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SENTENZA RELATIVA ALL'OMICIO SAETTA

Sentenza della Corte D'Appello di Caltanissetta dell'8/1/2003 (irrevocabile il 24/5/2003) relativa all'omicidio di Saetta e del Figlio Stefano


Il fatto e lo svolgimento del giudizio di primo grado.


Il 5 agosto 1998 la Corte di Assise di Caltanissetta dichiarava Riina Salvatore, Madonia Francesco, Ribisi Pietro, i primi due in qualità di mandanti, il terzo quale esecutore materiale in concorso con Montagna Michele, Brancato Nicola, Di Caro Giuseppe, nel frattempo deceduti, responsabili del duplice omicidio del Giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano, fatto delittuoso commesso con premeditazione in territorio di Caltanissetta alle 22.40 del 25 settembre 1988.

Riina Salvatore veniva condannato alla pena dell’ergastolo, con isolamento diurno per un periodo di mesi 12 oltre alle pene accessorie, ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.

Il fatto: Domenica 25 settembre 1988, intorno alle 22,40, il dott. Antonino Saetta, presidente della Sezione della Corte di Appello di Palermo, veniva assassinato assieme al figlio Stefano, che sedeva al suo fianco, mentre alla guida di una Lancia Prisma stava facendo rientro a Palermo.

L’aggressione avveniva all’altezza del chilometro 48e500 della strada statale scorrimento veloce 640 che il Giudice ed il figlio stavano percorrendo con direzione Agrigento- Caltanissetta, in corrispondenza del viadotto di contrada Giurfo. Secondo la ricostruzione effettuata sul luogo e nell’immediatezza del fatto, la dinamica dell’agguato veniva ricostruita nel modo seguente: la Lancia Prisma guidata dal dott. Saetta era stata affiancata da un veicolo dal quale erano partiti i primi colpi di arma da fuoco.

I primi proiettili avevano perforato il vetro dello sportello posteriore sinistro. Mentre il mezzo dei killers sorpassava la vettura del magistrato, i suoi occupanti avevano esploso diversi altri colpi di arma da fuoco che avevano danneggiato la fiancata sinistra della Lancia Prisma ed avevano colpito i suoi occupanti; altri numerosi colpi venivano esplosi una volta completata la manovra di sorpasso. Infine, gli aggressori si erano avvicinati all’automobile del Giudice che, intanto, era andata a fermarsi nel lato opposto della strada ed avevano completato la loro opera bersagliando il lato destro della Lancia Prisma.

Il sopralluogo effettuato nell’immediatezza aveva portato al rinvenimento ( lungo un tratto di strada di circa 100 metri), di 47 bossoli di cartuccia calibro 9, nonché di diversi proiettili di piombo deformati che erano stati ritrovati anche dentro l’autovettura del dott. Saetta.

Attraverso le indagini balistiche si accertava che i killers avevano utilizzato una sola arma del tipo pistola mitragliatrice e che tale arma non era stata utilizzata in altri delitti commessi in quel periodo nella Sicilia occidentale. A poche ore dall’agguato (ore 3.00), veniva rinvenuta, a circa tre Km di distanza una BMW interamente distrutta dalle fiamme, con all’interno due bossoli dello stesso tipo di quelli trovati sul luogo del delitto. Attraverso l’esame della targa si accertava che il veicolo era stato rubato in data 17 settembre 1998, otto giorni prima ad Agrigento ad un certo Gugino Davide.

La struttura della sentenza di primo grado.

La parte introduttiva della sentenza di primo grado ( pag.1-459) ripercorre le pronunce giurisprudenziali e le considerazioni in diritto riguardanti i criteri di valutazione adottati con specifico riferimento alla prova per chiamata di correo e alla prova indiziaria. Per illustrare compiutamente il reticolo probatorio emergente dall’istruzione dibattimentale la Corte prende le mosse dall’individuazione del movente del duplice omicidio del magistrato e del figlio, movente indicato nel noto processo per l’omicidio del capitano Basile e nelle interferenze di “Cosa Nostra” per condizionarne l’esito.

Il solo movente fondatamente utilizzabile secondo la Corre, movente non ipotetico e non congetturale alla luce delle risultanze processuali, era quello correlabile al proposito omicidiario di vendetta perseguito dai mandanti.

Solo tale movente permetteva di attribuire agli indizi il connotato di univocità, costituendo fattore di coesione degli stessi ferma restando l’inessenzialità dell’individuazione del movente nel processo indiziario.

L’individuata causale -certa e valida- costituisce essa stessa valido indizio, catalizzatore di altri elementi indizianti, idonea ad escludere ogni diversa chiave interpretativa del fatto prospettata dalla difesa.

Afferma la sentenza che il complesso indiziario raccolto nel processo per la certezza dei dati, per il loro univoco significato, poteva dirsi assumere il valore di prova certa. L’assassinio del Giudice Saetta, magistrato incorruttibile per i processi che aveva trattato e per quelli che avrebbe potuto trattare, era interesse strategico complessivo dell’organizzazione mafiosa ‘Cosa Nostra”, associazione criminale la cui esistenza, struttura, organizzazione e finalita’ viene considerata ormai nozione di comune esperienza e conoscenza. La sentenza ricorda che a cavallo degli anni ‘80 la strategia dell’organizzazione mafiosa era stata quella di creare un clima di intimidazione diffusa che servisse a scoraggiare significativi interventi repressivi delle Istituzioni. Vengono citati come momenti di questa strategia gli omicidi di Boris Giuliano ( dirigente della squadra Mobile di Palermo ucciso in data 21.7.1979), Emanuele Basile(capitano dei Carabinieri ucciso il 4.5.1980) e Gaetano Costa ( Procuratore della Repubblica di Palermo, ucciso in data 6.8.1980).

A questo disegno strategico accedeva coerentemente l’intervento per condizionare le conseguenziali indagini e, se necessario, l’esito dei processi che ne fossero derivati. Quest’ultima esigenza era divenuta pressante proprio in relazione all’omicidio del Capitano Basile, in occasione del quale si erano verificate situazioni probatorie tali da deludere ogni ragionevole aspettativa di impunità degli autori. Nel rinviare alla motivazione delle sentenze acquisite al dibattimento e senza entrare nel merito della lunga vicenda processuale conclusasi con la sentenza della V Sezione della S.C. in data 14.11.1992 che aveva rigettato i ricorsi ed aveva confermato la condanna all’ergastolo inflitta dalla Corte di assise di Appello di Palermo in data 14.2.1992 a Madonia Giuseppe (esecutore materiale), Madonia Francesco e Riina Salvatore (mandanti) dell’omicidio in esame, la sentenza di primo grado si sofferma su dati richiamati poi nel corso della motivazione.

Ed invero, con sentenza del 23.6.1988, la Corte di Assise di Appello di Palermo, presieduta dal dott. Saetta, aveva condannato all’ergastolo oltre a Madonia Giuseppe, anche Puccio Vincenzo e Bonanno Armando quali coautori materiali dell’omicidio del capitano Basile. Il Puccio veniva ucciso in carcere (Palermo Ucciardone in data 11.5.1989) ed il Bonanno- resosi latitante- sarebbe rimasto vittima della “lupara bianca”. Di questo iter, momento centrale era , per i primi Giudici, la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Assise di Appello di Palermo (14.2.1992). Il pieno coinvolgimento dei predetti esecutori materiali dell’omicidio Basile veniva supportato da un univoco quadro indiziario, atteso che i tre venivano sorpresi da una pattuglia dei CC in territorio di Monreale alle ore 3,55 in un contesto spazio temporale qualificabile come quasi-flagranza essendo l’omicidio stato commesso alle ore 1,40. Gli elementi indiziari venivano, poi, corroborati dalle dichiarazioni di Marino Mannoia Francesco, Buscetta Tommaso e Contorno Salvatore. La sentenza fa cenno al calibro degli imputati dell’omicidio Basile. Madonia Giuseppe, uomo d’onore della famiglia di Resuttana, è figlio di Madonia Francesco ( imputato e nei confronti del quale si è proceduto separatamente), indicato dai collaboranti come il rappresentante della stessa e capo mandamento di Resuttana, di cui faceva parte anche il Bonanno( famiglia di S. Lorenzo Colli), mentre il Puccio era uomo d’onore della famiglia di Ciaculli- Croce Verde Giardini facente capo al noto Michele Greco. L’arresto dei tre nella quasi flagranza di quel grave omicidio, lo spessore criminale degli indiziati ed il prestigio delle famiglie di appartenenza due delle quali ( S. Lorenzo e Resuttana vicine ai Corleonesi) non poteva non indurre vertici dell’organizzazione a dispiegare in tutta la sua potenzialità la propria azione di inquinamento e condizionamento delle indagini e del processo stesso, per scongiurare il pericolo di una condanna e prevenire un assai probabile impegno investigativo degli inquirenti nei confronti delle famiglie di appartenenza dei tre che erano stati arrestati in quasi flagranza di reato ( cfr. pag.65 sentenza di I°). Osserva a questo punto la sentenza come il capitano Basile si fosse particolarmente distinto per l’impegno investigativo profuso nel perseguire la pericolosa cosca mafiosa di Altofonte che operava nel territorio della Compagnia Carabinieri di Monreale diretta dall’ufficiale e che per i legami con il gruppo cosiddetto corleonese era particolarmente temibile. Ricorda la sentenza che nella giurisdizione di Monreale rientravano i comuni di Altofonte, Piana degli Albanesi e Camporeale, tutti facenti parte del mandamento di S. Giuseppe Jato, rappresentato in seno alla commissione provinciale di “ cosa nostra”da Salamone Antonino, generalmente sostituito da Brusca Bernardo.

