dignitose. Tutto ciò, insieme ad un maggiore investimento di capitali, avrebbe
nettamente migliorato le condizioni dell'agricoltura, principale risorsa
dell'economia siciliana, rimasta fino a quel momento in uno stato di spaventosa
arretratezza. Pensò bene, perciò, di riportare per intero, sulle pagine del
suo giornale, l'articolo di un esperto nel campo dell'agricoltura, il prof.
Tommaso De Crescenzio, il quale aveva in poche righe sintetizzato il male
fondamentale dell'economia agraria siciliana "[…] il grande proprietario
si diverte da signore in città, l'affittuario sfrutta volgarmente la terra, il
contadino, con fatalismo musulmano, fa quel che i suoi avi facevano e non si
cura di altro[…]."(12)
La pubblicazione dell'articolo del De Crescenzio consentiva a Guarino di far
conoscere, dalle pagine del suo giornale, le occasioni che la legge sul
Mezzogiorno, voluta da Sonnino, offriva all'agricoltura meridionale. Tale legge
prevedeva la riduzione del 30% dell'imposta erariale sui terreni e l'esenzione
totale dei fabbricati rurali dall'imposta sui fabbricati e dall'imposta sui
terreni. Ai fabbricati rurali venivano equiparati fiscalmente anche le case site
all'interno dei centri abitati che servissero da abitazione ai contadini. La
legge Sonnino, peraltro, provvedeva all'antico problema dei contadini, quello
relativo alla mancanza di capitali per comprare le sementi, obbligando i
proprietari a fornirle agli stessi, insieme all'indispensabile per la
coltivazione del fondo e per il mantenimento delle famiglie. Quest'obbligo fatto
al proprietario liberava, finalmente, il contadino dalla piaga dell'usura, per
combattere la quale le masse si erano affidate alla protezione dei clericali
che, tramite le casse rurali, avevano cercato di ovviare a questo drammatico
fenomeno. Pur riconoscendo che il movimento cattolico aveva, in effetti, portato
un certo sollievo al ceto rurale, Guarino era certo che non dalla Chiesa potesse
venire la riscossa per le plebi, né dal movimento socialista. Si trattava,
infatti, di due integralismi che non ammettevano soluzioni diverse da quelle
prospettate dalla loro dottrina, respingendo, dunque, a prescindere da ogni
valutazione di merito, l'apporto che potesse venire al movimento contadino e
all'agricoltura siciliana, in genere, da altre forze politiche. Pur essendo un
progressista, aveva apprezzato fortemente l'impegno meridionalista del
conservatore Sonnino che, con la legge sul Mezzogiorno, aveva fatto molto di
più per il proletariato agricolo meridionale di quanto avessero fatto Giolitti,
malgrado le sue apparenti aperture al problema sociale, e gli stessi socialisti,
interessati quasi esclusivamente alla questione del proletariato industriale del
nord.
Era proprio una caratteristica di Guarino, cosa che peraltro dimostrava il suo
perfetto equilibrio interiore, quella di apprezzare i lati positivi
dell'avversario politico, evitando di demonizzarlo tout court solo perché
combattente sull'altra parte della barricata. Abbiamo molti esempi della sua
tolleranza che non era altro che la manifestazione esteriore di ciò che egli
effettivamente perseguiva: il bene della collettività da chiunque fosse
determinato. Pur essendo un convinto anticlericale, apprezzò, per esempio, il
carisma, la forza interiore e l'impegno sociale del cappuccino canicattinese
padre Gioacchino La Lomia, in cui vide, forse nell'unico, breve incontro della
sua vita, i segni della santità: "[…] Confesso che io vissuto nel
tumulto delle passioni e nei contrasti di lotte aspre, rimasi disorientato. Non
mi ero trovato mai in contatto con un uomo veramente al di fuori e al di sopra
delle passioni umane: avevo di fronte un mondo morale, una psicologia ed
un'intelligenza a me sconosciuti. Umile, sereno, indulgente, esprimeva con poche
parole, sui fatti e sulle persone di cui gli parlavo, un giudizio assolutamente
diverso da quello che avrebbe dato qualunque altro uomo, concorde o discorde da
me. Ciò perché il punto di riferimento dei suoi giudizi era al di fuori e al
di sopra dell'umanità. Ed ebbi allora la sensazione che Padre Gioacchino non
fosse un uomo di questo mondo, ma un Santo"(13)
Nel 1912 Guarino era diventato assessore al Comune di Canicattì, braccio destro
del sindaco Gaetano Rao che, vent'anni prima, era stato il presidente del fascio
locale. Due anni dopo assume le funzioni di pro-sindaco e le mantiene per tutta
la durata del conflitto.Nonostante le difficoltà e le ristrettezze economiche
che la guerra comporta, riesce a realizzare alcune tra le più importanti opere
pubbliche della storia della Canicattì moderna: l'istituto scolastico Rapisardi,
l'ampliamento del cimitero, la bonifica del torrente Naro, il lazzaretto e
soprattutto costituisce il Consorzio tra sette comuni per la gestione
dell'acquedotto Tre Sorgenti. A proposito di questa sua felice sindacatura
commenta il D'Antoni: "Non è facile trovare un capo di parte che sia
veramente il Sindaco della città, né un sindaco che sia davvero un capo. Ma
Guarino Amella realizza nella sua persona questa felice esperienza. Egli, senza
negare le ragioni e gli interessi del partito, lo supera, combattendo le
tendenze utilitarie, gli esclusivismi, le faziosità, sempre ricorrenti, e
soccorre in misura e modi diversi tutti, ricchi e poveri, prodigandosi in mille
forme di assistenza civile[…] A quanti ne invocano l'aiuto, non chiede tessere
e certificati. A nessuno ricorderà mai le ragioni della gratitudine".(14)
Nelle elezioni generali del 1913, le prime a suffragio universale, Guarino si
dimostrò protagonista della vita politica agrigentina lottando strenuamente
contro i clericali, guidati da padre Sclafani, contro i ministeriali dediti al
trasformismo che avevano il loro maggiore esponente provinciale in Gregorio
Gallo e contro la cosca massonica locale capeggiata dal suo nemico di sempre:
Enrico La Loggia. Grazie all'abilità di Guarino e all'intelligente propaganda
condotta attraverso il suo giornale del momento Il Chiodo, lo schieramento
progressista da lui sostenuto riportò una schiacciante vittoria sui clericali
portando in Parlamento l'avv. Marchesano che riuscì vincitore sul canicattinese
Gangitano, il Duca di Cesarò nel collegio d'Aragona e La Lomia Aldisio in
quello di Licata. Risulta strano al giorno d'oggi che un uomo che era
indubbiamente la personalità politica più importante della provincia, si
adoperasse con tutte le sue forze per l'elezione di altri, rimanendo dietro le
quinte, con l'intima soddisfazione di aver fatto trionfare il partito
antigiolittiano.
La rivalità tra Guarino e La Loggia, nata proprio in quel periodo, sarebbe
durata tutta la vita, portando i due, veri campioni dell'intellighenzia
agrigentina e siciliana, a militare su barricate opposte anche quando le loro
idee collimavano. Si trattò certamente più di una rivalità personale che di
un vero e proprio antagonismo politico, dovuto all'impatto tra due grandi menti
e tra due personalità sostanzialmente diverse; la passionalità e
l'intransigenza di Guarino cozzavano contro il tatticismo e il protagonismo di
La Loggia.
Il duello tra i due cavalli di razza agrigentini sarebbe continuato nelle
elezioni politiche del 1919, le prime col sistema proporzionale, quando il
massone La Loggia, pur di sconfiggere il suo diretto rivale, non esiterà a
chiedere l'appoggio dei clericali di Sclafani suscitando così l'ironia del
Guarino che, sulle pagine de Il Chiodo, metteva magistralmente alla berlina
l'accordo innaturale tra due non avversari, ma nemici, il massone Parlapiano e
il clericale Demichele che, dopo la vittoria elettorale "[…] si corsero
freneticamente incontro e si abbracciarono come due fratelli che si erano a
lungo amati senza saperlo. D'altronde è missione del prete unire due anime
sospinte l'una verso l'altra da invincibile impeto d'amore e, se anche l'unione
si rivela contro natura, curerà padre Sclafani d'impartirle l'apostolica
benedizione"(15). In quella consultazione elettorale l'avvocato
canicattinese ottiene dal suo collegio, quasi plebiscitariamente, esattamente
con 37.845 voti, il mandato parlamentare e correttamente, decide, per tutto il
tempo in cui esercita la funzione di deputato, di interrompere l'esercizio della
professione, poiché giudica eticamente incompatibili le due attività. Tuttavia
la legge elettorale che prevede la rappresentanza delle minoranze, concede anche
all'avversario di sempre, La Loggia, un seggio in Parlamento.
Il seggio parlamentare di Guarino Amella sarebbe stato confermato nelle
successive elezioni del 1921 e del 1924, elezioni in cui l'illustre avvocato si
presentò nella lista dei demosociali.
Anche nei confronti del fascismo mantenne un atteggiamento coraggioso, ma
obiettivo, a differenza della retorica melensa degli antifascisti dell'ultima
ora, divenuti pronti ad ergersi in tutta la loro integrità morale contro il
regime liberticida, ma solo quando lo stesso era rotolato nella polvere. Guarino
era stato coerente ai suoi ideali lottando contro il fascismo fin dal suo
sorgere, nonostante alcuni esponenti del suo partito, come Colonna di Cesarò
fossero stati chiamati a far parte del primo governo Mussolini. Fu segretario
dell'Aventino, scelto per ricoprire tale incarico appunto per il suo noto
coraggio e per l'onestà intellettuale. E il coraggio, in effetti, lo dimostrò
in due particolari episodi: quando a Pontecorvo, vicino a Roma, rischiò di
essere bruciato vivo dentro una casa assediata dai fascisti che il giorno prima
gli avevano intimato di lasciare il paese e di rinunziare al comizio contro il
governo e quando, dopo l'inizio della dittatura vera e propria, entrò a
Montecitorio, con le armi in pugno, per superare l'opposizione di Farinacci e
degli altri gerarchi fascisti.
Ritiratosi nella sua Canicattì, dopo le leggi fascistissime del '25, vi
esercitò la professione forense fino all'arrivo degli alleati che lo
investirono dell'incarico di sindaco. Fu così il primo sindaco antifascista
nominato dagli alleati in Sicilia. Tuttavia, fu sempre pronto a riconoscere
quelli che considerava i lati positivi del ventennio: apprezzò indubbiamente il
carattere corporativista dello Stato fascista se, nel suo progetto di Statuto
regionale proponeva, se non la costituzione di una Camera corporativa con
potestà legislativa, almeno un consesso formato dai rappresentanti delle varie
categorie di lavoratori e datori di lavoro che avesse, almeno, potere consultivo
o, addirittura, propulsivo in relazione alle leggi concernenti materie di
competenza regionale.(16) Fu colui che nello stilare, per la Consulta regionale,
la relazione sull'ordine pubblico, chiese addirittura il ripristino delle leggi
di polizia fasciste e della stessa pena di morte, in un momento in cui, per lo
smarrimento generale, tali misure apparivano le più idonee alla situazione
gravissima. D'altra parte anche in relazione al problema del latifondo, le
soluzioni da lui prospettate non erano molto lontane da quelle previste dalla
legge Tassinari sull'assalto al latifondo, del gennaio 1940. Guarino, invero,
premetteva la divisione della proprietà, ad ogni tipo di bonifica, ritenendo
che le migliorie sarebbero naturalmente intervenute in seguito alla gestione
individuale delle piccole quote; tuttavia, auspicava la creazione di un ente che
desse ai contadini l'indirizzo tecnico per una coltivazione razionale
dell'intero latifondo seppur suddiviso in quote: "[…] Così potrà aversi
ancora, nonostante la quotizzazione in proprietà, la possibilità degli
acquisti in comune delle sementi, delle macchine agrarie e la possibilità della
costruzione e della manutenzione in comune dei bevai e delle vie poderali,
perfino la comproprietà delle zone montuose, pascolative, tutto ciò insomma
che esce dall'ambito della piccola proprietà individuale e che richiede unità
d'azioni e di volontà o associazione delle singole azioni e delle singole
volontà coordinate da un unico fine"(17) Il diritto di proprietà era per
lui inscindibilmente legato all'esercizio razionale dello stesso che, dunque,
veniva automaticamente meno, nel momento in cui la proprietà non venisse fatta
fruttare. Un concetto, questo, molto vicino, oltre come abbiamo già detto alle
teorie del Ferrari, anche al programma del fascismo sansepolcrista e del
fascismo di Salò.
Era, peraltro, d'accordo sull'urbanizzazione delle campagne che avrebbe favorito
l'impianto di culture intensive, quindi più redditizie e che poteva ottenersi
soltanto con la costruzione di borghi rurali.
Da uomo tutto d'un pezzo non si faceva scrupoli nel riferire anche gli episodi
che gettavano luce sul fascismo, perché, pur detestandolo egli conservava
sempre rispetto per il nemico che combatteva.(18)
D'altra parte di fronte all'onestà e all'intelligenza dell'interlocutore egli
metteva da parte ogni divisione ideologica e politica, sacrificando l'idea
sull'altare dell'amicizia e della stima personale. Nel suo studio si attorniava
d'allievi, giovani avvocati, quasi tutti militanti nelle file della Democrazia
Cristiana, partito per il quale non nutrì mai particolare simpatia, parlo di
Paolo Trento, di Giuseppe Signorino, di Giuseppe Alaimo. Ebbe veri amici fra gli
stessi fascisti che non disdegnò mai di frequentare a livello di rapporti
assolutamente personali. E quando il regime chiese, dopo le sanzioni economiche
inflitte all'Italia dalla Società delle Nazioni, per l'attacco all'Etiopia, oro
per la patria, Guarino, antifascista della prima ora, fu il primo ad offrire
ciò che di più caro possedeva, la medaglietta d'oro di deputato nazionale,
accompagnando l'offerta con una lettera che così si concludeva: "Nel
cratere che arde sull'altare della Patria si fondono le vecchie e le nuove
passioni"(19)
Fu soprattutto alla fine del secondo dopoguerra che Guarino Amella diede il
meglio di sé, dedicandosi, anima e corpo, alla realizzazione di quell'autonomia
regionale che fin dal 1906 aveva fortemente auspicato. In un momento in cui
l'accentramento politico e amministrativo appariva indiscutibile, Guarino dalle
pagine del suo giornale Il Moscone, sosteneva che l'autonomia era l'unico
rimedio, data la contrapposizione di interessi fra nord e sud e la diversità di
energie e di risorse, per risolvere il divario economico e avviare la Sicilia
verso il progresso: "[…] C'è troppa disuguaglianza tra i nostri
caratteri e finché saremo governati da uniche leggi, i nostri sforzi per
avanzare saranno vani, quel che c'è di barbaro in mezzo a noi metterà più
solide radici, perché è impossibile che un popolo si possa levare ad altezza
di sentire, ad alte idealità, quando le leggi che lo governano non mirano al
suo benessere materiale e morale".(20) Erano, tutto sommato, le idee già
espresse in Lombardia da Dario Papa e dal Niceforo, alla fine del secolo
precedente; essi auspicavano, rispettivamente, una secessione del nord dal sud e
una legislazione diversa per le due parti del Regno. Era anche l'idea propugnata
da Salvemini che aspirava, almeno, a quel federalismo fiscale, che sarebbe stato
abbracciato dal Guarino, proprio nel suo schema di statuto regionale.
