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L'Accademia del Parnaso e i soci



L'immortalità del presidente e il brio di un'accolta di giovani valorosi

       Della Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese presidente era don Ciccio Giordano, albergatore cortese, oste rinomato e poeta che si considerava sovrano, come colui insomma «che le Muse lattar più ch'altri mai», per dirla con Dante;[1] viaggiatore piazzista era l'avvocato Salvatore Sanmartino e segretario generale il farmacista Diego Cigna. Immortale era stato dichiarato il presidente, proprio quando era morto, e immortali si ritenevano a sua somiglianza i soci del Parnaso. Il decreto d'immortalità del presidente, sancito dall'articolo quinto dello Statuto parnasiano, era unito a quello dell'infallibilità. Proclamava, infatti, tale articolo: «Presidente dell'Accademia è don Ciccio Giordano. Egli è immortale ed infallibile»

       I funerali del presidente si erano svolti secondo il rito fascista, perché egli era iscritto al partito di stato. Un quotidiano di Roma li rievoca così: «Quando la bara del defunto, tra una selva di gagliardetti neri, fu portata a spalla al cimitero, il federale di Agrigento pronunciò una patriottica orazione. A1 termine, gridò il rituale: "Camerata Francesco Giordano...", e tutti gli astanti risposero in una voce sola: "Presentee!". Sammartino, in disparte, commentò con il dottore Stella: "Se il presidente, da morto, risponde 'presente' è segno che non è morto: dunque è immortale, e immortali siamo noi, suoi fedelissimi"».[2] «In seguito a questo singolare episodio», scrive il barone, Agostino La Lomia, «l'immortalità è stata attribuita all'Illustre Presidente, per una deliberazione presa a forte maggioranza di voti dall'Assemblea Parnasiana».[3]

       Il presidente del Parnaso, quindi, da morto dovette fare il vivo per rispondere "presente" ai suoi funerali; per un altro canicattinese, invece, un anziano ottantenne di nome Leonardo Monaco si verificò alcuni decenni dopo il caso contrario, quello di un vivo che fece la parte del morto, per godersi dinanzi alla propria tomba le marce funebri suonate per lui da una banda musicale. E veramente parnasiano fu quel che accadde 1'8 settembre 1964 nel cimitero di Canicattì. Un corpo bandistico al gran completo suonava attorno a un uomo, che, pur assorto nella parte del morto, ascoltava soddisfatto dinanzi alla propria lapide. Tre anni dopo, il 22 ottobre 1967, il barone Agostino La Lomia invitava al cimitero amici e parenti per festeggiare insieme nella propria cappella gentilizia il completamento dei lavori di restauro. Per quel singolare ricevimento il barone distribuiva ai presenti mandorle tostate e bicchieri di rosso vino per brindare insieme allegramente.[4]

       Con il suo spirito sorridente e tollerante il Parnaso canicattinese riuscì a tenere insieme uomini tanto diversi per formazione politica e culturale, per principi, per idee e per carattere: il barone Agostino La Lomia e l'oste don Ciccio Giordano, il farmacista Diego Cigna e l'avvocato Salvatore Sanmartino, il filosofo C. A. Sacheli e il sarto-poeta Peppipaci, l'avvocato Francesco Macaluso e padre Diego Martines, il professor Alfonso Tropia e il dottor Gaetano Stella, e tanti altri. Essi, con 1'umorismo e la satira, stesero un velo di largo sorriso sulle vicende umane, avvalorando quella massima del barone, secondo cui per affrontare la vita sul serio bisogna prenderla per scherzo.[5]

       La Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese fù definita nel 1938 dal colto critico letterario Adriano Tilgher, grande estimatore di Luigi Pirandello, «la più audace e geniale satira politica e del costume».La Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese fu definita nel 1938 dal colto critico letterario Adriano Tilgher, grande estimatore di Luigi Pirandello, «la più audace e geniale satira politica e del costume».[6] E un dotto amico dell'avvocato Macaluso scrisse che con tale Accademia «un'accolta di giovani valorosi, pieni di buon umore e d'intelletto [si prefisse] l'idea di mettere in ridicolo la vita in ciò che questa meriti; di scherzare sulle scemenze umane e sulle cose serie; di prendere a gabbo i presuntuosi, i manierosi, i pieni di fumo, le fame malcreate; di far raccogliere attorno a quest'idea personalità di primo piano».[7] A siffatta Accademia fu dato il nome di Parnaso dall'omonimo monte svettante nella Focide in Grecia, dove, secondo la mitologia ellenica, avevano sede le nove Muse, «tutte concordi, tutte amanti della musica e del canto, tutte - come le rappresenta Esiodo - col cuor, nel petto, libero d'affanni».[8]