La sentenza sintetizza i risultati dell’attività investigativa cui era giunto il Capitano Basile, che lo avevano portato all’incisiva decisione di procedere all’arresto in flagranza ( 6.2.1980) per il delitto di associazione per delinquere dì esponenti delle suddette famiglie, alla denuncia tra gli altri di Leoluca Bagarella, Gioe’ Antonino, Marchese Antonino, Di Carlo Francesco, nonche’ alla formulazione di rilevanti ipotesi investigative sulle attivita’ delle famiglie facenti capo a Salvatore Riina, culminate nel rapporto 16 aprile 1980, ultimo atto prima della morte dell’ufficiale, morte avvenuta alle ore 1,40 del 4 maggio 1980 mentre il Capitano Basile, con in braccio la figlia Barbara, percorreva a piedi la via Pietro Novelli di Monreale insieme alla moglie dopo aver partecipato ad un ricevimento nella sede del Municipio. La sentenza ripercorre in sintesi l’organigramma di “ cosa nostra”: il massimo organo rappresentativo era, all’epoca, la c.d. Commissione, presieduta da Michele Greco e composta dai vari capi-mandamento: Riina Salvatore ( capo mandamento di Corleone che si alternava a Provenzano); Bontate Stefano (capo mandamento di Villagrazia-S.Maria di Gesù); Salamone Antonino (capo mandamento S.Giuseppe Jato, stabilmente sostituito da Provenzano); Madonia Francesco ( capo mandamento di Resuttana-S.Lorenzo). La storia ormai nota dell’origine e dello sviluppo della guerra di mafia dalla fine degli anni ‘70 - inizi anni ‘80, di cui gli omicidi eccellenti, tra cui quello del capitano Basile, rappresentano fatti non accidentali, ma momenti di passaggio decisivi così come provato dalle sentenze irrevocabili fra le quali merita di essere citata quella della S.C. Sez.I del 30.1.1992 n.80 che ha definito gran parte delle posizioni processuali del procedimento a carico di Abate Giovanni +altri ( c.d. maxi-processo di Palermo), in cui viene dato atto delle fazioni contrapposte all’interno dell’organismo direttivo: quello dei corleonesi ed i loro alleati e quello costituito da Bontate-Inzerillo ( capo mandamento uditore ucciso nel 1981). Nel quadro delle nuove alleanze un ruolo centrale era svolto da Riina Salvatore ( cfr.sent.di I° pag. 71), il quale a volte derogava alla regola della collegialità delle decisioni della commissione in occasione di taluni gravi delitti.

La strategia terroristica del Riina si era manifestata anche attraverso l’uccisione del Procuratore della Repubblica di Palermo dottor Costa, reo di aver convalidato i fermi di cinquantratre indiziati di associazione per delinquere, prevalentemente affiliati alla famiglia Inzerillo. La ricostruzione del mandato omicidiario contro il capitano Basile, attribuito al Riina e al Madonia Francesco e ormai accertato con sentenza di condanna irrevocabile, veniva sviluppato in motivazione per esigenze di propedeuticità logica, giuridica e probatoria rispetto al tema di prova , dovendosi spiegare la ragione per cui Riina e Madonia fossero particolarmente interessati alla sorte di coloro che erano imputati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio Basile. Secondo i Giudici di primo grado, l’impegno di “Cosa Nostra” per condizionare l’esito del processo ai tre autori dell’omicidio del capitano Basile nel corrompere o intimidire i componenti dei Collegi giudicanti risulta da concordi dichiarazioni di collaboratori escussi nell’ambito del procedimento per l’omicidio del Giudice Saetta e del figlio Stefano.

Si richiamano a questo proposito le dichiarazioni di diversi collaboratori di Giustizia:

Ciulla Salvatore, affiliato alla famiglia di Resuttana ( di cui facevano parte Madonia Giuseppe, figlio del rappresentante e capo mandamento, Madonia Francesco e Bonanno Armando), ha riferito del denaro personalmente consegnato a Madonia Francesco per “aggiustare” il processo a carico degli imputati del Capitano Basile, cinquanta milioni destinati ai Giudici, somma che sarebbe servita per “fare uscire i picciotti” vale a dire Bonanno Armando e Peppuccio Madonia. Ha riferito, inoltre, della sollecitazione ricevuta dallo stesso Madonia a consegnare altro denaro con lo stesso scopo; il Ciulla ha confermato gli stretti vincoli che legavano Riina e Madonia Francesco i quali erano compari, avendo il primo tenuto a battesimo, facendogli da padrino di affiliazione, Madonia Nino;

Ganci Calogero, che ha riferito sui solidi legami tra il Riina, i Madonia di Resuttana, Brusca Bernardo e Ganci Raffaele.

Ha riferito sull’attivita’ corruttiva posta ordinariamente in essere da “Cosa Nostra” nei confronti di magistrati incaricati di processi di grande importanza per l’organizzazione e quanto ai rapporti tra il Riina ed esponenti di “ cosa nostra” dell’agrigentino, il Ganci ha dichiarato di essere a conoscenza di incontri tra il primo ed il capo famiglia della zona di Agrigento, Ferro Antonio, nonché con un altro esponente, Guarneri Antonio, i quali si erano presentati talvolta nella macelleria di Ganci Vittorio e successivamente accompagnati dal Riina.