Quest'idea che Guarino coltivava da tempo non poté più essere discussa per
l'avvento, prima della guerra, e poi del fascismo. Nel secondo dopoguerra il
problema venne precipitosamente a galla per lo scoppio, nella Sicilia liberata
dagli americani e formalmente fuori dalla guerra, della tempesta
indipendentista.
Non si può parlare a riguardo, come fanno alcuni storici di una forma di
reazione alla tirannide accentratrice fascista, quanto, a mio parere, del
riaffiorare periodico dello spirito separatista siciliano che, come scrive
Renda, scorrendo come un fiume carsico sotterraneamente, affiora impetuoso ogni
qualvolta una crisi istituzionale si affaccia all'orizzonte, quasi un sisma che
scombini i precari equilibri esistenti.
Se guardiamo alla storia della nostra terra, tale fiume carsico affiorò per la
prima volta nel 1282 con la rivoluzione dei Vespri, quando l'Isola, estinta la
dinastia normanno-sveva, perdeva la sua indipendenza a favore degli angioini di
Napoli; nel 1812 in seguito al rimescolamento d'equilibri europei dovuto alle
guerre napoleoniche e alla conquista da parte dei francesi del Regno di Napoli,
nel 1820 in seguito alla crisi della monarchia borbonica scaturita dalla rivolta
carbonara di Morelli e Salviati; nel 1848 nel clima di generale ribellismo
prodottosi in Europa, probabilmente anche in seguito alla carestia e dunque alla
crisi economica dell'anno precedente; nel 1866 dopo l'unità e soprattutto dopo
la soppressione di quelle compagnie religiose che supplivano all'assenza dello
Stato nell'assistenza dei più poveri; nel 1894 si registrò solo un sussulto
autonomista, più che separatista, in seguito alla repressione dei Fasci
siciliani e alla crisi di fine secolo e infine nel 1943 dopo la sconfitta
militare, l'occupazione nemica e la caduta del regime fascista.
Fu certamente questo rigurgito di separatismo che rimise sul tappeto una
questione da qualche tempo accantonata, ma mai completamente dimenticata.
Il separatismo di Finocchiaro Aprile si nutriva di rivendicazioni e
recriminazioni contro uno Stato che, nei secoli, in Sicilia era stato sempre
latitante o, quantomeno distratto. Si rivangavano tutti i torti che l'Isola
aveva subito fin dall'Unità, quando era divenuta mercato delle merci del nord,
alla stregua di un vero e proprio possedimento coloniale. Nella loro battaglia i
separatisti furono in un primo tempo incoraggiati, seppur in maniera quantomeno
equivoca, dagli anglo americani che, in quel momento avevano bisogno di agire su
un ambiente non ostile e perciò non potevano che appoggiarsi su quel piccolo
stuolo di antifascisti costituito dai mafiosi e dai separatisti. Questi ultimi
tornavano ad agire come i vecchi feudatari del '500 e del '600, i quali si
servivano del malcontento popolare per scatenare rivolte miranti a conservare il
loro stato di privilegio. Così separatisti e mafiosi speravano di poter
gestire, senza ostacoli di sorta, una Sicilia indipendente da uno Stato che,
diviso dalla guerra civile, occupato a nord e a sud dai nemici, non avrebbe
avuto, in quel momento, la forza di reagire.
Malgrado la Sicilia avesse aderito quasi unanimemente al fascismo, soprattutto
dopo la campagna antimafia di Mori, dopo la caduta del regime, i notabili
siciliani si affrettarono ad abbracciare la tesi del fascismo come malattia del
Nord.(21) Le menti più vigili capivano perfettamente che l'indipendenza era
soltanto un pericoloso sogno; a parte le remore di carattere patriottico che in
molti esponenti della classe intellettuale e politica siciliana, cresciuti nel
mito del Risorgimento, si affacciavano con forza, era chiaro ai meno sprovveduti
che la Sicilia da sola non avrebbe potuto reggersi soprattutto dal punto di
vista economico. Furono proprio questi uomini, che avrebbero costituito la
futura nuova classe politica regionale, a scendere immediatamente in campo per
arginare i danni che la propaganda separatista avrebbe potuto seminare e a
preparare un idoneo ritorno della Sicilia nell'alveo nazionale.
Tra i primi a scendere nell'agone politico fu Enrico La Loggia che, soppiantato
ormai da tanti anni, all'interno della provincia, dalla leadership di Guarino
Amella, vedeva giunta l'occasione per riprendere il controllo della situazione.
Lo fece fondando il Fronte Unico Siciliano contro il separatismo e scrivendo il
primo libro che uscì dalle tipografie della Sicilia occupata, Ricostruire,
puntigliosamente centrato sull'assetto che l'Isola avrebbe dovuto assumere dopo
la fine della guerra. Proprio da quel libro sarebbe nata l'idea di quel famoso
articolo 38 che tanta fama avrebbe dato al politico agrigentino, tanto da far
sì che venisse definito come il vero padre, insieme a Sturzo, dello Statuto
siciliano. Fondare la paternità dello statuto sulla elaborazione di un solo
articolo, peraltro il più chiacchierato, o sugli appelli che dagli Stati Uniti
giungevano dall'esule calatino, appare quanto meno esagerato, mentre studiosi
come Guarino, Salemi, Vacirca, Mineo, Montalbano, spendevano tutte le loro
energie per la redazione di uno strumento istituzionale che fosse il più
completo possibile e il più adatto alle esigenze della popolazione siciliana.
Tuttavia, già dalle tesi avanzate da La Loggia nel suo Ricostruire, si
evidenzia la diversa impostazione che egli volle dare, rispetto a Guarino o al
Vacirca, alla futura autonomia regionale. La Loggia parte da intenti
riparazionisti, dal dovere di uno Stato patrigno di ripagare la Sicilia, da
sempre trascurata, dai torti subiti nel passato. Accertato che la quota della
popolazione attiva siciliana era minore della media nazionale, l'agrigentino
suggeriva un intervento statale, attraverso la spesa pubblica e trattamenti
fiscali preferenziali, che accrescesse l'occupazione e perequasse "le quote
di popolazione attiva delle varie regioni proletarie a quelle delle regioni più
ricche".(22)
L'autonomia che intendeva La Loggia, consisteva semplicemente in un
decentramento di uffici amministrativi, poiché egli rifiutava a piè pari
l'istituzione di un organo legislativo regionale, insomma rifiutava il
decentramento politico che avrebbe comportato il rischio di scivolare verso il
federalismo per "[…] la storica accensibilità del popolo siciliano più
volte (come nel 1837, nel '62, '66 e '93) sviatasi e trascesa […] e non
contenuta e difficilmente contenibile senza la forza e il prestigio di un potere
nazionale". Un decentramento legi-slativo - secondo La Loggia - sarebbe
forse convenuto "[…] più alle regioni ricche, le quali non hanno
rivendicazioni da far valere, anziché alle regioni povere che verso le altre
vantano un credito che vorremmo chiamare storico - unitario. […] il regionale
bisogno, più che di una irrilevante riforma amministrativa…[è] di un
indispensabile e vigoroso apporto ad un industrialismo isolano".(23) Una
regionalizzazione, dunque, di carattere apolitico che non si scontrasse con le
esigenze di unità politico - amministrativa e che si esaurisse nel settore
economico sindacale, con la costituzione di una Camera regionale, e in quello
dei Lavori pubblici, mediante la creazione di un Ufficio Regionale.
Il padre dell'autonomia, dunque, almeno in un primo tempo non era per nulla
autonomista e la sua proposta, mirante a conciliare le esigenze unitarie e le
rivendicazioni meridionalistiche, non era nient'altro che un palliativo
giuridico- istituzionale per tenere a bada le istanze separatistiche. Niente di
più, dunque, rispetto al progetto minghettiano che puntava su un decentramento
regionale assolutamente amministrativo, senza nessuna sfumatura di carattere
politico che il Minghetti, invece, riservava, per ragioni di ordine storico, a
comuni e province. "La monarchia nazionale da un lato, il decentramento
amministrativo dall'altro, erano, secondo lui, la premessa per realizzare
l'unione tra 'forza centrale e libertà locale, necessaria a soddisfare le
esigenze delle diverse classi sociali mediante interessi altrimenti
incompatibili"(24)
Di tutt'altro avviso il Vacirca, da sempre socialista, ma da sempre geloso
custode delle peculiarità della sua Isola che, l'11 gennaio 1944, presentava ai
rappresentanti dell'AMGOT uno schema di statuto per l'autonomia siciliana
chiedendo che l'obbligo dello Stato italiano di dare l'autonomia alla Sicilia
fosse imposto nello stesso trattato di pace. Il progetto Vacirca - Montesanti
affidava ad un'Assemblea costituente siciliana, eletta a suffragio universale,
il compito di designare i modi e le forme dell'elezione di un'assemblea
legi-slativa che sarebbe durata in carica due anni e di elaborare i regolamenti
e gli organici dei vari dipartimenti che avrebbero costituito l'impalcatura
burocratico - amministrativa della regione autonoma siciliana e di approvare una
carta costituzionale regionale.
Il progetto si spingeva fino a chiedere un proprio sistema doganale per la
Sicilia e l'autonoma imposizione e riscossione delle imposte. In compenso la
regione avrebbe pagato annualmente allo stato una somma proporzionale alla
ricchezza totale dell'Isola, alle tasse che avrebbero pagato le altre regioni e
ai servizi forniti dallo Stato ai siciliani.(25)
Il progetto di Vacirca, per il suo radicalismo, scandalizzò i più moderati,
come La Loggia, il quale addirittura parlò di autonomia separatista. Tuttavia,
stretto tra i separatisti e gli autonomisti più radicali, attratti soprattutto
dal progetto di regime doganale autonomo che il Vacirca prospettava, La Loggia,
per non perdere gli agganci con i cattolici, tradizionalmente autonomisti, ma
anche con le forze economiche della regione, inserì nel suo primitivo progetto
l'attribuzione alle Camere regionali economiche e sindacali della potestà
deliberativa vincolante per l'esonero dai dazi doganali delle merci importate in
Sicilia. Improvvisamente anche La Loggia perveniva ad una vera proposta politica
e a una riforma di carattere costituzionale, pur giustificando questo suo
comportamento con le solite ragioni riparazioniste.(26)
L'11 febbraio 1944 la Sicilia veniva restituita dagli alleati
all'amministrazione del Regno d'Italia, rappresentato dal governo del
maresciallo Badoglio. Ciò determinò violente proteste da parte dei
separatisti, ma anche nel campo degli autonomisti creò qualche problema. Adesso
che la Sicilia era pienamente tornata sotto la giurisdizione dello Stato
italiano, l'autonomia diveniva questione nazionale e se non era facile mettere
d'accordo tutti i siciliani sulla scelta autonomista, ancora più difficile
appariva ottenerla da uno Stato in piena crisi militare ed istituzionale, a meno
che non si agitasse davanti al governo Badoglio lo spauracchio del separatismo.
In effetti il movimento separatista faceva non poca paura alla classe politica
italiana, pronta alla ricostruzione dopo la fine della guerra che si rivelava
ormai prossima. Esisteva il concreto pericolo che il territorio italiano ne
uscisse mutilato non solo delle terre orientali, Istria e isole dalmate, ma
anche della Sicilia, la più estesa delle regioni della penisola, la più ricca
di storia. Perciò apparve conveniente dare ai siciliani almeno un'illusione di
autogoverno nominando un Alto Commissario di nomina governativa che
sovrintendesse a tutte le amministrazioni civili dello Stato nell'Isola, agli
Enti locali, agli Enti ed Istituti di diritto pubblico ed agli Enti soggetti a
tutela o vigilanza dello Stato e che coordinasse e indirizzasse l'azione dei
prefetti e delle altre autorità civili, esercitando in Sicilia tutte le
attribuzioni delle Amministrazioni centrali dello Stato, ferme restando
l'autorità e la competenza del Consiglio dei Ministri e fatta eccezione per
l'amministrazione della Giustizia, della Guerra, della Marina e
dell'Aeronautica. Per assisterlo venne istituita una Giunta Consultiva, prima di
sei membri, poi di nove, uno per ogni provincia siciliana e, infine, di 36 -
dopo un'aspra battaglia politica la cui storia è ancora oggi ignota - e fu
quest'ultima, insediatasi a Palazzo delle Lapidi il 25 febbraio del '45, a
discutere ed approvare lo Statuto. La seduta inaugurale avrebbe dovuto essere
solennemente presieduta dal capo del governo Bonomi, ma, alla fine, questi si
limitò a mandare un messaggio di saluto, letto da Aldisio, allora ministro
degli Interni, dove si sottolineava la necessità che un'ancora ipotetica
autonomia regionale, sui limiti della quale le opinioni apparivano molto
discordi, non costituisse un allentamento del legame col passato unitario.
Aldisio commentò la lettura del messaggio in senso più favorevole al carattere
costituente della Consulta "sia perché la sua elaborazione giuridica nel
quadro dell'unità nazionale formerà lo scopo principale degli studi [dei
consultori], sia perché l'esperimento consultivo costituirà, da una parte, la
dimostrazione del grado di maturità politica delle regioni d'Italia al loro
autogoverno e dimostrerà, dall'altra, l'attitudine dell'ente regione non già
ad allentare, ma a rinvigorire il vincolo nazionale."(27)
Primo Alto Commissario fu nominato, l'8 marzo 1945, Francesco Musotto, già
prefetto di Palermo, gradito sia agli alleati, sia ai separatisti. Una delle
attribuzioni concesse all'Alto Commissario era quella di partecipare alle
riunioni del Consiglio dei Ministri dedicate alla trattazione di affari
riguardanti la Sicilia, senza voto deliberativo.