       I1 Parnaso, in quanto monte sacro alle Muse, richiama alla mente la poesia: e questa, infatti, è il fulcro dei parnasiani di Canicattì, come, "si parva licet componere magnis", lo era stata dei Parnassiani di Francia, raggruppatisi a Parigi nel 1861 sotto l'egida di Leconte de Lisle con il motto "l'art pour l'art" (l'arte per l'arte).[9] Non c'è però soltanto una esse a far la differenza, ma anche il motto che per i parna­siani canicattinesi è "l'arte per la vita", in quanto, come dice l'avvo­cato Macaluso, «scunsulati, chini di pitittu, / trovanu a lu Parnasu tettu e vittu».[10] E anche per la durata del tempo il Parnaso batte "le Parnasse": con questo ci furono solo circa dieci anni di successi letterari, mentre con quello «na cosa vinni fora originali, / ca nun esisti affattu ed è immortali».[11]

       Su chi fossero, che cosa fossero e quanti fossero i parnasiani canicattinesi ce lo dice in fluidi versi l'avvocato Macaluso:

Sunnu picciotti chini di cirveddu,
nun mancanu di sordi e fantasia:
a tutti fannu tantu di cappeddu,
ed eccu quanti su di cumpagnia:
Stella, Musasca, Paci e Sammartinu,
Aronica, Salina e Spirdiuni,
Pantanu, Decu Cigna e Livatinu,
Lummardu, Bartuccelli e Portaluni,
Di Francu, Pillitteri e La Lumia,
Saitta, Fonzu, Curciu e Gangitanu,
Martinisi, La Vecchia e Fò Trupia,
Nobili, Pilligrinu e Burruanu,
Puntiddu, Caramazza e 'Ntoniu Meli,
Ginechisi, Tirrasi e La Finazzi,
Narbuni, Burdunaru e Ly Sacheli,
Corbo, Tirrozzu e l'autri Caramazzi,
Palermu, Cucurullu e Lazzarini,
Attardu, Pietru Cretti e Civinini,
lu Grecu, Burgiu, Grillu e lu Chiù-chiù,
ed ora basta ca 'un ni pozzu cchiù.[12]



Arcadi maggiori e minori


       Tutti i soci si chiamavano arcadi, come i 18766 membri della più famosa delle accademie italiane, fondata a Roma nel 1690 con il titolo di Arcadia, dal nome dell'antica regione pastorale dell'Ellade classica. Gli arcadi dell'Arcadia si erano proposti lo scopo di «restaurare la poesia e la letteratura, traviate dal cattivo gusto del Seicento».[13] Per analo­gia gli arcadi del Parnaso si prefissero il fine di restaurare il buon senso, traviato dall'insipienza dei secoli. Essi si dividevano in maggiori e minori. Al riguardo Peppipaci afferma:

L'arcadi sunnu maggiuri e minuri,
(unni maggiuri c'è minuri cessa)
veni a diri perciò ca cu è maggiuri
nun è minuri o puru viciversa.[14]

       Il cursus honorum degli arcadi parnasiani, cioè la carriera, era a ritroso, come imponeva il secondo articolo dello Statuto: di conseguenza, essendo i veri maggiori i minori, i maggiori potevano diventare minori, ma non viceversa. Per loro faceva testo non solo la parola scritta, ma anche la tradizione orale, come recitava l'articolo undecimo: «L' immenso e imperscrutabile patrimonio letterario dell'Accademia (atti, discorsi, statuto) sarà tramandato oralmente ai posteri, non essendo possibile consacrare tutte le gesta memorabili degli arcadi per iscritto, nel timore di dimenticanze abominevoli». Ma era così forte il peso di tale patrimonio letterario e dell'oralità arcadica, che vi insiste anche l'articolo decimoquarto: «Le composizioni estemporanee, ricche d'immagini, di grazia e di finezza, create dai parnasiani metodicamente con l'irrequietezza propria della gioventù, anche se trascorsa, oscureranno le opere immortali che pullulano nel mondo. Raccolte e tramandate oralmente, coroneranno di luminosa gloria la Secolare Accademia».