Cancemi Salvatore, reggente del mandamento di Porta Nuova dal 1985 e vicino a Riina Salvatore, ha riferito sugli stretti rapporti tra Riina, Ganci Raffaele, Gambino Giuseppe Giacomo, Biondino Salvatore e Madonia Francesco, i cui figli Giuseppe e Salvatore erano, rispettivamente, compare di anello e “figlioccio” di affiliazione del Riina. Il collaborante ha concordato con Ganci nel chiarire che rientrava nel sistema operativo di “Cosa Nostra” cercare di avvicinare magistrati e Giudici popolari tutte le volte che in un processo fossero coinvolti affiliati all’organizzazione, riferendo di essere stato protagonista del tentativo di avvicinamento del dr. Barrile per l’aggiustamento del c.d. maxi ter, precisando le scansioni del tentativo di avvicinamento fino in Cassazione. L’interesse era tale che il Riina aveva esclamato:” io 4-5 anni di associazione me li faccio legati nella branda” intendendo dire che “si giocava i denti appunto per scagionare la commissione”. Sul punto, si legge in sentenza che la Polizia Giudiziaria che aveva partecipato alla perquisizione nel c.d. covo di via D’Amelio, individuato attraverso il pedinamento di Madonia Antonino, aveva rinvenuto varia documentazione ed in particolare, oltre al libro mastro delle estorsioni, un appunto manoscritto con i nominativi dei giudici popolari, distinti in titolari e supplenti, con a fianco i numeri di telefono e gli indirizzi della corte del maxi-ter. Il Cancemi ha ricordato l’ interessamento del Riina al processo Basile, che vedeva coinvolti il figlio di un esponente di spicco, Madonia Giuseppe, e Puccio Vincenzo, affiliato alla famiglia di Ciaculli, il cui massimo esponente era Michele Greco, all’epoca capo della commissione. Il processo Basile “ stava a cuore” al Riina, sia perché vi erano coinvolte persone a lui vicine (Madonia Giuseppe era suo compare in quanto suo testimone di nozze e Salvatore suo figlioccio di affiliazione), sia perché “ voleva vincere questa battaglia di fronte allo stato ottenendo l’assoluzione in questo processo delicato”. Con riguardo alle vicende di detto processo, presieduto dal dottor Saetta, il collaboratore ha riferito che Riina era stato informato attraverso un Giudice popolare che il Presidente non intendeva assolvere gli imputati e che secondo prassi, un tentativo di avvicinamento era stato esperito anche nei confronti dello stesso dottor Saetta, anche perché secondo modalità operativa a lui ben note, il Riina non si accontentava del giudice popolare o del giudice a latere (pag.95). Quel processo –stava a cuore- al Riina, sia perché vi erano coinvolte persone a lui vicine (sia perché voleva “vincere questa battaglia di fronte allo stato ottenendo l’assoluzione in questo processo delicato” ( cfr. sent. di I° pag.92). Il Cancemi ha anche riferito che vi era stata una “ raccolta di fondi” ( servivano 600 milioni) da parte di Madonia Nino, confermando quanto dichiarato da Ganci Calogero in ordine all’episodio da questi riferito circa il prestito che Cancemi ebbe a fargli per versare il contributo della sua famiglia. Il Cancemi ha precisato che i fondi non servivano per pagare gli onorari ai difensori ma “ per corrompere i giudici della cassazione” ed ha aggiunto che i seicento milioni, Nino Madonia li aveva consegnati a tale Mandalari che avrebbe dovuto a sua volta versarli ai giudici della Suprema Corte, cosa che a suo avviso aveva fatto in quanto la sentenza era stata poi annullata. Ma poi lo stesso collaboratore ha riferito di avere sentito direttamente da Ganci Raffaele e da Salvatore Biondino che Riina aveva ordinato l’omicidio Saetta per dare soddisfazione alla famiglia Madonia e per l’esplicita ragione che il Giudice non aveva voluto assolvere gli imputati. Il collaborante ha dichiarato, per averlo appreso da Ganci Raffaele e da Biondino Salvatore, che la morte del Giudice era stata determinata dal fatto che non si era voluto piegare: “ stu curnutazzu non l’ha voluto assolvere e quindi gli è toccato questo” ( cfr. pag.96) In base alle regole di funzionamento della commissione provinciale di Palermo l’omicidio Saetta, per il rilievo della vittima e la gravità del fatto, era stato, con assoluta certezza, deliberato dalla commissione. A riscontro lo stesso collaboratore ha dichiarato di avere avvertito, fra gli esponenti dell’organizzazione un unanime giudizio favorevole all’omicidio. Inoltre, sempre per le regole di funzionamento dell’organizzazione, l’omicidio stesso non poteva non essere stato deliberato con l’accordo delle commissione territorialmente interessate e con la partecipazione di esponenti di queste. Aveva saputo direttamente da Biondino e Riina che il presidente Saetta era stato avvicinato, ma si era rifiutato e aveva alzato la testa. Con riferimento alla fase esecutiva dell’omicidio del Giudice Saetta, il collaboratore ha riferito di avere desunto da una frase del Ganci Raffaele che il Madonia Salvatore vi aveva partecipato (“Salvuccio non ha mancato in questa occasione). Costa Gaetano, gia’ esponente della ‘ndrangheta, ha riferito di essere stato avvicinato da uomini di “Cosa Nostra’ per aggiustare in Cassazione il processo Basile tramite il canale posseduto da quella organizzazione.Era stato avvicinato da Pullarà Giovambattista cugino di Brusca Bernardo, il quale gli aveva chiesto di intercedere presso Piromalli Giuseppe (che aveva un filo diretto con la Cassazione) . Successivamente non si era fatto nulla perché il Pullarà gli aveva detto che avevano trovato un’altra strada. L’interesse di cosa nostra al buon esito del processo per l’omicidio del capitano Basile era da correlare alla posizione dell’imputato Madonia Giuseppe, per evitargli la condanna all’ergastolo. Francesco Marino Mannoia, affiliato a “ cosa nostra” dal 1975 e facente parte della famiglia di S.Maria di Gesù, capeggiata da Bontate Stefano, ha riferito che all’epoca dell’omicidio del capitale Basile era libero e che le persone coinvolte ed arrestate nell’immediatezza del fatto erano uomini d’onore validi: Puccio apparteneva alla famiglia di Ciaculli di Michele Greco, Bonanno alla famiglia facente capo a Madonia Francesco; Madonia Giuseppe era il figlio di quest’ultimo, capo mandamento di Resuttana, molto legato a Riina. Anche il Mannoia ha riferito della particolare propensione di “Cosa Nostra” ad intervenire per condizionare l’esito dei processi mediante l’avvicinamento di Giudici, sia popolari che togati, ed in concreto degli interventi effettuati per aggiustare il processo relativo all’omicidio del capitano Basile, definito “una storia infinita” tanto che vi era stata una lunghissima battaglia da parte dell’organizzazione ( pag.106). Il collaboratore ha dichiarato che il primo ad essere avvicinato era stato il giudice Aiello di Bagheria il quale, “ non potendo scegliere in questa situazione molto travagliata per lui, perché in fin dei conti non era un giudice colluso al cento per cento” aveva disposto una perizia sulla “ terra trovata sulle scarpe”. Ha riferito il collaborante che dopo la prima fase del maxi-processo di Palermo era stato detenuto nella stessa cella con Puccio Vincenzo il quale in un’ occasione dopo la condanna, gli aveva riferito di essere a conoscenza che il dottor Saetta in Camera di Consiglio si era battuto fortemente per un verdetto di condanna e aveva quindi saputo dal coimputato Madonia che la sua famiglia si era data da fare per avvicinare i Giudici popolari. Il Mannoia ha riferito di avere saputo ancora dal Puccio che quest’ultimo, dopo avere saputo dell’omicidio, si era infuriato, temendo che la sentenza pronunciata dal Giudice Saetta sarebbe stata cosi confermata, ma poi in carcere era stato rassicurato da Madonia Giuseppe, Pippo Calò e forse Agate Mariano che tutto sarebbe andato bene in Cassazione. Il collaboratore ha riferito che il movente dell’omicidio del dott. Saetta risiedeva nel fatto che il magistrato ucciso aveva già condannato gli esecutori materiali ed era il candidato più accreditato a presiedere il giudizio di appello del c.d.maxi-processo nel quale Madonia Francesco era già stato riconosciuto colpevole- quale mandante- dello stesso omicidio ascritto al figlio. La decisione di sopprimere il dottor Saetta era stata deliberata in commissione non senza l’accordo di Francesco Madonia, il quale era imputato quale mandante dell’omicidio nel maxiprocesso celebratosi l’anno precedente; processo che sarebbe stato conosciuto in Appello proprio dal Giudice Saetta, secondo l’ipotesi piu’ attendibile che fa la sentenza. All’interno dell’organizzazione era poi consapevolezza diffusa che l’omicidio era stato deliberato dall’organizzazione al massimo livello. Si trattava, infatti, di un delitto che rientrava tra quelli che per la rilevante posizione della vittima e per la risonanza pubblica del fatto doveva essere deliberato dal massimo organo decisionale, la commissione provinciale, di cui faceva parte, quale capomandamento, Madonia Francesco e, con posizione di rilievo, Riina Salvatore, il quale all’epoca (1988) era particolarmente influente a seguito dell’eliminazione del Bontate e dell’Inzerillo e di altri appartenenti alla corrente avversa. Francesco Di Carlo, uomo d’onore della famiglia di Altofonte, rientrante nel mandamento di S. Giuseppe Iato, diretto da Brusca Bernardo, ha ricoperto la carica di consigliere, sottocapo ed anche rappresentante, ha riferito ai Giudici di primo grado che Riina aveva maturato una personale avversione contro il capitano