Se per il governo Badoglio la nomina dell'Alto Commissario aveva un significato
interlocutorio, serviva, cioè, a tacitare i fermenti indipendentisti siciliani
prima di riassorbire l'isola nel normale sistema amministrativo centralista,
tant'è che il decreto di nomina limitava l'esercizio delle funzioni dell'Alto
Commissario ad un solo anno, per i siciliani, invece, si trattava solo di una
prima tappa verso la completa autonomia, tant'è che Salvatore Aldisio, nominato
ministro degli Interni nel secondo governo Badoglio, dichiarò di subordinare la
sua permanenza nell'esecutivo al riconoscimento di massima del regime
autonomistico alla Sicilia, il più presto possibile. Del resto subentrato da
lì a quattro mesi all'uscente Musotto nel ruolo di Alto Commissario, intessé
una fitta rete diplomatica per ampliare i suoi poteri ed accelerare la
concessione dell'autonomia alla Sicilia.(28)
La prima seduta della Consulta, in effetti, dimostrò le diverse anime dei suoi
componenti e soprattutto le differenze d'opinioni che scaturivano dalle
molteplici formazioni ideologiche. Infatti, Li Causi, rappresentante del PCI,
cercò di focalizzare l'attenzione dell'Assemblea sul ruolo che i Comitati di
Liberazione avrebbero dovuto avere nel periodo di ricostruzione della Sicilia
che iniziava appunto, formalmente, con la convocazione dell'illustre consesso,
soprattutto come spinta democratica intesa a sconfiggere gli elementi reazionari
che già tentavano di porsi alla guida dell'esperimento autonomistico. Se le
parole di Li Causi furono accolte con entusiasmo a sinistra, molto tiepida se
non infastidita fu la reazione dei liberali, dei demolaburisti e dei
democristiani, ma chi interpretò con maggiore veemenza tale fastidio, il
tentativo, cioè, dei comunisti di politicizzare fin dall'inizio l'opera della
Consulta, distribuendo patenti di democraticità secondo i loro criteri, fu
Giovanni Guarino Amella:
"Voglio fare innanzitutto qualche rilievo sul discorso Li Causi; è
necessario farlo perché il silenzio non possa essere interpretato con consenso
a qualche sua affermazione. Egli, che ha parlato a nome del Comitato di
Liberazione della provincia di Palermo, ha detto che questa assemblea
costituisce il primo decisivo passo verso la democrazia. Mi pare che Li Causi
per foga oratoria abbia esagerato. Questa assemblea, così come è stata
costituita e voluta dal Governo, non è affatto, per ora, un passo verso la
democrazia; molto meno è un primo passo e ancora meno un passo decisivo[…]
Dire, quindi che questa Assemblea, nominata soltanto per metà su indicazione
dei partiti e priva di ogni potere deliberativo, senza facoltà di risolvere
alcun problema, sia un primo decisivo passo verso la democrazia, è una frase di
effetto senza rispondere alla realtà.
Altro rilievo debbo fare su quanto Li Causi ha detto relativamente ai Comitati
siciliani di Liberazione, che egli chiama "vera istituzione
democratica". Mi pare di sapere che egli sia venuto in Sicilia di recente […]
Ma ormai egli è da alcuni mesi in mezzo a noi e non è giusto che egli chiuda
gli occhi per non vedere e si turi le orecchie per non sentire. Qui in Sicilia i
Comitati di Liberazione non sono spesso che organi di manovre elettoralistiche
per il collocamento degli amici e degli aderenti nei vari posti di comando. I
loro componenti non hanno liberato nulla; quelli che si dichiarano esponenti di
uno dei sei partiti, spesso non hanno dietro di sé che cinque o sei persone,
magari quindici o venti, distaccati artificiosamente da altro partito, a scopo
di rafforzare questo dandogli un altro voto nella sistemazione di amici agli
uffici e alle cariche pubbliche.
Il prof. Li Causi offende i nobilissimi Comitati di liberazione nazionale della
Grecia, della Polonia, della Francia e anche dell'Italia continentale mettendoli
a confronto ai comitati siciliani senza discriminazioni.
Il Li Causi deplora che si sia detto che in Sicilia i Comitati di Liberazione
non abbiano ragione di esistere. Non lo deplori; lo riconosca, invece, e con
lealtà si associ a tale giudizio, che del resto è stato consacrato per due
volte negli articoli del giornale" L'Avanti!" a firma del suo amico
Nenni. […]"
Riguardo poi alla discussione sull'autonomia, Guarino sottolineava come la
nomina di un Alto Commissario le cui funzioni erano limitate ad un anno e di una
consulta avente soltanto potere propositivi, non si prestava certo ad essere
interpretata come esperimento autonomistico, bensì come la premessa ad un
decentramento amministrativo che ormai alla Sicilia non bastava più. Proponeva,
quindi, di elaborare "uno schema di provvedimento da sottoporre al governo
e al popolo siciliano, che conferisca alla Consulta, nella sfera delle attività
di un organo autonomo regionale, i compiti e le attribuzioni atte a conseguire
le più urgenti e necessarie realizzazioni nel campo economico e sociale e che
sancisca la elettività di tale organo"(29)
Intanto nell'agosto del 1945 il governo Bonomi costituiva la Consulta Nazionale
di cui veniva chiamato a far parte Giovanni Guarino Amella, Consulta che si
riuniva per la prima volta a Palazzo Montecitorio il 25 settembre successivo.
Subito dopo l'insediamento dell'Assemblea, i consultori siciliani si riunivano
adottando una risoluzione unanime che venne presentata il 30 settembre proprio
da Guarino Amella, con cui si sollecitavano immediati aiuti per la Sicilia in
risorse energetiche, materie prime e lavori pubblici. La risoluzione iniziava
ricordando al governo l'impegno già precedentemente preso in relazione alla
concessione dell'autonomia all'Isola:
"I Consultori nazionali della Sicilia, mentre si fanno interpreti
dell'unanime sentimento con cui s'invoca nell'isola la sollecita attuazione
della tanto invocata autonomia nel quadro dell'unità nazionale, segnalano al
Governo l'improrogabile necessità che sia urgentemente provveduto agli
impellenti e molteplici bisogni di carattere economico e tecnico dai quali
dipende in questo momento la vita stessa delle tribolate popolazioni dell'isola[…].(30)
Tale proposta, tuttavia, fu lasciata cadere, soprattutto per l'opposizione dei
socialisti.
Se la questione dell'autonomia era oggetto d'appassionate discussioni nei
salotti della borghesia siciliana, altri problemi più tangibili tormentavano le
miserabili plebi delle campagne. Oltre alla mancanza di generi alimentari e di
carbone, ciò che più preoccupava la gente erano le condizioni disastrose in
cui si trovava la pubblica sicurezza, minacciata sia dalle bande armate che
imperversavano per tutto il territorio dell'Isola, sia dai piccoli delinquenti
comuni in cerca del necessario per sopravvivere, sia dagli atti di sciacallaggio
diretti soprattutto alle abitazioni velocemente abbandonate per la paura dei
bombardamenti. Nel secondo Convegno dei sindaci e presidenti di deputazioni
provinciali, riunitosi a Palermo il 4 giugno del '44 e presieduto da Tasca,
Guarino Amella presentò la sua puntigliosa relazione sull'ordine pubblico. Tale
relazione si concludeva con un documento, che fu approvato dall'Assemblea, in
cui si elencavano una serie di proposte dirette al miglioramento della
situazione. Guarino proponeva, innanzi tutto, la creazione di una direzione
regionale dei servizi di pubblica sicurezza, poiché da Roma era impossibile
combattere appieno la delinquenza siciliana che aveva caratteristiche
particolari rispetto a quella d'altre regioni e, quindi, suggeriva una serie di
misure ritenute particolarmente urgenti:
- eliminare dal personale addetto alla sicurezza pubblica quelli con famiglia a
carico, poiché chi ha il peso di una famiglia non può avere quello spirito di
sacrificio e quella libertà d'azione, indispensabili alla missione da compiere,
e i richiamati che dopo tanti anni di vita civile, non davano grande
affidamento;
- impedire che tale personale esercitasse le sue funzioni in luoghi vicini ai
paesi d'origine o che fossero residenza di parenti o affini;
- allontanare il personale dai comuni in cui si trovava durante il periodo
fascista, poiché indubbiamente erano stati oggetto di contatti, compromissioni,
transazioni tali, da renderli inidonei a continuare a svolgere il loro servizio
in quegli stessi luoghi;
- elevare la retribuzione e migliorare l'alimentazione;
- reclutare nuovi elementi;
- fornire il personale di mezzi celeri e di armi moderne, poiché mentre i
delinquenti erano forniti di bombe a mano e di mitragliatrici, le forze di
polizia dovevano affrontarli con antichi moschetti;
- favorire l'organizzazione e il funzionamento dei corpi di assistenza privata e
garantire da processi il cittadino che reagisca all'aggressione di delinquenti;
- intensificare l'opera preventiva delle commissioni del confino di polizia
secondo la legislazione prefascista;
- facilitare da parte delle autorità comunali il rilascio del porto d'armi ai
cittadini incensurati;
- disporre un rigoroso rastrellamento delle armi da guerra;
- adeguare il prezzo del grano e le razioni di pane e pasta alle necessità
agrarie e alle tradizioni e bisogni alimentari delle popolazioni siciliane, come
unico mezzo per eliminare il mercato nero.(31)
La relazione fu ripresa da Rondelli al Congresso della Democrazia del Lavoro a
Catania, l'anno successivo, fu approvata e fu votata anche la proposta, già
avanzata dal Guarino, di istituire un'imposta speciale di polizia sulla
proprietà immobiliare e un'addizionale, allo stesso fine, sull'imposta di
Ricchezza Mobile, dovuta da affittuari, allevatori ed industriali.
Alla fine dell'aprile 1945, dato il peggioramento della situazione della
pubblica sicurezza, la Consulta Regionale aveva deciso di nominare un'apposita
commissione ristretta costituita da Girolamo Li Causi, Giovanni Guarino Amella e
Giuseppe Alessi. Il 3 maggio la commissione depositò una relazione di
indiscutibile gravità, che Alessi non sottoscrisse, preoccupato che in tal modo
si presentasse un'immagine troppo negativa della Sicilia. La relazione
dettagliatissima, oltre a riproporre le misure già suggerite nel giugno
dell'anno precedente all'Assemblea dei sindaci e dei presidenti delle province,
richiedeva se non la revoca, anche solo la sospensione dei decreti del gennaio
precedente che regolavano secondo norme più democratiche il confino di polizia
e abolivano la pena di morte per i reati più gravi. Tornando alla proposta,
fatta un anno prima e poi discussa nell'aprile precedente al Congresso del
partito, Guarino sottolineava che il bisogno di sicurezza pubblica era tanto
impellente fra le popolazioni siciliane che ben volentieri si sarebbero
sobbarcate un altro onere fiscale allo scopo di rendere più motivato e quindi
più efficiente il personale della forza pubblica:
"[…] Così la Sicilia accoglierebbe di buon animo un immediato decreto
che autorizzasse l'Alto Commissario a gravare temporaneamente tutta la
proprietà immobiliare di una speciale imposta di polizia proporzionata
all'estensione del terreno ed al numero dei vani dei fabbricati, e ad imporre
una addizionale sull'imposta di ricchezza mobile dovuta dagli affittuari,
allevatori, industriali. Così parimenti sarebbe ben accolto un provvedimento
che allo stesso fine raddoppiasse o anche quadruplicasse i diritti che si pagano
per ogni variazione dell'anagrafe bestiame, diritti oggi troppo bassi,
assolutamente inadeguati al valore odierno degli animali, che supera 40-50 volte
il valore dell'epoca in cui tale misura fu stabilita.
In tal modo si potrebbero agevolmente ricavare qualche centinaio di milioni,
sufficienti a fronteggiare le maggiori spese di equipaggiamento e indennità per
lo speciale corpo di polizia destinato a riportare definitivamente nel giro di
qualche anno alla normalità le condizioni della sicurezza pubblica in
Sicilia".
Tale relazione non venne approvata dalla Consulta, pur essendo perfettamente
aderente alla realtà, essendo stata ritenuta un troppo grave atto d'accusa
all'Alto Commissario Aldisio.(32)
Il 25 novembre 1944 si era celebrato ad Acireale il Congresso della Democrazia
Cristiana regionale; in quell'occasione Franco Restivo aveva illustrato
all'Assemblea la sua proposta di statuto siciliano, avvalendosi sia degli studi
di Ambrosini a tal riguardo, sia del dibattito politico in corso e degli altri
progetti già illustrati. Restivo, mentre ammetteva la potestà legislativa
regionale solo su quelle materie strettamente attinenti alla regione, prevedeva
un potere consultivo dell'organo legislativo regionale su materie relative alla
finanza locale e al sistema doganale; ipotizzava la facoltà, da parte di tale
organo, di presentare al Parlamento nazionale schemi di provvedimenti da esso
elaborati e di sostituirsi a taluni organi nazionali nel procedimento di
formazione di particolari atti legislativi. Sull'iter di formazione delle leggi
regionali, Restivo proponeva che l'atto legislativo approvato dall'assemblea
regionale venisse esaminato dal Senato, inteso come consiglio delle regioni,
prima di diventare legge con la promulgazione del capo dello Stato. Quanto alla
composizione dell'organo legislativo regionale, Restivo propendeva per una
rappresentanza mista, costituita per due terzi da membri eletti a suffragio
universale e per un terzo da membri eletti col sistema della rappresentanza di
interessi, con un ugual numero di rappresentanti per la categoria dei
lavoratori, dei datori di lavoro e dei professionisti e tecnici.(33)
Come si può notare nel progetto illustrato da Restivo la potestà legislativa
della regione appare limitatissima e, peraltro, comunque dipendente dal vaglio
finale del Senato. Tale proposta, molto più vicina al tradizionale regionalismo
sturziano che all'autonomismo vero e proprio, documenta il graduale passaggio
della DC dall'iniziale semplice decentramento amministrativo all'autonomia piena
di cui si sarebbero fatti paladini alcuni dei suoi maggiori esponenti, da
Aldisio, ad Alessi, allo stesso Sturzo.
Il terzo progetto di Statuto presentato e, questa volta, discusso davanti alla
Consulta, fu quello del prof. Paresce, allora sottosegretario al Ministero della
Finanze, che lo presentò alla fine del marzo '45 al Comitato siciliano d'azione
di Roma dove, peraltro, lo illustrò personalmente il 4 aprile, nel corso di una
conferenza da lui tenuta, sul tema: "Regione, presidio di libertà".
Secondo Paresce gli organi della Regione avrebbero dovuto essere: il Consiglio
generale di 80 membri, in carica per un triennio, eletto, per metà, a suffragio
universale diretto e, per l'altra metà, dai consigli provinciali e dai
direttivi degli enti sindacali. Capo dell'amministrazione regionale e
rappresentante del governo col rango di ministro, sarebbe stato il presidente
regionale, nominato dal capo dello Stato fra una rosa di cinque nomi propostagli
dal Consiglio. La giunta regionale, composta da sette assessori (lavori
pubblici, istruzione, finanze, agricoltura, giustizia, economia e lavoro,
comunicazioni), sarebbe stata nominata dal presidente scegliendo gli assessori
fra i membri del Consiglio. Quest'ultimo avrebbe avuto competenza legislativa
complementare, nel quadro della legislazione di principio dello Stato, nelle
seguenti materie: ordinamento amministrativo regionale, con esclusione
dell'ordinamento dei comuni, delle province e degli uffici statali; pubblica
istruzione; piani di ricostruzione e di valorizzazione economica della Regione;
modalità di esproprio per lavori di pubblica utilità; antichità e belle arti,
caccia e pesca fluviale, sanità e assistenza pubblica e regime di elettricità
(eccetto le linee di importanza nazionale). L'esecutivo regionale avrebbe
gestito, fra l'altro, i servizi postali e telefonici, i trasporti pubblici,
miniere, aziende agricole modello, aziende di produzione e distribuzione di
energia elettrica, luoghi di pena, l'esazione delle imposte e delle tasse di
competenza regionale.