       L'Accademia non faceva distinzione veruna di sesso; quindi potevano iscriversi anche le donne. Ma per quelle sposate ciò era possibile a condizione che ci fosse, come prescriveva l'articolo trentuno, «il consenso, anche presunto, del marito o di chi ne fa le veci». E primeggiava tra le donne la scrittrice Hélène Tuzet, docente di letteratura italiana all'Università di Poitiers, arcade minore e viaggiatrice-piazzista per i dipartimenti francesi e le colonie fin dal 1928, quando aveva appena ventisette anni. Essa con il suo inno «Tel un noble olivier quinze fois séculaire», dedicato al Parnaso (o creduto tale, il che per gli arcadi era la stessa cosa), lo aveva immortalato, paragonandolo al «nobile ulivo, quindici volte secolare».

       Non essendoci alcun limite, neppure di età, potevano accettarsi anche i minori, iscrivendo quale responsabile, sempre secondo il predetto articolo, il padre noto. Il Parnaso dava solo importanza, per ogni socio, secondo l'articolo trentadue, al suo merito e peso specifico (parnasiano); e a nessuno imponeva l'obbligo di essere intelligente, giacché diceva letteralmente l'articolo trentatré: «Il Parnaso, Accademia di scienza, lettere ed arte, non fa ad alcun socio l'obbligo di essere intelligente... anzi!».

       A tutti gli arcadi, minori e maggiori, veniva rilasciato il diploma dell'Accademia, il quale era tenuto in grande considerazione, tanto che qualcuno lo teneva al proprio capezzale, come testimonia l'avvocato Macaluso:

Un'eccellenza, ca è altu magistratu
- chiddu cu la varvitta fatta a pizzu -
a lu Parnasu è puru assuciatu
e teni lu diploma a lu capizzu.[1]


       Tale diploma era «valido per tutti gli usi, compresi quelli di legge», come recitava l'articolo sesto dello Statuto, il quale anche aggiungeva: «I diplomi sono conferibili "motu proprio" dal presidente anche alle persone insigni». E sono stati tanti gli uomini illustri ad essere insigniti del diploma della Secolare Acccademia del Parnaso Canicattinese e a sentirsene onorati, affascinati dal suo spirito ironico e dal suo riso beffardo. Arcadi minori sono stati Luigi Pirandello, Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti, Marco Praga, Massimo Bontempelli, Gino Marinuzzi, Adriano Tilgher, Ettore Romagnoli, Arnaldo Fraccaroli, Arturo Marpicati, Hélène Tuzet, Marta Abba, Angelo Musco e Trilussa; e, in anni più recenti, anche Renato Guttuso, Leonardo Sciascia, Ben Gazzara, Turi Ferro e Pippo Baudo. Sciascia, tra l'altro, nel suo libro Nero su nero, ricorda il Parnaso canicattinese, definendolo «un'accademia letteraria sui generis... secolare per decisione dell'assemblea».

       Il Parnaso riteneva soci graditissimi i poeti, i quali, cantando le incongruenze degli uomini, ridendo insieme e motteggiando, ne mettessero in berlina i vizi e i vezzi. E un valido contributo si aspettava da loro per far rinsavire quanti avessero perduto il senno, cifra non affatto esigua, essendo tante le cause e le occasioni di perderlo, perché, come canta l'Ariosto,

altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de' signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che più d'altro aprezze.[16]



       Lo perdono talvolta anche i poeti, o almeno lo sciupano, tant'è che il Manzoni afferma che «presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po' balzano, che, ne' discorsi e ne' fatti, abbia più dell'arguto e del singolare che del ragionevole».[17] Il Parnaso ha tenuto sempre spalancate le sue porte anche a siffatti poeti, come anche a quelli che Macaluso chiama

littirati, senza 'mpiantu,
ca vivinu cu testa e pedi all'aria.[18]