Basile, che con le sue indagini era arrivato ad arrestare un suo stretto congiunto, tale Giacomo Riina, che con altro boss, Giuseppe Leggio, era emigrato in Emilia Romagna. Il Di Carlo ha riferito sugli ottimi rapporti con Brusca e Riina intimamente legati tra loro tanto da essere “ unica persona” e di avere intensificato i rapporti con Riina negli anni 1971-1972, allorché lo aveva ospitato insieme alla moglie ed alla primogenita di pochi mesi nella sua abitazione durante la latitanza. Di Carlo riferiva che nell’omicidio del capitano Basile aveva avuto un ruolo negativo Giovanni Brusca, figlio di Bernardo, per un errore del quale gli inquirenti erano arrivati ad arrestare il terzetto Madonia - Puccio - Bonanno. Brusca e Riina, rispettivamente padre e padrino di Giovanni Brusca, si sentivano moralmente impegnati a salvare i tre, due dei quali appartenenti al mandamento d Resuttana di cui era capo Ciccio Madonia, padre di uno degli arrestati. Da qui il particolare interesse ad aggiustare il processo, attività sulla quale il collaboratore forniva numerosi particolari, nonostante l’evidente difficoltà di condizionare un processo nel quale gli autori erano stati pressoché sorpresi sul fatto. Il collaboratore ha poi dichiarato di avere saputo da Capizzi Benedetto che il magistrato era stato ucciso perché non aveva voluto collaborare nonostante avvicinato da esponenti di “Cosa Nostra” di Agrigento con i quali Riina era in intimi rapporti, tali Ferro Antonio e Di Caro Giuseppe, noti personaggi. Sui rapporti e le ragioni del solido legame tra il Riina, il Ferro e il Di Caro il collaboratore forniva ancora analitiche spiegazioni. Allo stesso modo il collaboratore riferiva degli strettissimi vincoli esistenti tra Riina e Madonia Francesco, del figlio del quale Giuseppe, Riina era stato padrino di mafia. Sulla necessità che l’omicidio Saetta fosse stato deliberato dalla commissione e sul fatto che vi avessero dovuto partecipare esponenti locali, il Di Carlo confermava le dichiarazioni del Mannoia. Il collaboratore dichiarava di avere saputo da Capizzi Benedetto che Saetta era stato ucciso perché non aveva voluto collaborare, nonostante avvicinato da esponenti di “cosa nostra” di Agrigento, con il quale il Riina era in intimi rapporti ( Ferro Antonio e Di Caro Giuseppe), circostanza che l’aveva molto meravigliato, conoscendo la notevole influenza di questi ultimi. Sulle dichiarazioni del Di Carlo venivano sentiti, quali fonti di riferimento ex art.195 c.p.p., tutte le persone dallo stesso menzionate ovvero Di Carlo Giulio, Bernardo Brusca, Greco Leonardo e Capizzi Benedetto. Costoro smentivano in gran parte le affermazioni del Di Carlo, ma la Corte, analizzando queste dichiarazioni, perveniva alla conclusione dell’assenza di “qualsivoglia apprezzabile valenza probatoria”di tutte le fonti dirette. A riscontro positivo dell’affermazione del Di Carlo circa la possibilita’ per lo stesso di mantenere contatti di ogni genere, anche telefonici, con la Sicilia, da cui le informazioni che ha portato nel processo, la Corte menziona la deposizione di Di Matteo Mario Santo e le risultanze di una inchiesta amministrativa delle Autorità inglesi su episodi di abuso nell’impiego del telefono nel carcere di Whitemoore. Gaspare Mutolo, già uomo d’onore della famiglia di Partanna Mondello, capeggiata da Riccobono Rosario, ha riferito sulle iniziative di “Cosa Nostra” per condizionare i processi che riguardavano i propri affiliati. Quanto al processo per l’omicidio Basile, il collaboratore ha dichiarato che l’ufficiale stava indagando su un traffico di droga che coinvolgeva persone di Palermo e Bologna, fra i quali Pino Leggio e Giacomo Riina. Ha chiarito che la preoccupazione di Riina era quella di bloccare le indagini per l’omicidio del capitano, precisando che l’omicidio dell’Ufficiale era stato deciso da Riina e dalla corrente maggioritaria a lui vicina, con esclusione della fazione avversa rappresentata da Riccobono, Bontate ed Inzerillo. Anche il Mutolo ha riferito dei tentativi di avvicinamento nei confronti del Presidente Aiello (tramite tali Mineo Antonio di Bagheria e Carlo Castronovo che curava la proprietà del Magistrato), il quale si sarebbe liberato dal processo disponendo una perizia sulle scarpe degli imputati. Si legge, ancora, in motivazione che Mutolo aveva appreso da diversi detenuti in carcere, tra cui Bagarella Luca, che il dottor Saetta era stato ucciso perche’ aveva condannato i tre ragazzi. Costui inoltre avrebbe commentato: “Si colpisce uno perche’ la cosa venga capita anche da altri dieci- venti”. Il collaborante ha confermato l’interesse di “ cosa nostra” a condizionare l’esito del c.d. maxi-ter, attesa la rilevanza strategica per l’organizzazione di un’ eventuale smentita processuale del c.d. teorema Buscetta circa la dibattuta questione della responsabilità della “ commissione”. Spatola Rosario, affiliato fin dal 1972 alla famiglia mafiosa di Campobello di Ma zara, ha dichiarato che –tradizionalmente- “cosa nostra” aveva sempre tentato di condizionare l’esito dei processi a carico dei propri affiliati, con interventi nei confronti dei magistrati fin dalla fase istruttoria e successivamente in quella dibattimentale. Dalle sue ulteriori dichiarazioni venivano tratte conferme di quanto gia’ acquisito con le propalazioni degli altri collaboratori. La motivazione di primo grado passa, quindi, ad illustrare le risultanze dibattimentali relative agli accertamenti su fatti e circostanze sulla cui base ritenere realizzato il tentativo di avvicinamento di Giudici popolari e togati; deposizione Gentile, Inglima, Saia; analisi della sentenza assolutoria per insufficienza di prove pronunciata dalla Corte di Assise presieduta dal Giudice Curti Giardina; deposizione del Giudice Camerata Scovazzo, Giudice a latere che pronunciò l’ultima sentenza di merito di condanna; lettere riservate dei Giudici di quest’ ultimo processo. Nel successivo capitolo ( pag.148 I°), la Corte ricostruisce le vicende relative alla designazione del presidente del giudizio di Appello del cosiddetto maxiprocesso 1, per dimostrare come vi fosse un doppio ed ulteriore stringente interesse di Riina Salvatore e di Madonia in quel processo imputati anche di essere i mandanti dell’omicidio del capitano Basile. Dalla lettura della motivazione della sentenza della Corte di Assise di Appello presieduta dal Dott. Scaduti risulta che alla data del 25 settembre 1988, giorno dell’omicidio del Presidente Saetta, Riina Salvatore e Madonia Francesco erano imputati appellanti nel c.d. “maxi 1” quali mandanti dell’omicidio Basile. Interesse era che quel Collegio non fosse presieduto dal dottor Saetta, sia perchè questi aveva già conosciuto del fatto, condannando gli esecutori materiali, sia perchè la condanna di Riina e Madonia come mandanti avrebbe costituito la conferma del cosiddetto teorema Buscetta, che proprio in quel processo si e’ affermato e che sottendeva il dato della unitarieta’ di “Cosa Nostra” e delle collegialita’ delle decisioni in ordine agli omicidi eccellenti. L’accertamento giudiziario dell’ identità dei mandanti dell’omicidio del capitano Basile sarebbe stata la definitiva conferma della credibilita’ dei primi pentiti di mafia Buscetta e Contorno. La sentenza dei Giudici di primo grado si sofferma sulle vicende che avevano portato il dottor Saetta a presiedere la I Sez. della Corte di Assise di Appello di Palermo contro la sua volonta’ e come fosse di dominio pubblico negli ambienti giudiziari palermitani, che il dottor Saetta sarebbe stato designato a presiedere il maxiprocesso in Appello. Vengono riportate per esteso le deduzioni che il dott. Saetta aveva presentato alla proposta di variazione tabellare per essere assegnato ad una Sezione della Corte di Appello piuttosto che alla Sezione della Corte di Assise di appello (vedi a pag.152), soprattutto laddove il magistrato evidenziava di essere stato per due anni a Caltanissetta e di avere presieduto la Corte di Assise di Appello e trattato il processo per la strage Chinnici. Circostanza che la Corte ritiene accertata in base ad una testimonianza raccolta in primo grado dal figlio del magistrato ucciso e da un appunto manoscritto rinvenuto nell’agenda dello stesso magistrato dall’esame del procedimento di assegnazione dei processi alle varie Corti di Assise, che faceva prevedere l’assegnazione del maxi alla I Sez. di cui era Presidente il dottor Saetta. Tutto cio’, malgrado le contrarie affermazioni rese a dibattimento dal presidente della Corte di Appello del tempo dottor Conti, la cui deposizione è stata ritenuta non immune dal sospetto di essere stata condizionata dal timore di apparire moralmente responsabile di una designazione non gradita dall’interessato, che poteva averne oggettivamente determinato l’uccisione con finalita’ preventiva. Un ruolo significativo nell’economia di questa parte della decisione, assume l’analisi degli elementi che inducono la Corre a ritenere che l’organizzazione mafìosa era intervenuta sui componenti il Collegio presieduto dal dottor Saetta nel processo Basile, costringendo lo stesso ad esercitare con autorevolezza i suoi poteri presidenziali per giungere ad una decisione conforme alle risultanze processuali. Altro passaggio centrale della sentenza e’ rappresentato dalla sintesi delle dichiarazioni del collaboratore Angelo Siino (pag.172), personaggio ben noto alle cronache giudiziarie e giornalistiche, dopo averne