Le entrate regionali sarebbero state costituite dal gettito di alcune tasse
prima statali, da percentuali del gettito di tasse statali, dal gettito di
eventuali tasse o imposte regionali, oltre alle entrate provenienti dai beni
demaniali. La regione avrebbe potuto emettere prestiti pubblici e il Consiglio
sarebbe stato chiamato a dare il proprio parere sul regime doganale nazionale e
sui trattati di commercio riguardanti i prodotti regionali.(34)
Tele progetto, che venne illustrato il 9 aprile a Catania da Avarna di Gualtieri,
al Congresso dei demolaburisti, appariva più adatto ad un sistema regionalista
accentuato che ad un regime fondato sull'autonomia della regione. Ad essa erano
assicurati ben pochi poteri, anche la pesca marittima era considerata di
competenza statale, alla regione rimaneva, niente poco di meno che, la
competenza sulla pesca fluviale!
Il progetto appariva tanto più insoddisfacente soprattutto se confrontato con
quello che aveva presentato Guarino Amella, soltanto il pomeriggio precedente e
che costituiva, in effetti, assieme a quello di Vacirca, un vero schema di
autonomia regionale, partendo da premesse completamente differenti rispetto a
quelle di La Loggia e, soprattutto, rispetto alla proposta Restivo. Pur non
negando che fosse stato spinto a tale passo dalla necessità di arginare il
movimento separatista, non bisogna dimenticare che, fin dal 1906, dunque in
tempi non sospetti, il giurista agrigentino, aveva auspicato la nascita di una
regione autonoma che potesse risolvere più prontamente e più efficacemente i
problemi peculiari della Sicilia.
Fin dal momento della presentazione del suo progetto all'Assemblea del partito,
Guarino specificava che si trattava d'un progetto di statuto, dunque di legge
costituzionale e non ordinaria, che avrebbe dato alla Sicilia un'autonomia
politica e non soltanto amministrativa. Egli proponeva di chiamare l'organo
legislativo che in Catalogna, al cui statuto per molti punti s'ispirarono sia
Guarino che Salemi, si chiama Generalidad e in Austria Dieta, più modestamente
Consiglio Regionale. Prospettava all'auditorio un dilemma: i 100 membri di tale
Consiglio sarebbero stati eletti per elezione diretta o di secondo grado? Coloro
che propendevano per l'elezione di secondo grado, cioè demandata ai Consigli
provinciali e comunali, alle assemblee dei rappresentanti delle categorie dei
lavoratori e dei datori di lavoro, nonché delle organizzazioni professionali e
di mestiere, sostenevano che non fosse conveniente sottoporre l'elettorato a
troppe consultazioni elettorali. I sostenitori dell'elezione diretta, invece,
sostenevano che, trattandosi dell'elezione di un corpo legislativo, non si
potesse prescindere dall'interrogare direttamente il popolo senza violare i
principi fondamentali della democrazia. Per Guarino l'essenziale era che
l'organo legislativo provenisse da elezione regionale, sul resto si sarebbe
potuto decidere in seguito: "Io penso che di tali questioni la soluzione
può essere diversa secondo le circostanze di tempo e di luogo, secondo cioè la
maggiore o minore maturità politica e la situazione politica di un dato momento
storico. E può essere diversa anche da un altro punto di vista, che va
esaminato con attenzione: l'opportunità, cioè, che i rappresentanti
dell'organo legislativo della Regione abbiano origine da corpi elettorali e
sistemi elettorali che hanno eletto i rappresentanti del Parlamento nazionale,
per evitare inutili doppioni o, peggio, eventuali stridenti contrasti
d'atteggiamenti degli eletti nelle due assemblee in analoghe questioni politiche
od economiche".
Il secondo dubbio che Guarino esternava all'assemblea del partito era relativo
alla composizione del Consiglio elettivo regionale. Sarebbe stato opportuno che
fosse costituito solo da rappresentanti politici, o sarebbe stato meglio
affidarsi a rappresentanti del mondo economico, o ancora meglio propendere per
un organo a composizione mista? Lasciare il compito di legiferare ad
un'assemblea costituita solo da rappresentanti del mondo del lavoro, avrebbe
comportato il rischio di affidarsi ad un organismo dalle vedute ristrette,
capace di legiferare più a favore degli interessi di categoria che di quelli
dell'intera collettività. Sarebbe stato ideale far sì che le leggi passassero
sotto il vaglio di due assemblee, una politica e l'altra economica, ma
risultando ciò eccessivamente farraginoso, si sarebbe potuto optare per un
organo legi-slativo a composizione mista, formato, cioè, per due terzi da
membri eletti a suffragio universale e per un terzo col sistema della
rappresentanza degli interessi: "[…]qualcosa come la Camera dei Fasci e
delle Corporazioni o come il Consiglio dei Paesi e delle Professioni stabilito
nella legge costituzionale del 1929 dalla Repubblica federale
austriaca"(35). Tale soluzione, tuttavia, gli faceva temere il sorgere di
contrasti tra le due anime dell'assemblea per il diverso modo di vedere le cose:
"[…] Io penso, invece- ed in ciò sono d'accordo con Sturzo- che la
potestà deliberativa debba essere lasciata all'assemblea politica, che
necessariamente varia nella sua composizione, perché trae origine diretta dalla
volontà popolare e dalla multiforme espressione di svariate esigenze e
interessi diversi. Così nell'assemblea elettiva politica, quale organo
sintetico, si coordinano come in una camera di compensazione gli interessi
specifici per una visione reale e simultanea degli interessi generali, della
loro immediatezza, della loro maggiore o minore importanza. Ma con ciò non
voglio escludere che sia ascoltata anche la voce dei diretti rappresentanti
degli interessi di categoria. E con l'art. 21 io propongo che ogni legge, prima
dall'essere votata dal Consiglio regionale, sia sottoposta all'esame di corpi
speciali consultivi e tecnici: dell'agricoltura, del commercio, dell'industria,
del lavoro, delle professioni, della scuola, ecc."(36)
Il presidente della Regione sarebbe stato eletto con scrutinio segreto, a
maggioranza assoluta dal Consiglio, davanti al quale sarebbe stato responsabile
insieme alla Giunta. Avrebbe avuto il rango di ministro in posizione
assolutamente paritaria rispetto agli altri componenti del governo nazionale.
Il terzo punto che Guarino sottoponeva all'attenzione del Congresso era forse il
più importante, poiché concerneva la scelta delle materie che rientrassero
nella competenza legislativa regionale. Qui soprattutto sta l'originalità del
suo progetto, visto che esso è l'unico che preveda una competenza legislativa
regionale determinata negativamente. Fermo restante che alcune materie non
possono che rimanere, per la loro stessa natura, di competenza statale (acquisto
e perdita della cittadinanza, relazioni tra Stato e Chiesa, politica estera,
immigrazione, emigrazione e regime degli stranieri, estradizione, difesa
nazionale, grandi linee di comunicazione, sistema monetario e proprietà
intellettuale) e tenuto conto che per altre materie appaia opportuno che sia lo
Stato ad emanare i principi normativi di massima, a cui le norme regionali
debbano ispirarsi (sanità, istruzione pubblica, stampa, polizia stradale,
disciplina del credito e del risparmio), le rimanenti materie rientrano nella
competenza legislativa esclusiva della Regione, compresi gli ordinamenti di
comuni e province che il progetto Paresce riservava allo Stato, attribuendo alla
regione una semplice tutela sugli stessi.
Il progetto prevedeva, altresì, l'abolizione delle province, le cui competenze
sarebbero passate alla Regione, ai Comuni e ai consorzi di comuni che avessero
facilità di comunicazioni fra di loro e omogeneità d'interessi, tenuto
presente che vari servizi non sarebbero potuti essere disimpegnati adeguatamente
dai singoli comuni.(37) La provincia che, date le nuove reti di comunicazione,
risultava come una circoscrizione territoriale artificiosa, non sempre
corrispondente alla facilità d'accesso dei singoli comuni al capoluogo,
diventava anche un'anacronistica inframmettenza dello stato, tramite la presenza
del prefetto, all'interno di un territorio ormai completamente di competenza
regionale o comunale.
Quanto alla finanza regionale, tra le due soluzioni possibili,- cessione da
parte dello Stato alla Regione di parte dei proventi delle imposte riscosse sul
territorio, ovvero facoltà data alla Regione di imporre tributi e di
riscuoterli, Guarino sceglie senza tentennamenti la seconda ipotesi. Secondo il
suo progetto, dunque, la Regione avrebbe acquisito capacità d'imposizione e
riscossione delle imposte in via esclusiva, fermo restando il versamento annuale
alle casse statali di una cifra, stabilita da una commissione paritetica sulla
base delle spese sostenute dallo Stato e della capacità contributiva della
Regione, come compenso per i servizi prestati all'interno del territorio
regionale. La soluzione scelta da Guarino era la stessa che già nel 1860 aveva
inutilmente proposto al governo di Torino il Consiglio Straordinario di Stato,
riunitosi a Palermo dopo il plebiscito e la stessa su cui si orientavano i sardi
per regolamentare le competenze finanziarie della loro regione, al momento della
concessione dell'autonomia. Dovettero essere, a tal proposito, frequenti i
rapporti tra Guarino e gli autonomisti sardi e lo si evince da una lettera molto
confidenziale inviatagli da Mario Berlinguer proprio alla chiusura del Congresso
Regionale del Partito Democratico del Lavoro, commentando il progetto di Statuto
da lui proposto, dove, peraltro, nel postscriptum si fa riferimento anche a
Lussu:
"Carissimo, ho
letto il resoconto del vostro Congresso e la tua lucida interessantissima
relazione sull'autonomia regionale siciliana…Vi è da tenere conto delle
differenze tra la tua Sicilia e la nostra Sardegna. Ma, a parte ciò, il
complesso della tua relazione è in armonia con i nostri programmi e con le
nostre esigenze; ed è veramente ottima cosa il contributo concreto, dettato da
una passione che è la passione nostra ed espresso in concetti così chiari e
realistici che tu dai alla soluzione positiva del problema.
Bravissimo! Ti abbraccio
Mario Berlinguer(38)
La soluzione
prospettata da Guarino oltre ad allinearsi perfettamente ai principi di quel
federalismo fiscale tanto auspicato da Salvemini già alla fine dell'800:
"[…] lasciate alle Regioni ed ai Comuni tutti i loro denari, all'infuori
di quelli che sono necessari al governo centrale per compiere le sue funzioni di
interesse nazionale; e allora, solo allora, le spese si ripartiranno egualmente,
perché allora non si ripartiranno più, ma ognuno si terrà i suoi quattrini e
li spenderà sul luogo come meglio crederà"(39), si presentava
indubbiamente più dignitosa rispetto alla tesi riparazionista prospettata da La
Loggia e che sarebbe poi stata adottata nell'art. 38 dello statuto regionale.
Anche se appariva difficile determinare accuratamente la capacità contributiva
della regione, rischiando, quindi, che la stessa si trovasse priva del
necessario dopo aver versato il dovuto, il sistema prospettato responsabilizzava
la classe dirigente regionale, insegnandole a far pieno affidamento su se stessa
e sulle risorse del territorio e allontanando ogni tentazione a ricorrere, per
le conseguenze del mal governo, all'ombrello riparatore della finanza statale:
"[…] la Sicilia - scriveva Guarino Amella - che aspira ad ottenere la sua
piena autonomia deve pur affrontare il rischio dei danni che questa comporta e
trovare quindi in se stessa la forza e la capacità di superare ed eliminare
questi rischi[…]".(40)
Infine, Guarino esponeva la sua opinione sulle garanzie costituzionali per
l'intangibilità dello Statuto da parte degli organi centrali dello Stato.
Proponeva la costituzione di un organo giurisdizionale che egli chiamava Suprema
Corte Costituzionale e che poi avrebbe preso il nome di Alta Corte, con sede in
Sicilia, composta da membri nominati pariteticamente dal governo regionale.
Anche lo Stato avrebbe dovuto valersi di un organo di controllo sull'operato
della Regione e il Nostro lo individuava nella figura di un Commissario Generale
nominato dal governo centrale che, con le funzioni di Pubblico Ministero, avesse
la facoltà di impugnare innanzi alla Suprema Corte gli atti del governo
regionale ritenuti contrari alla costituzione dello Stato italiano.
L'Alta Corte, poi, sancita dall'art. 22 dello Statuto, sarebbe in seguito stata
abolita dallo Stato italiano. Guarino era già morto, ma nel '48 intuiva il
pericolo di tale abolizione e a riguardo scriveva una lettera accorata ad Alessi,
primo presidente della Regione siciliana e suo personale amico:
Caro Peppino,
questa povera autonomia della Sicilia, passione mia e tua, è in pericolo. Per
maggior disgrazia, a capo dello Stato è andato giusto l'Einaudi, di cui è noto
il velenoso memoriale presentato alla Consulta nazionale il 7 maggio del 1946
per contrastare l'approvazione dello Statuto e che provocò un vivacissimo
contrasto di Aldisio e di me, che ero riuscito ad avere, il giorno prima, copia
del memoriale.
Ora si vuol inferire un colpo mancino con la questione dell'Alta Corte
Costituzionale.
Sarà o non sarà abolita l'Alta Corte Siciliana, è certo comunque che quella
nazionale può indirettamente pregiudicare gli interessi della Sicilia in
qualche decisione.
Mi pare perciò che sia dovere degli autonomisti siciliani non disinteressarsi
della formazione dell'Alta Corte nazionale.
Vi saranno cinque eletti dal Parlamento e cinque nominati dal Presidente della
repubblica. Non credi doveroso che tra questi 10 ce ne sia almeno uno siciliano?
Con ciò non voglio avanzare la mia candidatura. Io non sono un democristiano; e
poi…i vari Cortese e La Loggia non lo permetterebbero.
Ma la passione per questa nostra Sicilia non mi consente di disinteressarmi di
ciò che per la libertà è vita o morte.
Saluti affettuosi
Guarino Amella(41)
La differenza tra il
progetto Paresce e quello di Guarino Amella appare abissale, tenuto conto che
quest'ultimo potrebbe accostarsi alla carta costituzionale di uno stato
federale, mentre il primo non è niente più che uno schema di decentramento
regionale particolarmente marcato.