       In virtù dell'articolo settimo l'accesso non è stato mai precluso a nessuno; vi sta, infatti, scritto: i>«Chiunque, anche senza il fine di nuocere, abbia fatto poesie, è iscritto al Parnaso d'ufficio o a sua confessione». Quindi c'è di tutto nel Parnaso: non solo il poeta di concezione carducciana come

grande artiere
che al mestiere
fece i muscoli d'acciaio:
[19]

        ma anche il poeta di cui il Carducci dice

che va intorno
dando il capo ne' cantoni,
e co 'l naso sempre a l'aria
gli occhi svaria
dietro gli angeli e i rondoni.[20]

       Alta è la missione affidata dalla Secolare Accademia agli arcadi poeti, anzi a tutti i parnasiani: ribattezzare la civiltà. E i versi dell'av­vocato Macaluso in proposito par che riecheggino quelli di Virgilio sulla missione universale di Roma: «Tu regere imperio populos, Romane, memento».[21] Si legge, infatti, nella Parnasiana:

O vui chi vi truvati in ogni locu,
soci di st'accademia seculari,
putiti cu lu versu a pocu a pocu
tutta sta civiltà rivattiari![22]

       E non sembri un'iperbole, perché, per riconoscimento generale, «l'Accademia Secolare è a carattere universale».[23] Non per nulla il Diploma d'Onore porta l'intestazione di Universa Parnassia Cannicattinensis. Non per nulla Peppipaci esclama: «Salvi a tia, Parnasia Universa! / ca la to' fama nun si po' oscurari».[24] E non per nulla l'avvocato Macaluso nel suo Inno Parnasiano proclama:

Ccà c'è lu fosfaru
universali,
chinu d'ardicula,
di pipi e di sali.[25]

NOTE ESPLICATIVE E BIBLIOGRAFICHE :

[1] Dante Alighieri, Divina Commedia, Purg. XXII, 102.

[2] Francobaldo Chiocci, Con una beffa a Canicattì si otteneva l'immortalità, in Il Tempo, Roma, 15 giugno 1970.

[3] Fausto di Renda, La Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese, in Sicilia-Roma, a.VI n.11, Roma, 30 giugno 1956.

[4] I1 fatto ebbe notevole risonanza sulla stampa nazionale, tanto che all'episo­dio la Domenica del Corriere del 27 settembre 1964 dedicò la copertina con disegno di Walter Molino.

[5] Così dichiarò il barone a un giornalista del Tempo di Roma: «Fratello, per affrontare la vita sul serio, bisogna prenderla per scherzo». Cfr. Francobaldo Chiocci, L'ultimo re di Sicilia, in La Torre, a. XVII n. 11, Canicattì, 26 luglio 1970.

[6] Lettera del viaggiatore piazzista on. avv. Sanmmartino: cfr. Enrico Cacciato, Crisi di coscienza e pensieri di Pinco Pallino, Firenze 1960, p. 12. La defini- zione di Adriano Tilgher si trova in una missiva inviata dal­l'insigne critico all'avv. Sanmartino e «giacente presso l'archivio della famiglia di quest'ultimo»: cfr. Angela Martines, L'Accademia del Parnaso Canicattinese, tesi di laurea, anno accademico 1971-1972, p. 2.

[7] Lelio Sengrini, La Parnasiana, in Puisii d'autri tempi, Agrigento 1936, p. 83. Cfr.anche Calogero Ravenna, Poeti di Sicilia, Agrigento 1937, p. 35.

[8] Guido Vitali, Cantano i miti, Torino 1955, p. 71. Le nove Muse, figlie di Zeus e di Mnemosine, erano Clio, Urania, Calliope, Melpomene, Talia, Tersicore, Erato, Euterpe e Polimnia. Avevano la loro sede sul Parnaso, ma anche sull'Elicona, monte della Beozia, come pure nella Pieria e Pimpla, per cui venivano anche chiamate Pieridi e Pimplee.

[9] Philippe Van Tieghem, Dictionnaire des Littératures, tome troisième, Paris 1968, p. 2981. Quanto alla frase di Virgilio "se è lecito paragonare le piccole cose con le grandi", usata nel mettere a confronto le fatiche dei Ciclopi e il lavoro delle api, cfr. P.Vergilii Maronis, Georg., IV, 176.

[10] ...sconsolati, pieni di appetito, / trovano nel Parnaso alloggio e vitto. Fra Neccolò Musasca, La Parnasiana, Canto I, Canicattì 1934, p. 13.