ricostruito il ruolo nell’ambito dell’organizzazione, definito in efficaci termini giornalistici, il ministro dei lavori pubblici di “Cosa Nostra”, la sentenza ne ricostruisce la deposizione. In sostanza, Siino, che per le sue mansioni era intimo di tutti i capi di “Cosa Nostra”, si occupava della gestione degli appalti fino al 1991, tant’è vero che ha dichiarato che nel nisseno era stato cooptato da Giuseppe Madonia il quale gli aveva dato l’incarico di supervisore di tutti gli appalti a Caltanissetta. Ha dichiarato di avere conosciuto Provenzano, Bernardo Brusca, Di Maggio, Giovanni Brusca, Geraci e Farinella (pag.175). Proprio il rapporto fiduciario instaurato con Giuseppe Madonia gli aveva consentito di essere messo al corrente di tutte quelle che erano le evoluzioni nella famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Il Siino ha confermato che su pressione dei vertici palermitani dell’organizzazione, la componente di Agrigento, avente a capo Giuseppe Di Caro, aveva tentato di intervenire sul Giudice Saetta attraverso i parenti di Canicattì di quest’ultimo. Fallita l’operazione era scattata la successiva fase di vendetta affidata sempre agli agrigentini e precisamente al braccio armato del Di Caro, costituito dai fratelli Ribisi, dei quali non gli era stato fatto il nome dei singoli partecipanti. Peraltro costoro, nel momento dell’esecuzione, avevano commesso l’errore di compiere l’omicidio in territorio di Caltanissetta, provocando così le ire e le rimostranze del capo della provincia nissena, Giuseppe Madonia.( vedi pag.188). Tuttavia il Madonia, pur contrariato, non aveva potuto assumere alcuna iniziativa a questo proposito, essendo chiaro che l’omicidio era stato ordinato dall’alto e cioè da Riina e dal vertice di “Cosa Nostra” palermitana. Il Siino ha poi riferito dei frequenti e stretti rapporti nel periodo 87,88,89 tra Di Caro e Salvatore Riina ed i corleonesi in genere, precisando che il personaggio che assicurava il collegamento, il messaggero ufficiale che si occupava dei rapporti con la provincia di Agrigento era Giovanni Motisi. Anche Siino ha ribadito il fortissimo interessamento di “Cosa Nostra” al processo perchè vi erano coinvolti personaggi di altissimo rilievo dell’ organizzazione. Si erano usati tutti i sistemi possibili per avvicinare i Giudici di tutti i gradi, compresa la Cassazione, con un particolare interessamento da parte dei noti cugini Salvo. La sentenza pronunciata dal Giudice Saetta veniva dopo diversi annullamenti; sarebbe stata verosimilmente ben motivata, sicchè sarebbe diventata sicuramente irrevocabile. Da ciò derivava una grande rabbia di “Cosa Nostra” contro il Giudice. Riferiva il Siino della sua conoscenza con la famiglia Madonia e dei solidi rapporti tra Giovanni Brusca e i figli del Madonia, in particolare Nino. I rapporti tra Madonia ed il Riina erano consolidati, intensi e diversificati e vi erano solidi rapporti tra Giovanni Brusca ed i suoi figli. In particolare, Madonia Francesco era un esponente di vertice di “cosa nostra” così come il figlio Nino il quale, dopo l’arresto del padre, gli era subentrato nella gestione degli affari del mandamento di Resuttana. La sentenza cita ancora, a proposito di questo collaboratore, i riferimenti ai tentativi di “Cosa Nostra” di condizionare tutti i maxiprocessi di Palermo e delle variegate strategie di avvicinamento di Giudici togati e popolari. L’omicidio in questa prospettiva era l’extrema ratio. L’impegno di “Cosa Nostra” per aggiustare il processo Basile derivava, anche per Siino, dal fatto che i tre imputati erano stati arrestati perché Giovanni Brusca non si era presentato puntuale all’appuntamento con la macchina per far fuggire i tre autori del delitto. Da qui l’impegno aggiuntivo dell’organizzazione dei vertici, che ci sentivano responsabili di avere determinato la condanna certa dei tre. Proprio i Brusca erano per questo i più impegnati con i Salvo. Ulteriore contributo nel processo di primo grado veniva fornito dal collaboratore Leonardo Messina.( pag.205), la cui deposizione viene giudicata dalla Corte di primo grado come assai rilevante. Il Messina, anzitutto, ha illustrato con dovizie di particolari, secondo quanto riporta la sentenza, le ragioni della sua approfondita conoscenza degli uomini di “Cosa Nostra” agrigentina. Il collaboratore ha dichiarato che nel 1988 il rappresentante della provincia di Agrigento era Giuseppe Di Caro e quello della provincia nissena Giuseppe Madonia. Egli ha illustrato cause e circostanze della sua approfondita amicizia con Gioacchino Ribisi, uomo d’onore di Palma di Montechiaro e della sua conoscenza di numerosi fratelli di quest’ultimo, tra cui Rosario, rappresentante per un periodo della famiglia di Palma. Il Messina ha illustrato cause e sviluppi della spaccatura di quella famiglia, quella di Palma, in due fazioni contrapposte: da una parte il gruppo facente capo ai Ribisi, gli Allegro, Cocò Brancato e, dall’altra, Angelo Bordino, Pasquale Savaia ed altri. Ha ricordato che Pietro Ribisi non aveva potuto assumere la qualita’ di uomo d’onore per la regola vigente in “Cosa Nostra” per cui non potevano far parte dell’organizzazione più di due fratelli, tant’è che la presenza di Rosario, Ignazio e Gioacchino costituiva già una deroga. Ma Pietro Ribisi aveva peraltro avuto un ruolo operativo nelle attivita’ criminose della famiglia agrigentina e con Montagna Michele, con Coco Brancato, costituiva il braccio armato di Giuseppe Di Caro. Il collaboratore ha raccontato di avere partecipato ad alcuni episodi delittuosi con i Ribisi e che Gioacchino gli aveva confidato di avere commesso circa centocinquanta omicidi e che era sua abitudine precostituirsi un alibi in occasione di ogni delitto. Sull’omicidio Saetta, secondo la Corte, il Messina aveva fornito un contributo di grande importanza in quanto, per sua ammissione, era stato preavvisato da Gioacchino Ribisi di mettersi a disposizione dei fratelli incaricati dell’omicidio del Giudice Saetta, nel caso costoro ne avessero avuto necessità. Tale disponibilita’ doveva consistere nell’approntare vie di fuga nel territorio di sua competenza, sempre in caso di necessità, anche perché il Messina disponeva di un territorio sito in Serradifalco, lungo una strada che corre parallela allo scorrimento veloce Caltanissetta-Agrigento e ciò era noto ai Ribisi. Gioacchino Ribisi gli aveva in particolare chiesto di mettersi a disposizione del fratello Pietro, spiegandogli che il Giudice Saetta doveva essere ucciso perchè non si era voluto piegare in relazione al processo per l’omicidio del capitano Basile.( non si era voluto calare) –pag.220- Ha precisato di essere a conoscenza ancora che tale Ferraro Salvatore, ambasciatore di Giuseppe Madonia, aveva un rapporto di lavoro fittizio, in relazione ad un procedimento per misure di prevenzione, proprio con il cognato del magistrato, tale Pantano, che operava nel settore farmaceutico a Canicattì. Dopo l’omicidio del Giudice, Gioacchino Ribisi gli aveva confidato di avere conservato il biglietto del traghetto, che aveva mostrato agli inquirenti per documentare il suo asserito viaggio in Germania e che gli esecutori materiali del delitto erano stati il fratello Pietro, Michele Montagna e Coco Brancato. Ha riferito il Messina Ribisi Gioacchino gli aveva pure chiesto di farlo incontrare con Giuseppe Madonia perche’ era sua intenzione denunciare il Di Caro per la violazione delle regole di “Cosa Nostra” per due ragioni: 1) sebbene l’ordine della “regione” prevedesse che l’omicidio del Giudice dovesse essere seguito in territorio di Canicattì, invece il Di Caro stesso aveva dato ordine ai suoi di eseguirlo appena uscito da detto Comune e infatti il delitto risulta eseguito in territorio di Caltanissetta, anche se a brevissima distanza da quello di Agrigento. 2) l’ordine era stato trasmesso dal Di Caro tramite il figlio Salvatore Di Caro, nonostante questi non rivestisse la qualità di uomo d’onore. Anche Guarneri Diego e il Ferraro gli avevano successivamente confermato il movente dell’omicidio. L’incarico era stato dato al Di Caro in base ad una precisa regola di “Cosa Nostra”, essendo il Giudice nativo proprio di Canicattì ed “era la sua gente che lo doveva punire” e pertanto l’incarico non poteva che essere dato al Di Caro che della famiglia di quel paese era il rappresentante. Il Di Caro tuttavia, per non compromettersi troppo, aveva dato ordine di eseguire l’omicidio fuori territorio, per l’esigenza di “scaricarsi le responsabilità da dentro Canicattì” e far “ricadere la colpa su altra provincia” (pag.222). Ha precisato Messina Leonardo che non aveva potuto parlare con Madonia dell’omicidio del magistrato perche’ sarebbe incorso in conseguenze sanzionatorie per essersi messo a disposizione dei Ribisi senza autorizzazione del suo rappresentante provinciale. Ha confermato che un omicidio come quello del Giudice Saetta non poteva essere eseguito senza una specifica e preventiva deliberazione della commissione regionale, alla quale aveva sicuramente partecipato il Madonia, ignorando peraltro quali fossero state le conseguenze della violazione consumata dal Di Caro. Il quadro derivante dalle sintetizzate dichiarazioni, ampiamente riprodotte in motivazione, viene integrato dal resoconto di ulteriori dichiarazioni testimoniali anche di ufficiali di Polizia Giudiziaria autori di indagini a riscontro. La sentenza si sofferma anzitutto sulle interferenze nell’attivita’ del Giudice Saetta gia’ attuate dal Di Caro in favore dei noti fratelli Salvatore e Michele Greco, imputati della strage in cui aveva perso la vita il Consigliere Istruttore di Palermo dottor Chinnici, processo trattato a Caltanissetta dallo stesso dottor Saetta. Sul punto hanno riferito il figlio del magistrato, Roberto Saetta, e gli ufficiali dei Carabinieri Raffaele Imondi e Capriati Pasquale, gia’ comandanti la Compagnia Carabinieri di Canicatti’. Successivamente la Corte passa in rassegna gli elementi che l’hanno indotta a ritenere che i movimenti del magistrato prima del delitto fossero spiati e controllati, tenuto conto della contiguità tra l’immobile dei Guarneri che gestivano un magazzino di prodotti agricoli e l’abitazione dei Pantano. Altri argomenti vengono dedicati ai riscontri e alle affermazioni secondo cui l’autovettura utilizzata per il delitto era stata sottratta agevolmente poiche’ era stata ricoverata in precedenza in un’autofficina nella quale lavorava Ribisi Ignazio che aveva approfittato dell’occasione per stampare una chiave falsa. Altro riscontro alle dichiarazioni di Messina veniva individuato nell’esibizione da parte del Gioacchino Ribisi ai Carabinieri ai tempi delle prime indagini di un biglietto del traghetto che si presentava immacolato e negli elementi che inducevano a ritenere la falsita’ dell’alibi stesso. La Corte si sofferma quindi ad analizzare le testimonianze di quanti avevano avuto un ruolo in tentativi di avvicinamento del magistrato rilevando in proposito che trattandosi in molti casi di testimonianze di familiari della moglie del Giudice, per la delicatezza degli argomenti in relazione al movente del duplice omicidio, dette testimonianze non potevano non dare luogo a remore e disagio morale per le persone chiamate a deporre sul punto in relazione a possibili profili di responsabilita’ morale per l’omicidio delle stesse persone. Reticente -in particolare- veniva ritenuta la deposizione di Pantano Giuseppe, cognato del Giudice ucciso, per cui veniva ordinata la trasmissione dei verbali relativi al Procuratore della Repubblica per il delitto di falsa testimonianza. Cosi’ del resto come in precedenza si era ordinato per i verbali delle dichiarazioni rese dal presidente della Corte di Appello Carmelo Conti. La fase esecutiva del delitto veniva ricostruita dalla Corte attraverso le dichiarazioni di altri collaboratori di Giustizia: Giuseppe Benvenuto, Giovanni Calafato, Gioacchino Schembri. Da confidenze rivolte ai collaboratori dagli stessi protagonisti del delitto, i primi avevano appreso che autori erano stati materialmente i già menzionati Nicola Brancato, Michele Montagna e per quanto di interesse Pietro Ribisi su mandato dei palermitani e che il movente era stato, appunto, il diniego del magistrato di partecipare all’aggiustamento del processo contro gli autori dell’omicidio dell’ufficiale dei Carabinieri. Il via era stato dato dall’interno della casa dei Guarneri, che abitavano nei pressi della casa della famiglia della moglie del magistrato; costoro avevano visto uscire, o uomini di questa famiglia, avevano visto uscire il magistrato e così avevano dato il via all’operazione.( Benvenuto, pag.246). La consumazione dell’omicidio in territorio di Caltanissetta aveva creato problemi, sempre secondo quest’altra batteria di collaboratori, al padrino Peppe Di Caro. Gioacchino Ribisi era solito vantarsi con loro dell’alibi che si era precostituito acquistando un biglietto del traghetto. Calafato Giovanni ha riferito di avere appreso, dopo l’omicidio del Giudice, nel corso di un colloquio con Antonio Gallea e Peppe Montanti che il dott. Saetta era stato ucciso per mano dei palmesi (Cola Brancato, Pietro Ribisi e Pietro Giganti), su richiesta dei canicattinesi insieme a Michele Montagna, per fare un favore ai palermitani. Le dichiarazioni dei suddetti collaboratori venivano riscontrate con le testimonianze di ufficiali di Polizia operanti nel territorio agrigentino nel corso degli anni ‘80, dichiarazioni utili a ricostruire il contesto criminoso in termini conformi alle propalazioni dei diretti partecipanti, nonchè in base alle sentenze irrevocabili acquisite e riguardanti, appunto, le diverse vicende criminali che avevano interessato l’agrigentino. Vengono riassunte a questo proposito le dichiarazioni del capitano Felice Ierfone e le risultanze della sentenza pronunciata dal Tribunale di Agrigento nel procedimento a carico di Allegro Francesco + 16, nonchè le risultanze della sentenza 23 luglio 1987 del Tribunale di Agrigento, entrambe irrevocabili. Ricostruite analiticamente le vicende conflittuali della famiglia mafiosa di Palma di Montechiaro e dopo essere giunti alla conclusione della perfetta corrispondenza tra le dichiarazioni rese in questo procedimento dai vari Benvenuto, Calafato, Messina, Schembri, con le dichiarazioni rese dagli stessi e le risultanze istruttorie fatte proprie in sentenze irrevocabili, la sentenza dei primi Giudici dedica uno specifico capitolo alla valutazione di attendibilita’ dei collaboratori di Giustizia pervenendo alla conclusione dell’attendibilità degli stessi sia sotto il profilo intrinseco che sotto quello estrinseco e dedicando uno specifico argomento alla caratteristica di dichiarazioni de relato posseduta da molte delle dichiarazioni degli stessi, verificando singolarmente e in concreto le singole dichiarazioni accusatorie con circostanze esterne tali da convalidarle. Con particolare riferimento alle dichiarazioni di Messina Leonardo, la Corte evidenzia come le stesse -contenendo la confessione di Messina Leonardo di essersi messo a disposizione dei fratelli Ribisi, e segnatamente di Pietro, per ogni necessità nella fase ante delictum- comportavano una sostanziale autoaccusa che trasformava la dichiarazione in una sostanziale autochiamata in correità. Uno specifico riscontro alle dichiarazioni di Calafato, Benvenuto e Schembri derivava dalle emergenze balistiche dalle quali risultava che l’arma del delitto era stata o un mitra M l2 o altro mitra, o un mitra Stern inglese ( pag. 334). In effetti i collaboratori avevano puntualmente riferito della disponibilita’ di armi corrispondenti al primo e al terzo tipo da parte del gruppo Ribisi. Sempre con riferimento al giudizio di attendibilità dei collaboratori la sentenza si preoccupa di confutare le argomentazioni difensive relative all’impossibilita’ che il Montagna, sorvegliato speciale, potesse avere partecipato al delitto, desumendone da ciò la complessiva infondatezza della ricostruzione basata su quelle dichiarazioni. A questo proposito la sentenza osserva che dagli accertamenti svolti era emerso che nonostante la sua condizione di sorvegliato speciale all’epoca del delitto, il Montagna non era affatto sottoposto a stringenti controlli serali quantomeno in ore, appunto, serali e notturne, il che rendeva possibile, secondo la deduzione che se ne fa, al Montagna partecipare al gruppo di fuoco predesignato per l’azione. Dopo aver trattato ampiamente della convergenza delle dichiarazioni rese dai collaboratori e del reciproco riscontro con ampi richiami di Giurisprudenza sui criteri di valutazione delle chiamate plurime, la Corte si diffonde lungamente su un episodio dell’attivita’ di indagine che l’aveva impegnata in modo imprevedibile nel corso dell’ultima parte dell’attivita’ istruttoria. ­L’episodio si riferisce alla ricostruzione dibattimentale delle informazioni confidenziali fornite dagli ufficiali dell’Arma dei Carabinieri Petronio e Colletti da due pregiudicati, tali Claudio Cusumano e Palmeri Salvatore, aventi per oggetto gli autori e le modalita’ del furto della BMW usata per commettere il delitto. L’approfondimento dell’episodio sollecitato dalla difesa Ribisi perche’ idoneo a sollevare dubbi sulla ricostruzione del modo in cui, secondo i collaboratori, il commando omicida era venuto in possesso dell’autoveicolo, metteva in luce, secondo la Corte, una evidente carenza nella trasmissione di notizie rilevanti per l’Autorita’ Giudiziaria nei momenti successivi all’omicidio. La questione, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, subiva uno sviluppo notevole e finiva con l’occupare quasi un terzo dell’intera motivazione.