Il partito della democrazia sociale si divise sui due progetti; quello
presentato da Guarino Amella appariva a molti troppo radicale, troppo vicino ad
una sostanziale separazione della Sicilia dallo Stato italiano, per cui si
dichiararono favorevoli al progetto Paresce, Marotta, Giuffrida e il duca di
Avarna il quale, in particolare, sosteneva che " […] se non si vuole
giungere al separatismo, se non nella forma nella sostanza, è necessario
garantire al potere centrale la possibilità di intervenire, specie nelle
questioni di carattere generale[…]".(42)
Lo schema proposto da Guarino Amella aveva l'appoggio di Rondelli, Pancamo,
Caruso il quale fra l'altro dichiarò che "[…] se si vuole parlare
veramente di autonomia occorre scartare" lo schema Paresce e ancora di
Pasqualino Vassallo Junior e di Saitta, risentiti soprattutto perché i
democristiani, approfittando dell'autorità e del potere di Aldisio, miravano a
scardinare il partito demosociale, attirando i più moderati fra le loro fila.(43)
Per vincere il contrasto tra le due diverse anime del partito si decise di
sottoporre i due progetti all'esame di una commissione, costituita sulla base
delle rappresentanze provinciali, che avrebbe dovuto, poi, sottoporre un terzo
progetto definitivo al Congresso Nazionale del partito. Non si ha notizia,
tuttavia, né della Commissione né di un eventuale terzo progetto, pare
probabile, però, che ci fosse stato un successivo compattamento delle
precedenti posizioni. Probabilmente lo stesso Guarino si era deciso a sostenere
il nuovo progetto illustrato il 3 novembre davanti alla Commissione per la
redazione dello Statuto, progetto che, pur partendo formalmente dalla base
fornita dallo schema Paresce, se ne allontanava decisamente, col fare scelte
indubbiamente radicali. Così soltanto, infatti , si spiega la lettera del duca
Avarna di Gualtieri al giurista agrigentino, datata 6 novembre 1945, dal tono
della quale si evince che i due avessero raggiunto un accordo. Dallo scritto,
peraltro, si deduce il contrasto all'interno del partito e la crisi che si
agitava tra gli esponenti di maggiore spicco:
Caro Amico,
mi è molto rincresciuto di averti mancato. Avevo prolungato la mia permanenza a
Palermo fino a tutto Sabato oltre che per conoscere l'accoglienza fatta dalla
Commissione al nostro progetto, anche per parlarti della D. L.
Circa l'accoglienza fatta al progetto avrai avuto notizie dirette; non me le
aspettavo più favorevoli dopo il colloquio avuto col Prof. Salemi per stabilire
le modalità della convocazione dei nostri delegati. Ora si tratta di fare
un'opera diplomatica fra i membri della Commissione prima e fra i Consultori
poi. Credo anzi che qualche Consultore favorevole potrebbe senz'altro presentare
il progetto alla Consulta per aprire una discussione su di esso.
Quanto al partito avrei voluto sentire quali sono le tue intenzioni in
proposito? Possiamo continuare ad accettare la situazione che ci viene imposta
da Roma? Se non si fa opera di chiarificazione fra di noi e verso gli altri
partiti coi quali possiamo collaborare, io ho intenzione di rivedere la mia
posizione e dei miei amici.
Scrivimi qualcosa: Roma - Via della Longarina 65. Io parto il 6.
Cordialmente
Tuo G. Avarna di Gualtieri(44)
Poco meno di un mese
dopo la fine del Congresso dei demosociali, si aprì a Taormina (6-10 maggio
1945) quello del partito liberale siciliano di cui La Loggia aveva ormai assunto
la leadership. Nelle discussioni concernenti l'autonomia, traspare la
preoccupazione di allarmare il governo e l'opinione pubblica nazionale con
richieste esagerate e l'opinione, generalmente condivisa, che sarebbe stato più
saggio e più redditizio puntare su un regionalismo moderato: "[…] Se non
si disperderanno le energie che nei più diversi campi lottano in favore di uno
Stato organizzato su basi regionali, […] se, infine, si avrà eventualmente la
prudenza di concepire la Regione come un ente che in un primo tempo abbia non
troppo estese funzioni cui possano, a mano, a mano, aggiungersene altre - la
trasformazione dello stato su basi regionali non potrà mancare".(45)
La Democrazia Cristiana, da parte sua, nell'intento di diventare il partito
leader della Sicilia ricostruita, si pose come elemento di mediazione tra le
più radicali tendenze, nel contesto di un regionalismo moderato che non si
allontanava molto dalla concezione dei liberali. Tuttavia, ambedue i partiti
cominciarono ad avvicinarsi ai progetti più apertamente autonomisti, quando si
accorsero dei vantaggi che tale sistema avrebbe, nel futuro, comportato per gli
interessi della classe dirigente. Infatti se ne era avuta la conferma con il
decreto Aldisio del 10 luglio 1945, con cui si modificavano, per la Sicilia,
sulla base delle sue diversità ambientali, culturali ed economiche rispetto
alle altre regioni d'Italia, i decreti emanati dal ministro Gullo e concernenti
la ripartizione del raccolto tra proprietari e mezzadri. Il decreto dell'Alto
Commissario che modificava i provvedimenti in senso più favorevole ai
proprietari terrieri, non dispiaceva né alla DC - Segni, sottosegretario
all'Agricoltura si compiacque della conferma dell'autonomia siciliana che si
evinceva da quel particolare provvedimento emanato da Aldisio scavalcando il
ministro - che voleva evitare di perdere il sostegno della Chiesa e dell'alta e
media borghesia, né ai liberali tradizionalmente vicini al grande capitale. Fu
proprio la modifica dei decreti Gullo, imposta con un provvedimento
commissariale, a modificare il gioco politico in senso filo - autonomista.(46)
La questione siciliana nell'agosto arrivò al tavolo del Consiglio dei Ministri
che solo un mese prima aveva concesso l'autonomia alla Val d'Aosta, regione
bilingue di nuova formazione, il cui statuto speciale era stato imposto dalla
Francia, per salvaguardare le minoranze etniche e la propria influenza
commerciale e culturale sulla zona.
Indubbiamente nella riunione del Consiglio dei ministri del 24 agosto 1945 a cui
partecipò anche Aldisio, la discussione dovette essere alquanto vivace anche se
il comunicato stampa affermava che il problema dell'autonomia era stato
affrontato e risolto in linea di massima, ma precisava, nello stesso tempo, che
il caso Sicilia non poteva essere dissociato da quello delle altre regioni
d'Italia e che sarebbe stato disciplinato dalla Costituente. I più contrari
all'autonomia siciliana furono Togliatti, Nenni e La Malfa; i primi due perché
temevano che la Sicilia cadesse così sotto l'influenza della Democrazia
Cristiana, della Chiesa e delle forze reazionarie del latifondo - accusarono,
infatti Aldisio di non essersi appoggiato ai Comitati di Liberazione e di aver
snaturato i decreti Gullo -, il terzo, pur essendo siciliano, sulla base di una
formazione culturale e politica di stampo unitario - mazziniano, riteneva
inopportuno concedere all'Isola più poteri rispetto alle altre regioni
d'Italia. A placare gli animi contribuì decisamente l'ombra minacciosa del
separatismo, per cui la riunione si concluse con un nulla di fatto. Aldisio,
tuttavia, capì che se si voleva uscire dall'impasse, bisognava approfittare del
momento di grande confusione istituzionale e agire mediante dei veri e propri
colpi di mano. Così, tornato a Palermo, pur rifiutandosi di fare dichiarazioni
di qualsiasi genere, il 1° di settembre nominava una Commissione incaricata di
redigere un progetto di statuto. Ne facevano parte Alessi per la Democrazia
Cristiana, Guarino Amella per la Democrazia del Lavoro, Mineo per il Partito
socialista, Mirabile per il Partito d'Azione, Montalbano per i comunisti,
Orlando per i liberali e tre docenti dell'ateneo palermitano: Restivo, Ricca
Salerno e Salemi. La Commissione, insediatasi il 22 di settembre, cominciò
effettivamente i suoi lavori il 28 e si valse anche della saltuaria
collaborazione del costituzionalista Gaspare Ambrosini. Furono esaminati gli
schemi presentati da Guarino, da Mineo, dal Movimento per l'autonomia della
Sicilia, lo statuto della Valle d'Aosta, finché non divenne protagonista della
discussione il progetto Salemi che, nonostante le modifiche subite, avrebbe
costituito il vero abbozzo dello Statuto definitivo. Nessuna particolare
proposta venne, invece, dal gruppo democristiano, nonostante nel Convegno
regionale di Palermo - aperto da un appassionato discorso a favore
dell'autonomia, di cui l'Alto Commissario chiedeva l'immediata concessione,
senza aspettare la Costituente, così come era stato fatto per il Trentino e la
Valle d'Aosta -, si fosse deciso di affidare al Comitato regionale del partito
l'incarico di preparare una bozza di statuto.(47)
La bozza di statuto presentata dal Movimento per l'autonomia siciliana, a cui
aderivano esponenti di partiti diversi, liberali come Gaetano Martino,
demosociali come Paresce, democristiani come Stagno d'Alcontres, fu illustrato
alla Commissione dal Duca di Avarna il tre di novembre. Tale progetto pur
partendo dalla base presentata da Paresce nell'aprile precedente al Congresso
del partito, in opposizione al progetto Guarino Amella che appariva
eccessivamente separatista, finì per avvicinarsi più a quest'ultimo che al
primo. Infatti, pur elencando positivamente le materie ricadenti nella
competenza legislativa esclusiva della Regione, esercitata da un'assemblea di 90
membri eletti a suffragio universale diretto, e non accettando il criterio
seguito dal Guarino che considerava implicitamente di competenza regionale tutte
quelle materie diverse da quelle specificamente elencate come di competenza
dello Stato, lo schema del Movimento per l'autonomia, andava molto al di là del
progetto dell'agrigentino in relazione, ad esempio, della tutela dell'economia
isolana. Era perciò prevista una partecipazione della Regione, tramite un suo
rappresentante, alla formazione delle tariffe ferroviarie e alla
regolamentazione e istituzione di tutti quei servizi di comunicazione che
interessassero il suo territorio. Si prevedeva, inoltre, la richiesta
obbligatoria, da parte del governo centrale, di un parere all'organo legislativo
regionale in materia di trattati di commercio esteri, regime doganale,
navigazione, immigrazione ed emigrazione. Non aveva visto male l'estensore del
progetto, se si pensa che tali problemi in questo momento sono i più scottanti,
sia in materia di ordine pubblico che di economia. Probabilmente la presenza
nello Statuto e l'applicazione di una norma di tal genere avrebbe risparmiato
alla Sicilia i continui incontenibili sbarchi di clandestini dall'Africa e
dall'Asia e le avrebbe impedito di subire trattati commerciali capestro, come
quello concluso, alcuni anni or sono, dal ministro degli Esteri Susanna Agnelli
con il Marocco che prevedeva l'importazione per l'Italia di agrumi e pomodori,
in cambio di macchine agricole, presumibilmente FIAT!
Tornando alla bozza presentata dall'Avarna, essa prevedeva, altresì, la
possibilità per la Regione di imporre monopoli, di emettere prestiti interni,
ma soprattutto la parte più originale, ma anche più radicale, era costituita
dalla proposta di fare della Sicilia una zona franca dal punto di vista
commerciale.(48)
E' curioso pensare che una proposta in tal senso era stata fatta da Padre
Gioacchino Ventura durante la rivoluzione del '48. Nell'opuscolo allora scritto,
Cenni sulla libertà di commercio in Sicilia, il teatino prospettava la
possibilità che la Sicilia fosse costituita come porto franco. Ciò avrebbe,
non solo avvantaggiato l'Isola politicamente, liberandola da ogni soggezione a
potenze straniere, ma l'avrebbe fortemente avvantaggiata economicamente;
divenuta porto franco avrebbe potuto essere il deposito di tutte le merci
transitanti nel Mediterraneo e il centro delle contrattazioni internazionali.
Ciò l'avrebbe resa indipendente e appetibile agli investimenti stranieri.
Ventura traeva spunto, per queste sue ottimistiche previsioni, dai vantaggi che
alla città di Messina aveva portato l'essere stata dichiarata porto franco dal
governo borbonico nel 1783. Il movimento nel porto si era rapidamente
moltiplicato con enormi vantaggi per la città e per il suo hinterland.(49)
La proposta di costituire la Sicilia come una zona franca venne bocciata dalla
Consulta, malgrado la razionale difesa che ne fece Guarino Amella. Elencando
tutti i precedenti, compreso quello recentissimo della Val D'Aosta, il cui
territorio era stato considerato dallo Statuto concessole dal governo, esterno
alla linea doganale italiana, ricordava le zone franche costituite, prima e
durante il fascismo, nella città di Zara, nelle isole di Lagosta e Pelagosa,
nel comune di Livigno, nei territori vicino a Nizza e Susa, nelle Isole
dell'Egeo e nel Carnaro. La creazione di una zona franca in Sicilia avrebbe
fatto dell'Isola un immenso emporio commerciale con vantaggi notevoli un po' per
tutti: "[..] La creazione in Sicilia di una grande riserva di prodotti di
ogni provenienza richiamati dalla franchigia doganale e destinati all'industria
del continente, apporterebbe, fra l'altro, cospicui vantaggi agli industriali
dei paesi vicini che avrebbero a portata di mano i prodotti loro occorrenti
senza dover sottostare ai rischi di lunghi viaggi, avarie, ecc. rischi che
sarebbero riversati sugli importatori della zona franca. Inoltre le riserve di
merci di tutte le provenienze del mondo accumulatesi nella zona franca
provocherebbero una stabilizzazione di prezzi ideale per le attività produttive
del vicino continente.[…]"(50)
Il progetto presentato dal Movimento per l'Autonomia regolava i rapporti
finanziari -tributari e la risoluzione dei conflitti Stato - Regione,
adeguandosi quasi integralmente al progetto Guarino Amella.(51)
Infine, il progetto socialista illustrato dall'on. Mineo e a cui aderì anche il
rappresentante dei comunisti Montalbano, aveva l'ingrato compito di coniugare l'antiautonomismo
delle sinistre con la volontà del mondo politico e dell'opinione pubblica
dell'Isola. Per questo risultò fra tutti, certamente il meno convincente. Esso
prevedeva una potestà legislativa esclusiva della Regione limitata a poche
materie tassativamente elencate e gravi limitazioni in materia economico -
finanziaria, visto che il piano economico regionale avrebbe prima dovuto essere
approvato dalle Camere legislative nazionali. La Regione, inoltre, non avrebbe
potuto estendere la sua capacità legislativa all'imposizione straordinaria sui
beni capitali e sulla fabbricazione, alle importazioni ed esportazioni, alle
imposte personali sul reddito globale, ai dazi doganali, ai monopoli fiscali e
al debito pubblico. Infine, secondo il progetto socialista, lo Statuto elaborato
dalla Consulta sarebbe dovuto entrare in vigore solo dopo l'esame della Consulta
Nazionale.(52)
Per finire, il progetto redatto dal prof. Salemi, che avrebbe costituito lo
scheletro dello Statuto definitivo, costituiva una sorta di mediazione tra le
tendenze più radicali (Progetti Guarino e Avarna) e quelle più moderate (Mineo
e Paresce). Esso divenne lo schema ufficioso della Democrazia Cristiana, dietro
cui stava, dunque, la prudenza di Aldisio, preoccupato a recepire le istanze di
un elettorato sempre più vasto che avrebbe dovuto diventare la riserva di voti
del suo partito e timoroso di suscitare nell'opinione pubblica nazionale e,
soprattutto, all'interno della consulta nazionale e del governo, posizioni
pregiudiziali che sarebbe poi stato difficile superare.
Lo schema Salemi definiva positivamente le materie di competenza regionale che
venivano tassativamente elencate; tutte le altre rimanevano di competenza
statale.