[11] ...una cosa venne fuori originale, / che non esiste affatto ed è immortale. Francesco Macaluso, Puisii d'autri tempi, Parnaso immortale, Agrigento 1936, p. 64.

[12] Sono giovani pieni di cervello, / non mancano di denaro e fantasia: / a tutti fanno tanto di cappello, / ed ecco quanti sono di compagnia: / Stella, Musasca, Paci e Sanmmartino, / Aronica, Salina e Spiridione, / Pantano, Diego Cigna e Livatino, / Lombardo, Bartoccelli e Portalone, / Di Franco, Pillitteri e La Lomia, / Saetta, Fonzo, Curcio e Gangitano, / Martines, La Vecchia e Alfonso Tropia, / Nobile, Pellegrino e Burrnano, / Pontillo, Caramazza e Antonio Meli, / Ginex, Terrasi e La Finazzi, / Narbone, Bordonaro e Calogero Sacheli, / Corbo, Tirrozzo e gli altri Caramazza, / Palermo, Cucurullo e Lazzarini, /Attardo, Pietro Cretti e Civinini, / il Greco, Burgio, Grillo e il Chiù-chiù: / ed ora basta perché non ne posso più. Fra Neccolò Musasca, La Parnasiana, Canicattì 1934, pp. 70-71.

[13] Luigi Russo, Compendio storico della Letteratura italiana, Messina - Firenze 1971, p. 405.

[14] Gli arcadi sono maggiori e minori, / (dove c'è il maggiore cessa il minore) / viene a dire perciò che chi è maggiore / non è minore, oppure vice­versa. Peppipaci, Mascari di Paci, Canicattì 1937, p. 75. Dello stesso cfr. La scecca di patri Decu, Canicattì 1934, p. 31.

[15] Un' eccellenza, che è alto magistrato / - quello con la barbetta fatta a punta - / è associato pure al Parnaso / e tiene il diploma sulla testata del letto. Francesco Macaluso, Puisii d'autri tempi, Agrigento 1936, p. 51.

[16] Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, XXXIV, 85, Milano 1973, p. 374.

[17] Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap.XIV, Firenze 1968, p. 275.

[18] ...letterati, senza concretezza, / che vivono con la testa e i piedi all'aria. Fra Neccolò Musasca, La Parnasiana, Canto 1, Canicattì 1934, p. 13.

[19] Giosuè Carducci, Congedo, da Rime Nuove, in F. Bernini - L. Bianchi. Carducci. Pascoli. D'Annunzio, Bologna 1955, p. 87.

[20] O voi che vi trovate in ogni luogo, / soci di questa accademia secolare, / potete con il verso a poco a poco / ribattezzare tutta questa civiltà. Fra Neccolò Musasca, La Parnasiana, Canto VIII, Canicattì 1934, p. 77.

[21] P.Vergilii Maronis, Aeneidos, liber sextus, 851.

[22] O voi che vi trovate in ogni luogo, / soci di questa accademia secolare, / potete con il verso a poco a poco / ribattezzare tutta questa civiltà. Fra Neccolò Musasca, La Parnasiana, Canto VIII, Canicattì 1934, p. 77.

[23] Lelio Sengrini, La Parnasiana, in Francesco Macaluso, Puisii d'autri tempi, Agrigento 1936, p. 86.

[24] Salve a te, Parnasia Universa! / la cui fama non si può oscurare. Peppipaci, Mascari di Paci, Canicattì 1937, p.80 Nel sottotitolo del diploma campeggia in latino maccheronico:


Jam Nova Arcadia Universitatis Petripauli
Segue quindi una parafrasi dell'epigrafe di Petrappaulo:
Non vaga plus resonat tamen hinc in marmore sistens
sed in carminibus poetarum paesanorum nam homines ipsi loquuntur

Sotto ancora, in caratteri più piccoli, sempre nello stesso latino, si legge:
Sub patrocinio virorum excellentium ipsius Arcadioe pastores
Ciccius Giordanus a secretis Didacus Cignius

[25] Qui c' è il fosforo / universale, / pieno di ortica, / di pepe e di sale. Francesco Macaluso, Puisii d'autri tempi, Inno Parnasiano, Agrigento 1936, p. 65.


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