( da pag.359 in poi). Il teste Colletto Mariano, sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri in servizio ad Agrigento, ha riferito di avere acquisito informazioni confidenziali da Cusumano Claudio il quale gli aveva detto che l’autovettura BMW sottratta al Guggino era stata asportata da tale Gambino Pietro, poi ucciso, il quale l’aveva portata a Canicattì seguito dal Cusumano a bordo di una Vespa. Il furto era stato commissionato da tre palermitani, uno dei quali abitante a Canicattì. Il furto era avvenuto in data 17.9.1998. Il teste disponeva di una relazione di servizio del 10 ottobre 1998. Venivano sentiti direttamente il Cusumano ed anche il Palmeri che deponevano in modo confuso e contraddittorio, nella sostanza negando quanto riferito de relato dai due ufficiali dell’Arma. Veniva interrogato l’appuntato Antonio Muratore, il quale riferiva sulle indagini di archivio relative alla presenza agli atti dei documenti richiamati nella posizione dei due ufficiali, l’appunto datato 26.11.88 a firma dei due, Petronio e Colletto, non risultava nell’archivio del Comando, nel fascicolo relativo all’omicidio Saetta. Veniva svolto un confronto tra Palmeri e Cusumano nel quale quest’ultimo dichiarava di non conoscere il primo. Dal confronto e in particolare dalle dichiarazioni del Palmeri emergeva che i due si erano più volte recati a Palma di Montechiaro, che probabilmente in un’ occasione il Cusumano aveva proposto all’altro di trasportare una BMW rubata da San Leone a Palma di Montechiaro in epoca prossima al 25 settembre 1988. Venivano nuovamente esaminati i due sottufficiali Colletto e Petronio sugli atti a loro firma, al termine di un convulso esame nel corso del quale i due testimoni si contraddicevano, si mostravano reticenti e non riuscivano a dare convincenti spiegazioni su tutta una serie di circostanze attinenti alle informazioni ricevute dal Cusumano e dal Palmeri, emergeva tra l’altro che l’appunto 26.11.88 in possesso dei due ufficiali non era agli atti e cosi pure l’altro appunto in cui si riferiva delle confidenze del Palmeri (risentito in carcere dove era stato nel frattempo condotto), senza che di questa circostanza si desse in alcun modo atto in alcun documento ufficiale, all’esito di tutto veniva disposto un nuovo esame dei collaboratori Calafato e Benvenuto. Per altro verso venivano acquisite informazioni sui periodi di detenzione del Benvenuto, del Calafato e del Cusumano Sergio, fratello di Claudio, e disposta l’audizione del generale Catalano e del colonnello Pandolfo, al tempo diretti superiori dì Petronio e Colletti. Calafato confermava di avere commentato con Antonio Gallea l’omicidio di Pietro Gambino, ucciso dai Ribisi per essere stato colui che aveva rubato l’autovettura usata per il delitto e quindi per non lasciare testimoni. Avevano poi commentato le notizie di stampa che riferivano su questo omicidio, mettendolo in collegamento con l’omicidio Saetta. A proposito dei fratelli Cusumano confermava che costoro gli risultavano in confidenza con mafiosi e in particolare diceva di avere saputo da Claudio Cusumano dell’esistenza dei rapporti di conoscenza di quest’ultimo con Pietro Ribisi. Della vicinanza di Cusumano a “Cosa Nostra” aveva appreso da Peppe Pullara, come pure aveva appreso da Gallea che Cusumano era vicino agli uomini del gruppo avverso e quindi a “Cosa Nostra” e che l’omicidio del Gambino era sicuramente opera dei Ribisi, in particolare di Gioacchino. Anche il Benvenuto, riesaminato, forniva elementi sulla vicinanza dei fratelli Cusumano agli uomini di “Cosa Nostra”, in particolare ai Ribisi. Si dava infine contezza in sentenza del risultato del nuovo esame del generale Catalano, all’epoca del delitto comandante del Gruppo Carabinieri di Agrigento. Dagli ampi e testuali brani dell’esame riportato in sentenza e’ possibile desumere che la pista Palmeri - Cusumano, autori del furto della BMW, non è sta oggetto di puntuale rapporto all’Autorita’ Giudiziaria. La ragione addotta dal teste era quella di una sottovalutazione errata delle circostanze emerse in quel momento. Sempre sul medesimo argomento venivano sentiti il dirigente della Questura di Caltanissetta del tempo, dottor Dodaro, incaricato di una indagine storico - documentaria su quanto risultante agli atti della Questura di Caltanissetta nei confronti dei personaggi coinvolti nella vicenda del furto della BMW, a partire dalla propalazione di Palmeri e Cusumano, nonche’ quali fonti di riferimento Pullara Giuseppe, Gallea Antonio e Brancato Giuseppe. Sempre sugli stessi temi veniva esaminato il tenente-colonnello Gandolfo, il quale riferiva sulle attività e sugli incarichi attribuiti ai vari ufficiali del Gruppo di Agrigento al tempo dell’omicidio Saetta; forniva, in base a quanto riportato in sentenza, dichiarazioni difformi da quelle rese dal generale Catalano, piu’ vicine a quelle rese da Petronio e Colletto. Venivano riesaminati il Cusumano e il Palmeri, la vedova di Gambino Pietro, Traversa Grazia, il dottor Filippo Nicastro, che all’epoca si era occupato delle indagini sull’omicidio di Gambino Pietro. Il funzionario riferiva che in base alle prime indagini era stata formulata l’ipotesi investigativa che Gambino fosse stato coinvolto in un furto di una BMW utilizzata per l’omicidio Saetta e che avendo saputo poi che l’autovettura era servita per la commissione di un fatto eclatante avesse voluto sfruttare quell’ opportunita’ come arma di ricatto economico nei confronti del committente o comunque per entrare in qualche organizzazione. Da questa complessa e tormentata attivita’ istruttoria, scaturita dagli appunti redatti dai marescialli Colletto e Petronio a seguito delle confidenze ricevute dai predetti Cusumano Claudio e Palmeri Salvatore, la Corte traeva le conclusioni riportate nelle ultime pagine della motivazione. I primi Giudici pur stigmatizzando assai criticamente le risposte reticenti ed evasive con cui i protagonisti della vicenda avevano cercato di spiegare le condotte più volte qualificate come non ortodosse, osservavano che alcuni elementi valorizzabili e desumibili dalla pure equivoca vicenda, lungi dal disarticolare il quadro probatorio delineatosi in esito alla istruzione dibattimentale svolta fino a quel punto sulla scorta di ben piu’ limpida attivita’ investigativa, finivano con il corroborare il quadro probatorio gia’ acquisito. Di questa conclusione veniva fornita giustificazione mediante una ricostruzione ragionata delle apparentemente confuse, caotiche e quindi indeterminate e imprecise propalazioni dei diversi soggetti sentiti sulla vicenda riguardante il furto della BMW e l’omicidio di Pietro Cambino, posto in collegamento con questo episodio. Secondo la Corte, indipendentemente dalla possibilità di offrire una ricostruzione positivamente favorevole all’assunto accusatorio dalle emergenze processuali sull’omicidio Gambino, l’eventuale coinvolgimento del Cusumano Claudio nel furto della BMW non appariva affatto incompatibile con il quadro probatorio delineatosi a carico del Ribisi Pietro e del fratello Gioacchino, anche in ordine a tale fare prodromica all’omicidio e in relazione al ricovero di quella autovettura nell’officina dello Schembri, atteso che erano emersi rapporti, peraltro non di semplice conoscenza, ma probabilmente operativi tra i fratelli Cusumano e ambienti della crimìnalita’ organizzata palmese con particolare riferimento al gruppo facente capo ai Ribisi e quindi a “Cosa Nostra”. Ancora, secondo la Corte, in base all’istruttoria dibattimentale, gli accertati rapporti tra il Cusumano e il Gambino, se adeguatamente correlati ai significativi elementi raccolti in ordine alle loro contiguita’ con personaggi inseriti in un contesto criminoso di sicura matrice mafiosa, non consentivano di escludere che in quel segmento finale della condotta esecutiva del furto dell’autovettura BMW potessero in qualche modo essere stati coinvolti soggetti diversi, non dotati di particolare e qualificato spessore criminoso come il Gambino, il quale potrebbe essere stato successivamente eliminato perchè ritenuto poco affidabile e quindi pericoloso per l’organizzazione mafiosa. Conclusione che la stessa Corte riconosce non suffragata da univoci e incontrovertibili elementi di riscontro senza che ciò potesse, tuttavia, per i Primi Giudici, produrre incompatibilita’ logico - probatoria con la tesi ricostruttiva accolta. Un ultimo commento, infine, la Corte spende sull’argomento difensivo circa un preteso contrasto tra due affermazioni del Benvenuto in due momenti diversi e precisamente tra l’affermazione dello stesso di avere ricevuto la confidenza del Nicola Brancato di essere stato autore del furto della BMW e il commento attribuito al capomafia Virone in cella, secondo cui Gambino era stato ucciso perchè accusato del furto della BMW. Questa apparente contraddizione, secondo la Corte, non era a tale, le due affermazioni non erano tra loro incompatibili avendo in entrambi i casi il Benvenuto riferito de relato, ma un caso da parte di un soggetto che esponeva una tesi non argomentata e nell’altro la confessione dell’autore del fatto materiale, osservando comunque nel merito che le due tesi si integravano tra loro. In ultima istanza per la Corte di primo grado, il complesso indiziario, per la certezza dei fatti e per la loro univoca significazione, avrebbe raggiunto la soglia della rilevanza della prova certa, essendo fallito il tentativo di screditare i collaboratori attraverso una pista alternativa lungo il percorso Gambino - Cusumano - Palmeri, essendo ragionevolmente insostenibile, sulla base degli elementi di giudizio, ipotesi investigative e moventi alternativi. Sulla base di queste considerazioni la Corte infliggeva inflitto a tutti gli imputati, per i reati ad essi iscritti, la pena dell’ergastolo con isolamento diurno per dodici mesi, pene accessorie, tra cui la pubblicazione della sentenza mediante affissione nei Comuni di Caltanissetta, Palma di Montechiaro e Palermo, pubblicazione sui maggiori quotidiani regionali, oltre alle misure di sicurezza. Tutti gli imputati venivano infine condannati al risarcimento dei danni e al pagamento delle spese processuali in favore delle costituite parti civili, che nel giudizio di primo grado risultavano essere i prossimi congiunti del magistrato, del figlio Stefano, moglie e i due figli superstiti e quindi i Comuni di Palermo, Palma di Montechiaro, Canicattì, la provincia di Palermo, la regione Sicilia, la presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Giustizia. Al Ministero della Giustizia Pantano Luigia Saetta, a Saetta Roberto e Gabriella veniva riconosciuto il diritto ad una provvisionale.