Prevedeva il trasferimento alla Regione degli uffici statali operanti sul
territorio siciliano, con esclusione di quelli relativi alle forze armate e
della polizia e di quelli espletanti funzioni relative alle materie di
competenza statale come, per esempio, gli uffici giudiziari. Manteneva in vita
le province, eliminando uno dei punti più originali del progetto Guarino, a cui
invece si rifaceva in relazione all'istituzione in Sicilia di sezioni degli
organi giurisdizionali aventi sede solo a Roma. Per quanto riguarda la
risoluzione dei conflitti tra Stato e Regione, non si discostava molto dal
progetto Guarino, prevedendo la creazione di un organo giurisdizionale con sede
a Palermo che denominava Alta Corte; dava allo Stato la facoltà di sciogliere
il Consiglio regionale in caso di reiterate violazioni dello Statuto o per
motivi di ordine pubblico e di riprendere la direzione degli organi di polizia,
a capo dei quali, normalmente, avrebbe dovuto essere il Presidente della
Regione.
La bozza statutaria redatta da Salemi accoglieva la richiesta di Guarino Amella
di approvare lo statuto con decreto luogotenenziale e di farlo entrare in vigore
immediatamente, senza attendere l'approvazione della Costituente.
Il punto in cui maggiormente si staccava dallo schema Guarino, rivelando la
netta differenza di motivazioni e di indirizzi che aveva ispirato le due bozze,
era quello relativo alla copertura finanziaria della Regione. A tale riguardo
veniva accolta quasi per intero la tesi riparazionista e rivendicativa di La
Loggia, visto che era stata respinta la soluzione impostata sull'attribuzione
alla Regione di una potestà impositiva autonoma, ritornando al contributo
statale da versarsi alla Sicilia a titolo di solidarietà e come ricompensa per
i sacrifici finanziari ed economici subiti nel passato.
Tale contributo, secondo Salemi, avrebbe dovuto essere commisurato nel
versamento da parte dello Stato alla Regione di tre quarti del gettito delle
imposte pagate sul territorio siciliano.(53)
A ben guardare in quest'ultima parte lo schema Salemi non si allontanava
sostanzialmente molto da quello Guarino Amella. La copertura del fabbisogno
finanziario regionale in tutti e due i casi era costituita dal gettito fiscale:
cambiava, tuttavia, completamente il principio ispiratore perché, mentre nello
schema Guarino sarebbe stata la stessa Regione ad imporre e riscuotere le tasse
autonomamente sul suo territorio, in base ad una potestà riconosciutale dallo
Statuto, senza chiedere nulla allo Stato, a cui anzi avrebbe dovuto pagare un
contributo annuo come ricompensa dei servizi prestati in Sicilia, secondo Salemi
il gettito fiscale riscosso dallo Stato sul territorio siciliano, sarebbe stato
in gran parte versato da quest'ultimo alla Regione a titolo di solidarietà e di
rivendicazione.
L'apporto, poi, di La Loggia, che dalla metà di novembre domina le sedute della
Commissione, senza avere rivali, poiché Guarino dal 15 del mese è impegnato a
Roma per la crisi di governo, sconvolge totalmente anche l'impostazione data
alla questione da Salemi, imponendo, con l'aiuto di Montalbano, in cui il
sicilianismo ebbe il sopravvento sull'ideologia e sugli ordini di partito, il
criterio riparazionista che sarà immortalato nel famoso art. 38.
A tal proposito risulta molto interessante rileggere il punto di vista del
socialista Mineo, così come fu da lui stesso riferito allo storico Ganci:
"[…] A poco a poco[…] La Loggia senior riuscì a far prevalere in seno
alla Commissione il proprio punto di vista[…] Da una parte, La Loggia
sosteneva che era necessario adottare formulazioni assai flessibili, ed anche
oscure, per approfittare del fatto che <<a Roma non ne capivano nulla>>
[…] Dall'altra La Loggia impostava la questione dell'autonomia in termini
essenzialmente rivendicativi: lo Stato avrebbe dovuto riparare ai suoi torti
storici verso la Sicilia, finanziando (col meccanismo previsto dall'art. 38) le
iniziative economiche della Regione, in termini però di lavori pubblici e non
già di industrializzazione. E' evidente, credo, il presupposto conservatore da
cui partiva La Loggia (e con lui gli uomini più intelligenti del blocco agrario
- da Tasca ad Aldisio): una politica economica del genere non avrebbe potuto
suscitare le reazioni o le preoccupazioni del Nord, mentre avrebbe portato ad
un'evoluzione molto lenta della struttura economico - sociale dell'Isola,
garantendo il mantenimento dei rapporti di forza attuali, favorevoli al blocco
agrario. Nonostante i miei sforzi, La Loggia riuscì in fin dei conti a condurre
anche la sinistra su queste posizioni[…].(54)
La Loggia, forse in buona fede, si era fatto strumento degli interessi della
grande industria del nord che, grazie a tale impostazione politica, non solo non
avrebbe avuto da temere alcuna concorrenza da parte della Sicilia, ma avrebbe
anzi potuto contare sulle commesse statali per l'avvio delle grandi opere nel
sud. L'avv. Bellavista avrebbe poi dichiarato che la posizione di La Loggia non
era condivisa da tutti i liberali siciliani(55), ma intanto si apriva il sipario
su una classe politica che, tutto sommato, si rivelava come l'erede di quella
che, nel passato, per secoli aveva calcato la scena politica siciliana, una
classe dirigente, cioè, pronta a vendere gli interessi della Sicilia in cambio
del potere politico da amministrare secondo criteri clientelistici e
improduttivi.
Il 19 dicembre, risolta la crisi politica nazionale con la nascita del governo
De Gasperi, la discussione sullo Statuto riprende alla Consulta, alla presenza
anche dei reduci da Roma: Guarino Amella, Cartia, Li Causi e Maiorana.
La Loggia in questa fase del dibattito si tiene quasi in disparte, sicuro ormai
di aver imposto il suo pensiero per l'adesione allo stesso, soltanto per ragioni
politiche e non ideali, della Democrazia Cristiana e delle sinistre; ma il suo
avversario di sempre non rinuncia a battersi fino alla fine per affermare
un'idea pura di autonomismo fondata sulla dignità e la responsabilizzazione del
popolo siciliano:
"[…] Un discorso a parte merita Guarino Amella - scrive Giarrizzo - Nel
confronto con la scettica furberia del vecchio La Loggia, egli s'avvantaggia
della istintiva generosità del radicalismo democratico: il suo ideale è quello
di una società di piccoli e medi proprietari, di piccoli e medi artigiani, che
manifestano nella vita locale esigenze di operosità e di solidarietà umane.
L'autonomia deve valere a rendere possibile questa società, proteggendola dallo
sfruttamento del feudalesimo latifondistico. E' una visione sociale e politica,
sostenuta dalla tradizione democratica del secolo XIX, che non consente di
confondere l'autonomismo del Guarino con le posizioni genericamente
conservatrici del centro indipendentista […] E un ruolo proprio il Guarino ha
assunto, fin dall'inizio della discussione, a proposito dell'art. 39 e
dell'approvazione dello Statuto per decreto legge: occorreva saggiare la reale
volontà del governo di dar corpo alla promessa autonomia,costringere la classe
politica nazionale ad una scelta tra repressione e riforme, per fondare
sull'esito di questa sfida il discorso sulla nuova volontà politica che doveva
esprimere la costituzione dello Stato democratico.(56)
Discutere l'articolo 14 sulla competenza legislativa esclusiva della Regione,
per le materie rigidamente elencate dall'articolo in questione, non fu impresa
da poco. All'interno della Consulta, infatti, si presentavano posizioni ancora
abbarbicate ad un regionalismo, ormai insufficiente alle richieste dei
siciliani, e contrarie, quindi, ad ogni forma di potere legislativo autonomo
della Regione. Ancora una volta fu Guarino Amella a battersi strenuamente contro
i consultori Tuccio e Li Causi:
"Io non comprendo le difficoltà dell'ing. Tuccio e del consigliere Li
Causi. Per quanto riguarda quello che dice l'ing. Tuccio, egli crede che non
possano esistere in una Regione leggi diverse da quelle che siano dello Stato,
ma di fatto non è stato mai così. Noi abbiamo avuto, ( prima del '67, per
esempio) una legge sulle miniere in Sicilia perfettamente diversa da quella
dello Stato italiano; non perciò eravamo contro l'autorità dello Stato. Quindi
ci possono essere, come vede, materie, come quella del sottosuolo, che possono
essere regolate diversamente in Piemonte o nella Sicilia[…].Per esempio,
l'agricoltura siciliana è ben diversa dall'agricoltura della Val Padana[…].
Noi abbiamo in materia di bonifica, una legislazione che è uguale per tutta
l'Italia, legge che è stato possibile applicare in Alta Italia dove vi sono le
Alpi e i bacini montani; legge che ha fatto spendere miliardi qui in Sicilia e
nel Mezzogiorno d'Italia senza ottenere grandi risultati[…]. Questo concetto
che le leggi per la Sicilia non possano essere diverse da quelle delle altre
parti d'Italia, non ha fondamento[…]."(57) Quanto alla proposta di Li
Causi, in relazione all'inserimento nell'articolo del limite rappresentato per
la potestà legislativa esclusiva della Regione dalle leggi costituzionali dello
Stato, Guarino affermava di non vedere la necessità di tale aggiunta, poiché,
come previsto dallo stesso Statuto che si stava esaminando, qualora ci fosse
stato contrasto tra le leggi regionali e le norme della Costituzione, le prime
sarebbero state annullate dall'Alta Corte. Gli inconfutabili chiarimenti del
consultore agrigentino, convinsero anche i più restii a votare l'art. 14 sulla
competenza legislativa esclusiva nella sua formula originaria, senza limitazioni
di sorta.
Anche la discussione sull'articolo relativo alle competenze regionali
sull'ordine pubblico fu oggetto di vivaci discussioni. Guarino, infatti, notava
una vera incongruenza nella formulazione dell'articolo 30 che prevedeva che al
mantenimento dell'ordine pubblico in Sicilia provvedesse il Presidente della
Regione a mezzo di reparti di polizia dello Stato e reparti di polizia
regionale. Con la schiettezza che gli era abituale faceva presente ai colleghi
che approvare l'articolo così come era formulato, avrebbe significato
triplicare i conflitti all'interno delle forze dell'ordine, visto che era a
tutti notoria l'esistenza di gelosie e inimicizie, dannose all'andamento delle
indagini e alla difesa dei cittadini, che da sempre erano esistite tra i corpi
di PS e quelli dei Carabinieri. Con tale articolo dello Statuto si sarebbe
aggiunto al conflitto già esistente tra i due tipi di polizia, anche il
conflitto tra polizia regionale e polizia statale: "[…] Quindi bisogna
aver coraggio: -sosteneva Guarino durante il dibattito sull'articolo in
questione in seno alla Consulta, opponendosi con decisione ai bizantinismi e
agli artifici verbali propri dei legislatori incerti e bisognosi di assicurarsi
l'approvazione generale, non prendendo nette posizioni sui singoli argomenti - o
che tutti gli organi della polizia dipendano dallo Stato, anche in Sicilia, o
tutti gli organi di polizia dipendano esclusivamente dalla Regione. Invece della
duplicità che c'è attualmente, faremo una triplicità. Noi avremo la
continuazione dei contrasti, del sabotaggio di un organo verso l'altro: è
doloroso, ma è così, ed allora non aumentiamo questo pericolo[…]".
Personalmente, tuttavia, il consultore agrigentino si dichiarava favorevole ad
una polizia regionale che sarebbe stata - a suo parere - più preparata ad
affrontare il tipo di delinquenza che infestava la Sicilia e, proprio in quel
periodo, le manifestazioni pseudo- politiche e gli atti squisitamente
banditeschi sembravano moltiplicarsi: "[…]Non risponde allora alla nostra
esigenza questo corpo che dipende da Roma, alle esigenze della nostra Regione,
cioè dove c'è una mentalità delinquenziale ben diversa da quella di lassù.
Qui i movimenti popolari hanno un aspetto ben diverso da quelli di Milano o
Torino[…]."(58) Infine la Consulta votò per la polizia dipendente da
Roma con il voto contrario di Guarino Amella che sottolineava l'incongruenza che
dalla norma statutaria derivava, essendo il Presidente della Regione a capo di
tale polizia che, nel contempo, non avrebbe potuto sottrarsi agli ordini del
Ministro degli Interni. Un conflitto di competenze che, tuttavia, non avrebbe
mai costituito un vero problema, visto che i presidenti regionali che si sono
succeduti nel tempo, si sono ben guardati dall'esercitare il potere loro
conferito dall'art. 30 dello Statuto, delegandolo totalmente al Ministero degli
Interni.
L'ultimo punto particolarmente dibattuto fu quello relativo al riconoscimento
alla Regione della facoltà impositiva, proposta dalla bozza Salemi, sottoposta
all'esame della Consulta. Si era optato, infatti, come già abbiamo detto,
soprattutto sotto l'influenza di Enrico La Loggia, per il mantenimento di ogni
facoltà impositiva allo Stato che avrebbe dovuto sovvenzionare la Regione con
parte delle tasse esatte sull'Isola, più una somma variabile, a scopo
riparatorio, sancita dall'articolo 38, creatura di La Loggia, commisurabile
sulla base della differenza esistente tra la media nazionale di disoccupazione e
quella siciliana. Se precedentemente - nel momento in cui aveva presentato il
suo schema di Statuto e poi quando si era discusso sulla bozza del Movimento per
l'Autonomia, a cui si era adeguato -, Guarino aveva giustificato la sua scelta,
a favore del riconoscimento di una esclusiva potestà impositiva regionale, con
la necessità di responsabilizzare la nuova classe dirigente locale e di
emanciparla dagli aiuti statali, il 22 dicembre, davanti alla Consulta, a
Palazzo Comitini, egli adotta un'ulteriore motivazione: la necessità, cioè,
che la Regione possa imporre tasse proporzionate ai redditi della popolazione
siciliana nei vari settori dell'economia. A sostegno della sua tesi adduceva
molteplici esempi: una legge dello Stato, a titolo di solidarietà nazionale,
aveva imposto una tassa di 50 lire per ettaro sia sugli ubertosi terreni della
pianura padana, sia sugli aridi crinali montagnosi della Sicilia; tutto ciò
rappresentava incontestabilmente un'ingiustizia. La stessa cosa avveniva con le
imposte sui fabbricati che erano di uguale entità sia a Milano che a
Caltanissetta, senza tenere conto delle diverse condizioni ambientali ed
economiche e dell'inesistenza di case coloniche nella nostra Isola dove, quasi
tutta la popolazione agricola vive nei centri urbani, mentre al nord vive nelle
campagne, risultando così esente dall'imposta sui fabbricati abitati, perché
considerati rurali: "[…] Ed allora diciamo: noi sappiamo quali sono le
nostre risorse, le nostre forze, le nostre ricchezze: lasciate a noi il diritto
d' imposizione. Io perciò dico a tutti: non balocchiamoci in queste cose. Noi
abbiamo interesse a non menomare le nostre risorse, abbiamo interesse a favorire
nuove risorse, noi siamo un paese che deve risorgere, deve accrescere le
industrie, aumentare tutte le nostre attività; abbiamo bisogno, quindi, non
solo di non gravare quello che non merita di essere gravato,. Ma di diminuire le
tasse e le imposte su quel che vogliamo incoraggiare perché risorga la Sicilia.
Se questo non lo facciamo noi, lo faranno in Italia e metteranno tasse in modo
tale da impedire che la Sicilia risorga nella sfera industriale com'è la nostra
aspirazione in base alle nostre risorse.[…] Quando sento dire che per vivere
tranquilli, bisogna dare alla Regione le imposte dirette, lasciando allo Stato
le imposte indirette, mi viene in mente il povero impiegato che per vivere
tranquillo deve vivere nella miseria perché vive a reddito fisso. Così si
vuole dare alla Regione il reddito fisso per farla vivere in miseria; quando
invece ci sarà qualche artigiano, qualche industriale che accrescerà la sua
fabbrica, darà allo Stato allora i suoi tributi.[…] La Sicilia può pesare
sui latifondisti per aiutare l'industria: viceversa sarebbe uno straziare la
Regione."(59)
L'articolo passò senza il voto di Guarino che aveva, tuttavia, dimostrato di
comprendere perfettamente le motivazioni economiche che stavano dietro la scelta
riparatoria voluta da La Loggia e aveva enunciato una perfetta teoria di
federalismo fiscale che sembrava tratta dalle pagine appassionate di Salvemini.(60)
Il 23 dicembre la discussione si conclude con la votazione e l'approvazione
dell'art. 39 che sanciva la promulgazione dello Statuto mediante decreto
luogotenenziale e la sua immediata entrata in vigore. Tale articolo fu oggetto
di notevoli dispute, visto che socialisti e comunisti insistevano per
l'approvazione dello stesso in sede di Assemblea Costituente. In effetti la
posizione delle sinistre non era deplorabile, poiché esse partivano dal
presupposto che solo in tal modo lo Statuto avrebbe acquisito, almeno in parte,
l'investitura del popolo. Se invece fosse stato approvato con un decreto
luogotenenziale, il documento redatto e votato da una Consulta di eminenti
siciliani, nessuno dei quali, tuttavia, eletto dal popolo, avrebbe senz'altro
acquisito il carattere di una costituzione octroyée alla stregua di quelle che
i principi graziosamente concedevano ai sudditi nell'ottocento, in seguito a
rivolgimenti popolari. Ancora una volta, come in tutte le rivoluzioni
preunitarie e come al momento dell'unificazione, il popolo sarebbe stato escluso
dalle decisioni storiche che lo coinvolgevano direttamente, decisioni che, come
sempre, sarebbero state prese dalla classe dei notabili.
In effetti tale ragionamento non poteva non condividersi, tuttavia cause di
forza maggiore spingevano per una approvazione immediata. Si sapeva che la
classe politica nazionale era generalmente contraria all'autonomia siciliana,
sarebbe stato più facile, dunque, ottenerla subito in un clima di grave
confusione istituzionale, quando il governo si dibatteva fra problemi, uno più
grave dell'altro, piuttosto che dopo, quando tutto si sarebbe messo a posto e
quando, magari, fosse venuta anche meno la minaccia di una presunta separazione
della Sicilia dallo Stato nazionale. Bisogna, peraltro dire, che le sinistre,
soprattutto i comunisti, erano comunque mossi dalla tradizionale diffidenza
giacobina per ogni forma di decentramento che ritenevano potesse essere causa
della formazione di centri di poteri locali facenti capo alle antiche forze
reazionarie. Non sbagliavano del tutto, visto che l'esperienza di questi quasi
sessant'anni di autonomia ci ha dimostrato come la mafia sia riuscita, quasi
subito, a condizionare gran parte della politica regionale con la sua presenza
minacciosa e ingombrante.
Giovanni Guarino Amella fu colui che si batté con più passione per
l'approvazione immediata dello Statuto, dichiarando amaramente che se non si
fosse approvato l'art. 37, diventato poi 39, sarebbe andati persi inutilmente
sei giorni di discussioni e la gente avrebbe pensato che, come al solito, i
politici si erano parlati addosso, avevano scherzato : "[…] Se tutto
questo è inutile, se noi dobbiamo aspettare un nuovo progetto di legge, se
dobbiamo aspettare che intervenga la Costituente o un altro organo era allora
meglio dire a questi signori che hanno prospettato finora le loro ragioni, che
si fossero assentati o avessero proposto anche di non far niente? Né si obietti
che non si può per decreto luogotenenziale mutare l'ordinamento dello Stato.[…]
Io mi sforzerò di essere calmo e di parlare tranquillamente. Se lasciassi
libero corso al mio temperamento non potrei essere calmo di fronte a
quell'affermazione che ha fatto Li Causi che noi si vuole l'autonomia per
affermare le forze reazionarie. No Li Causi, noi siamo autonomisti perché
vogliamo affermare le forze democratiche, sinceramente democratiche della
Sicilia. Del resto io chiedo a Li Causi che cosa significa questo voler dire:
<<volete l'autonomia per affermare le forze reazionarie>>? Quando
lui stesso dice che tra qualche mese si faranno le elezioni della Costituente e
quindi per l'autonomia, se la Sicilia è reazionaria, anche fra tre mesi,
dovrebbe rispondere in modo reazionario. Io insorgo contro questa ipotesi. La
Sicilia non è vero che è reazionaria […] E vado avanti, Perché noi abbiamo
discusso l'autonomia e vogliamo l'autonomia? Che urgenza c'è?
No, Li Causi, c'è urgenza in questo senso: se dopo aver fatto in questi quattro
giorni tante discussioni, mettessimo tutto nel cassetto e aspettassimo, quando
noi potremmo avere questa autonomia desiderata?[…] Si faranno le elezioni per
la Costituente, ma la Costituente non darà lo Statuto dell'autonomia regionale:
la Costituente affermerà il principio, se l'affermerà, dello Stato regionale;
poi la Costituente si scioglierà-; dopo sei, sette mesi, quando avrà discusso
il problema agrario ed industriale e rimanderà al Parlamento, che verrà eletto
dopo la Costituente, la formazione delle leggi relative. Quindi, dopo
l'affermazione della Costituzione di uno stato a tipo regionale, dovranno venire
le nuove elezioni dei deputati alla Camera per approvare la legge: andremo
avanti per qualche anno […] .
Non è forse fuori dalla costituzione lo stesso ministero che impone leggi, non
essendo emanazione di un libero parlamento elettivo? Non sono forse fuori dalla
costituzione le Giunte comunali elette dai Prefetti? Non è forse fuori dalla
costituzione questa assemblea pur così mutilata di poteri?
La Sicilia attende da noi le sue giuste leggi che vengano incontro ai suoi
vecchi peculiari bisogni. Noi dobbiamo ottenere la possibilità di placare la
giusta aspettativa. Così soltanto la Sicilia tornerà unanime quale figlia
amorosa a fianco della grande madre comune Italia>>.(61)
Guarino non solo insisteva sulla insussistenza dell'obiezione a carattere
costituzionale in un momento in cui anche i più alti organi dello Stato avevano
dimenticato di avere una costituzione, ma sosteneva la necessità di presentare
alla futura Assemblea costituente uno Statuto che fosse già stato sperimentato
da almeno due anni. In tal modo la Costituente, non solo si sarebbe trovata
davanti ad una situazione di fatto, quasi impossibile da revocare, ma
l'esperienza attuata in quei mesi di autogoverno le avrebbe dato la possibilità
di giudicare sui limiti o i pregi dello Statuto e correggere gli eventuali
errori tramite la potestà normativa che le competeva. Un'altra ragione per
approvare immediatamente lo Statuto era costituita dalle aspettative della
gente: "[…] Volete voi che si dica - continuava Guarino Amella - che
abbiamo chiacchierato, che non se ne farà niente? Questo è deludere, è dare
esca a quel separatismo contro il quale tutti noi vogliamo combattere. Sarà
questa l'arma migliore per i residui del separatismo. Vedete a che cosa servono
tutte queste chiacchiere? Ad ingannarci.
Questi sono argomenti, badate, che sono adoperati dai valdostani. Anche lì c'è
un movimento separatista; volevano andarsene con la Francia, ma gli elementi
eletti hanno preso il coraggio a piene mani, hanno formulato un progetto e sono
andati a Roma a dire: dateci subito questo decreto; sarà il solo modo perché
possiamo metterci contro le correnti del separatismo.
Questo hanno detto quelli della Val d'Aosta e a queste implorazioni il Governo
non è rimasto sordo ed ha emesso il decreto che ha dato l'autonomia alla Val
d'Aosta e che non sarà la sola: la stessa cosa sta per avvenire per il
Trentino; è l'unico modo per stroncare le azioni separatiste. […]
Io invoco da questa Assemblea un momento di coscienza di quello che fa; io
chiedo di non respingere questa proposta di avere l'autonomia per decreto e
subito. E' un errore politico di cui potremmo pentirci, ma io non mi pentirò di
quello che ho fatto. Ricordiamocene."(62)
Quella stessa mattina l'articolo 39 venne approvato con 17 voti contro 12,
ripudiando, per la prima volta dallo sbarco americano, la logica dei comitati di
liberazione, infatti la Democrazia Cristiana votò insieme a liberali e
demolaburisti, abbandonando al loro destino le sinistre e preparando il terreno
per un nuovo indirizzo politico che, poco più di un anno dopo, sarebbe stato
seguito anche a livello nazionale.(63) L'appassionata arringa di Guarino,
probabilmente fu determinante per l'approvazione di quell'articolo che avrebbe
segnato definitivamente il destino dell'Isola, ma <<lo Statuto nasceva>>
- come afferma Giarrizzo - <<sui frantumi dell'unità antifascista>>.
Contemporaneamente al varo del progetto di Statuto da parte della Consulta,
iniziava per l'ordine pubblico un periodo particolarmente turbolento: assalti
alle caserme (si ricordi, solo tre giorni dopo, il 26 dicembre, l'assalto di
Giuliano alla caserma di Bellolampo e quelli contro il trasmettitore radio di
Palermo, il 26 gennaio e il 1 marzo), manifestazioni politiche disordinate e
violente, recrudescenza del banditismo comune e politico con l'affacciarsi degli
ultimi conati separatisti.(64) Le sinistre misero sotto accusa l'amministrazione
Aldisio che, malgrado la difesa di De Gasperi e del ministro degli Interni
Romita che, convocando, nel gennaio successivo, i consultori nazionali
siciliani, assicurò solennemente l'impegno del governo contro la delinquenza
comune e il separatismo, nel marzo successivo rassegnò le dimissioni come Alto
Commissario. L'accusa che i socialcomunisti rivolgevano alla DC era quella di
mostrarsi accondiscendente nei confronti dei separatisti - il cui movimento
sarebbe stato, da lì a poco, legalmente riconosciuto - come prezzo da pagare
per l'alleanza politica contratta con i liberali e con le destre. Peraltro, le
sinistre sostenevano, e non senza qualche ragione, che le manifestazioni di
violenza e i rigurgiti separatisti servivano come arma di pressione nei
confronti del governo, affinché venisse concesso al più presto alla Sicilia lo
Statuto già approvato dalla Consulta Regionale.(65)
Il governo, il 12 marzo, subito dopo la notizia dell'esito delle elezioni
amministrative in Sicilia, che avevano visto un'insperata affermazione della
sinistre, anche se la DC aveva conquistato la maggior parte dei comuni, esaminò
finalmente il progetto di statuto, magistralmente illustrato da Aldisio che lo
presentò come l'unico strumento di pacificazione tra la Sicilia e lo Stato e
tra i siciliani fra loro, e lo trasmise, il 4 aprile successivo, alla Consulta
Nazionale.(66) Qui, su proposta di Guarino Amella, le commissioni Affari
Politici, Giustizia e Finanze, eleggono una giunta per l'esame del progetto di
statuto, presieduta da Gilardoni e costituita da altri quattordici componenti,
di cui sei siciliani (Aldisio, Guarino Amella, La Malfa, Li Causi, Musotto e
Ziino) e due sardi (Berlinguer e Lussu). Tale Giunta esaminò il progetto il 27
e il 29 aprile accogliendo la tesi esposta da Guarino Amella sulla necessità
della concessione dello Statuto alla Sicilia prima delle elezioni per la
Costituente: "[…] La Sicilia soffre di un bubbone maligno, che forse non
si ha in Sardegna: il separatismo. I separatisti sono in armi e affermano che la
promessa d'autonomia è una turlupinatura, un gioco che si conduce dal Governo,
dall'Alto Commissario e dagli autonomisti perché non se ne vuole fare nulla.
Alla vigilia delle elezioni si deve dimostrare che il Governo non intende
turlupinare nessuno, perché se l'affermazione dei separatisti dovesse essere
accresciuta da ulteriori rinvii, le conseguenze sarebbero dolorosissime. Si
debbono perciò compiere tutti gli sforzi affinché il parere della Consulta sia
dato entro oggi o domani al Governo. Questi emetterà o non emetterà il
decreto, ma sarà lui il responsabile, se non vorrà tener conto di questa
gravità della situazione in Sicilia".(67)
Il pesante avvertimento di Guarino ebbe effetto, poiché anche un irriducibile
nemico dell'autonomia siciliana come Einaudi, rinunziò alla sua richiesta di
ulteriore dettagliato esame del progetto di Statuto, affermando che le sue
remore erano soltanto motivate da questioni personali di coscienza. Anche i
socialisti e i comunisti, pressati dai loro compagni sardi e timorosi di
assumersi con una loro opposizione, gravi responsabilità per il futuro
dell'Italia, si convinsero a votare per l'immediata concessione dello Statuto.
La minaccia separatista vinse, dunque, le ultime esitazioni, ma non solo quella;
i partiti moderati che in seno alla Consulta avevano votato l'articolo 39,
assumendo di fronte alla popolazione siciliana la veste di paladini
dell'autonomia, avrebbero visto fruttare il loro impegno in termini di voti e di
potere, solo se avessero potuto portare trionfalmente a Palermo il decreto
luogotenenziale di concessione dell'autonomia.
Ancora una volta i destini dell'Isola, diventavano, nelle mani della classe
dominante, strumenti di potere personale.
Il 15 maggio il progetto di statuto viene votato dal Consiglio dei ministri con
l'opposizione di Nenni, Cattani e Gasparotto.
Cominciava una nuova era per la quale l'impegno indefesso di Giovanni Guarino
Amella era stato indubitabilmente determinante.
Malgrado la lunga battaglia condotta per la conquista dell'autonomia, Guarino
Amella non riuscì a far parte di quell'Assemblea Regionale, frutto, in parte
del suo impegno e della sua tenacia. Infatti, nelle prime elezioni regionali
dell'Aprile 1947, malgrado fosse stato votato in maniera quasi plebiscitaria
dagli elettori del suo collegio, non riuscì eletto poichè il suo partito non
raggiunse, a livello nazionale, i voti necessari a farlo partecipare alla
divisione dei seggi.
La sua disinteressata passione per il buon esito dell'autonomia regionale, fu
dimostrata dall'impegno con cui, malgrado la delusione elettorale, seguì i
dibattiti assembleari, in quei pochi mesi che lo dividevano dalla morte,
avvenuta nell'autunno del '49.
Una vita vissuta per la Sicilia, dunque, fino alla morte, un ideale coltivato
appassiona, talmente al di là di ogni interesse politico e personale.
Tutto ciò non può non costituire un esempio fondamentale per le giovani
generazioni disabituate, purtroppo, ad una lotta politica disinteressata e
idealistica e sempre più aduse alla prevaricazione, alla prepotenza, al cinismo
e alle meschine ambizioni personali.
NOTE
1) Relazione tenuta al
seminario: "Il contributo di G. Guarino Amella alla formazione dello
statuto della Regione Siciliana - Aspetti storici e giuridici" Palermo, 9
Dicembre 2002.
(2) Pier Luigi Ingrassia, Presentazione alla pubblicazione del discorso di
commemorazione di Giovanni Guarino Amella pronunciato il 6 febbraio 1950 da
Paolo D'Antoni, Palermo 1950
(3) Scrive Indro Montanelli a tal proposito: "Chi fra don Luigi Sturzo ed
Enrico La Loggia, sia il babbo dell'autonomia regionale e chi la mamma non so.
So soltanto che essi ne sono comunque i genitori […]." Cfr. Indro
Montanelli, Incontri, vol. II, Milano 1966, p. 916.
(4) Articolo apparso su La Fiaccola, Organo del Partito Democratico del Lavoro,
del 27 ottobre 1946.
(5) Discorso di commemorazione, op. cit. pag. 12
(6) Gabriella Portatone Gentile, Impegno politico e sociale dei cattolici
agrigentini alla fine del secolo XIX, Palermo 1985 e della stessa autrice, Padre
Gioacchino La Lomia da Canicattì. L'uomo, la città, la società del suo tempo,
in A.A. Momenti di storia e pensiero politico in Sicilia, Palermo 1995 pp.
145-166.
(7) Sul barone Lombardo a cui venne intestato l'ospedale di Canicattì, per il
cospicuo legato ad esso lasciato cfr. G. Lorenzoni, Sicilia, vol. Vi, Roma 1910
e Trasformazione e colonizzazione del latifondo siciliano, Firenze 1940, p. 306.
In occasione della morte del barone Lombardo, il giornale L'Ora dedicò un
articolo all'opera dell'estinto, cfr. La morte del Barone Lombardo Gangitano,
Palermo 21-22 gennaio 1910.
(8) D. Lodato- A. La Vecchia, La città di Canicattì, Canicattì, 1987 pp.
257-261. Sulle decime ecclesiastiche aveva iniziato l'iter parlamentare rivolto
all'abolizione il deputato del collegio di Girgenti, dal 1862 al 1890, Luigi La
Porta; cfr. Gabriella Portatone Gentile, Un democratico siciliano: Luigi La
Porta, Caltanissetta, 1981, pp. 183 e ss.
(8) Il testo completo del Memorandum si trova in appendice dell'opera di S.
Massimo Ganci, Da Crispi a Rudinì. La polemica regionalista (1894-1896),
Palermo 1973.
(9) Articolo apparso su La Fiaccola del 5 agosto 1945.
(11) Ivi
(12) Tommaso De Crescenzio, Risveglio agrario? in Il Moscone n.18, Girgenti 26
agosto 1906
(13) Gabriella Portatone Gentile, Padre Gioacchino La Lomia, la sua famiglia, la
sua città e l'ambiente agrigentino, in Gioacchino La Lomia, a cura di Cataldo
Naro, Caltanissetta - Roma, 1995, pag. 34
(14) Paolo D'Antoni, Commemorazione, op, cit. p. 27
(15) Articolo a firma di Mefisto, verosimilmente lo stesso Guarino, apparso su
Il Chiodo del 25 settembre 1919.
(16) Peraltro anche i democristiani nel messaggio alle popolazioni dell'Isola,
nell'agosto del 1943, avevano sottolineato la fondamentale importanza che
avrebbe avuto nello Stato ricostruito il sistema corporativo: "[…] Contro
l'attuale degenerazione politico-burocratica dell'idea corporativa e contro ogni
ritorno al metodo della lotta di classe, affermiamo che l'organizzazione degli
interessi deve essere intesa non come espressione di sole esigenze economiche,
ma anche e soprattutto come strumento di realizzazione di una migliore giustizia
sociale e di collaborazione fra le classi.[…] alcune funzioni essenziali
saranno riservate ad organismi professionali di diritto pubblico[…] Questi
organismi di categoria eserciteranno il potere disciplinare sull'attività
professionale concludendo e tutelando i contratti collettivi che, in caso di
conflitto, saranno sottoposti all'arbitraggio obbligatorio; e raggruppati in
maggiori unità costituiranno la base della rappresentanza degli interessi, che
avrà i suoi delegati nei corpi comunali e regionali, nei consigli consultivi e
normativi presso i dicasteri centrali dello Stato e nel Senato che vogliamo
elettivo". Cfr.: Salvo Di Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al
1947, Palermo 1967, p. 199. Lo stesso De Gasperi, inoltre, aveva previsto un
Senato a carattere corporativo: "Accanto alla Camera dei Deputati si
costituirà, in sostituzione del Senato, un'assemblea rappresentativa degli
interessi organizzati, prevalentemente eletta dalle rappresentanze del lavoro e
della professione[…]Il corpo rappresentativo della Regione si formerà
prevalentemente sull'organizzazione professionale"cfr. Alcide De Gasperi,
La parola dei democratici cristiani (1943-44) in I cattolici dall'opposizione al
governo, Bari 1955, pp. 480-482.
(17) Paolo D'Antoni, Giovanni Guarino Amella, op. cit. pag. 24
(18) Nel numero unico de La Fiaccola del Partito democratico del lavoro,
Canicattì 23 luglio 1944, apparve un articolo di Guarino Amella, quasi
interamente dedicato al suo personale dissidio con La Loggia, il quale dopo anni
di silenzio, aveva rialzato il capo mirando a diventare indiscusso protagonista
politico della Sicilia in ricostruzione. Per far ciò non esitava a spargere
veleno sui più diretti avversari e in particolare sul suo rivale di Canicattì.
Aveva perciò ripreso un'antica polemica dell'anteguerra accusando il Guarino di
aver sottratto corrispondenza a danno degli antifascisti: "[…] Il sig. La
Loggia ha mentito quando ha informato i giornalisti che l'on. Palmisano fascista
avesse parlato alla Camera in mio favore. Proprio ha mentito: alla Camera parlò
soltanto l'on. Gangitano, il fascistissimo deputato di Canicattì e chiese che
io fossi rinviato a giudizio; ma l'on. Bianchi replicò chiarendo l'indegna
montatura e tutto finì: allora la Camera fascista aveva ancora qualche pudore.
Basti ricordare che in quello stesso torno di tempo l'on. Balbo, per l'attacco
fattogli di avere scritto una lettera di minacce contro un magistrato, fu
costretto a presentare le dimissioni da sottoministro dell'Aeronautica"
(19) Archivio privato dell'avv. Giuseppe Alaimo, Canicattì, foglio n. 6,
Commemorazione dell'on. Guarino Amella, orazione tenuta presso il Teatro Sociale
di Canicattì, gennaio 1950
(20) Articolo apparso su "Il Moscone" n. 18, agosto 1906.
(21) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica 1943-45. La genesi dello Statuto
regionale, in Consulta Regionale Siciliana, vol. I, Saggi Introduttivi, Palermo
1975, pag. 11. Cfr. S. Massimo Ganci, L'Italia antimoderata, Parma 1968.
(22) Cfr. Enrico La Loggia, Ricostruire, Palermo 1943, pag. 23.
(23) Ivi, pag. 24.
(24) Gian Biagio Furiozzi, Il dibattito sul regionalismo, in "Dall'Italia
liberale all'Italia fascista", Perugia, 2001, p.12
(25) S. Massimo Ganci, L'Italia antimoderata, op. cit. pp. 429-31.
(26) Enrico La Loggia, Autonomia e rinascita della Sicilia (scritti vari),
Palermo 1953, p. 73
(27) Articolo apparso in Popolo e Libertà, del 28 febbraio 1945; Salvo Di
Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo 1967, pp. 357-360
(28) Ivi, pp. 220-225
(29) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. p. 68.
(30) Salvo di Matteo, Anni Roventi, op. cit. p. 353.
(31) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, 1943-1945. La genesi dello Statuto
regionale, in Atti della Consulta Regionale siciliana, op. cit. pp.35-36.
(32) La relazione è stata pubblicata la prima volta da Salvo Di Matteo in Anni
roventi, op. cit. pp. 429-434.
(33) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. p. 57; Cfr. Corriere di
Sicilia, Catania 27 novembre 1944.
(34) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. pp. 77-79.
(35) Giovanni Guarino Amella, Per l'autonomia regionale della Sicilia. Progetto
di Statuto, Palermo, 1945 p. 7
(36) Ivi, p.8
(37) Probabilmente Guarino si rifaceva all'esperienza positiva del Consorzio fra
comuni per la gestione dell'acquedotto Tre Sorgenti che egli aveva costituito
come sindaco di Canicattì durante la prima guerra mondiale. Sulla necessità
dell'abolizione delle province a favore dei consorzi dei Comuni si esprimeva
favorevolmente, nel 1945, anche Oliviero Zuccarini nel suo lavoro La Regione
nell'ordinamento dello Stato, Roma 1945.
(38) Lettera di Mario Berlinguer a Guarino Amella conservata nell'Archivio della
Fondazione Giovanni Guarino Amella di Canicattì; sull'autonomismo sardo cfr,:
Emilio Lussu, La Repubblica Regionale in Federalismo <<Quaderni di
Giustizia e Libertà>>, n. 6, 1933, pp. 8-21; Camillo Bellini,
L'autonomismo sardo, in AA.VV. Gli Stati Uniti d'Italia, Messina- Firenze 1991,
pp. 225-228.
(39) Gaetano Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, Torino 1955, pp.
85-87.
(40) G. Guarino Amella, Per l'autonomia regionale della Sicilia, op. cit.p.13.
(41) Lettera di Giovanni Guarino Amella all'on. Giuseppe Alessi del 25 novembre
1948, in Archivio della Fondazione Guarino Amella.
(42) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. p. 81.
(43) Sullo sbandamento del partito della Democrazia del Lavoro cfr. Corriere di
Sicilia, Catania 12 aprile 1945.
(44) Lettera di Avarna di Gualtieri a Guarino Amella del 6 novembre 1945, in
Archivio della Fondazione Guarino Amella, Canicattì.
(45) Articolo di G. B. Rizzo, alto esponente del partito, scritto alla vigilia
del Congresso,. in La Sicilia, Catania, 16 marzo 1945
(46) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Palermo 1983,
pp.206 e ss.
(47) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. pp. 90 e ss.
(48) Movimento per l'Autonomia della Sicilia, Statuto della Regione Siciliana,
Palermo 1945.
(49) Gabriella Portatone Gentile, Cenni sulla libertà di commercio in Sicilia,
in Atti del Seminario Internazionale di Erice "Gioacchino Ventura e il
pensiero politico d'ispirazione cristiana dell'Ottocento", a cura di
Eugenio Guccione, Erice, 6-9 ottobre 1988, Olschki ed. Firenze, 1991, pp.
737-747
(50) Consulta Regionale Siciliana, Atti della V sessione, vol. III, pp. 410-411.
(51) Salvo Di Matteo, Anni roventi, op. cit. p.371.
(52) ivi, p. 371.
(53) Salvo Di Matteo, Anni roventi, op. cit. pp. 371 e ss.; Alto Commissariato
per la Sicilia, Relazione della Commissione incaricata di redigere il progetto
di Statuto per l'autonomia della Regione Siciliana (relatore prof. Giovanni
Salemi), Palermo, dicembre 1945, pp. 11-13.
(54) S. Massimo Ganci, L'Italia antimoderata, parte II, Parma 1962, p.391. n.
(55) Girolamo Bellavista, Ricostruzione liberale, 23 dicembre 1945.
(56) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. p. 107
(57) Consulta Regionale, Atti della V sessione, op. cit. pp. 260-272.
(58) Consulta Regionale Siciliana, Atti della V sessione, op. cit. pp. 360-372.
(59) Ivi, pp. 398 - 404.
(60) "[…] Lasciate ai Comuni e alle federazioni regionali di Comuni la
cura della viabilità, delle acque, della giustizia, dell'istruzione,
dell'ordine pubblico, delle finanze, di tutto ciò che non è politica estera,
politica doganale, politica monetaria, di tutti gli affari insomma che non sono
d'interesse davvero generale; […] e allora, solo allora, le spese si
ripartiranno egualmente, perché non si ripartiranno più, ma ognuno si terrà i
suoi quattrini e li spenderà sul luogo come meglio crederà.[…]" In
Gaetano Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, op. cit. pp.85-87.
(61) Giovanni Guarino Amella, Per l'autonomia regionale, op. cit. p. 32.
(62) Consulta Regionale Siciliana, Atti della V sessione, Palermo,1976,
p.441-442.
(63) Cfr. Francesco Renda, Storia della Sicilia, vol. III, op. cit. pp. 243 e
ss. Il giudizio di Renda a riguardo è naturalmente negativo, egli attribuisce
alla rottura con le sinistre la <<defaillance>> di Aldisio e i
cedimenti nei confronti del terrorismo e della mafia.
(64) Nel movimento separatista l'arresto di Varvaro, Finocchiaro Aprile e
Restuccia, decapitò l'ala moderata dello stesso. Lasciando libero campo all'ala
intransigente e militarista a cui facevano capo diversi rampolli
dell'aristocrazia siciliana, come il figli del barone La Motta, il figlio di
Lucio Tasca, gli eredi dei baroni Bordonaro. Costoro divennero una forza ribelle
ed incontrollabile decisa a battersi fino alla fine per l'indipendenza della
Sicilia. Si diedero, dunque, alla latitanza costituendo una nuova formazione
armata il GRIS, indipendente dall'EVIS e organizzata alla stregua di una
società segreta, come la Carboneria o la Giovine Italia, mescolando la loro
indomita fede nell'indipendenza siciliana con equivoche alleanze con gruppi di
mafiosi o di delinquenti comuni. Cfr. Francesco Renda, Storia della Sicilia,
vol. III, op. cit. pp. 244-245; inoltre cfr. Francesco Paternò Castello, duca
di Carcaci, Il Movimento per l'indipendenza della Sicilia. Memorie del Duca di
Carcaci, Palermo 1977.
(65) Romita, allora ministro dell'Interno parlò di una <<Sicilia che
sfuggiva al nostro controllo>>, cfr. Giuseppe Romita, Dalla Monarchia alla
Repubblica, con prefazione di Giuseppe Saragat, Pisa 1959, p.51.
(66) Nel frattempo il governo aveva proceduto alla sostituzione di tutti i
prefetti <<politici>> nominati dagli americani in Sicilia, con
prefetti di carriera e aveva ottemperato alle richieste provenienti da molti
ambienti politici siciliani, in relazione alla scarcerazione di molti giovani
separatisti, le cui azioni furono considerate dettate da << impeto
inconsiderato di imprudenza giovanile>>. Clamorosa fu la scarcerazione di
Finocchiaro Aprile e di Varvaro che, il 27 marzo giungevano a Palermo su un
aereo militare, messo a disposizione proprio dal ministro Romita. Cfr. Salvo di
Matteo, Anni roventi, op. cit. pp. 460 e ss.
(67) Giovanni Salemi, Lo Statuto della Regione Siciliana, Padova, 1961, pag.
182.