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Gli imputati, tra cui Riina Salvatore, proponevano appello a mezzo dei rispettivi difensori. Nelle fasi finali del giudizio avanti la Corte di Assise di Appello di Caltanissetta in diversa composizione, la posizione di Riina veniva separata per avere il Riina rinunciato entro il termine stabilito dalla legge al rito abbreviato speciale, richiesto all’udienza del 9 giugno 2000, contrariamente agli altri due imputati per i quali la revoca della richiesta di rito abbreviato e di decisione allo stato degli atti con l’utilizzabilità di quelli contenuti nel fascicolo del P.M. è stata tardiva ed ha reso necessaria la ripresa del procedimento, dopo la sospensione per incidente di costituzionalità (ordinanza 5 luglio 2000 in atti), secondo le regole dell’art.4 ter della legge 5 giugno 2000 n. 144, convertito nella legge 4/2001. (pag,28 e 29).

L’atto di appello e lo svolgimento del giudizio di secondo grado

Avverso la sentenza di primo grado, proponeva appello l’imputato Riina Salvatore il cui difensore -nei motivi tempestivamente depositati- lamentava che la Corte di Assise di Caltanissetta avrebbe dovuto assolvere Riina Salvatore da tutti i reati a lui ascritti per non averli commessi. Secondo la difesa, infatti, “i Giudici della Corte di Assise di Caltanissetta hanno affermato la penale responsabilità di Riina in ordine ai reati contestati fondando il loro giudizio su mere ipotesi e sulle fantasiose asseverazioni dei c.d. collaboratori di giustizia. Sembra a questa difesa che il ragionamento motivazionale seguito dai Giudici della Corte non sia giuridicamente corretto e sfugge all’onere della prova postulata dal nostro sistema processuale. Prima di entrare nel merito della critica alla impugnata sentenza, ricordiamo a noi stessi che Riina è stato condannato perché ritenuto mandante dell’omicidio del Presidente Saetta in concorso con Madonia Francesco. E’ bene ricordare che sulla causale del delitto e, quindi, sul mandato ad uccidere, i Giudici di Caltanissetta hanno ritenuto di ravvisarla nel fatto che il Presidente Saetta aveva mostrato di non essere “avvicinabile” per “l’aggiustamento” del processo Per l’omicidio del Capitano Basile che vedeva imputati per tale delitto Bonanno Armando, Puccio Vincenzo e Madonia Giuseppe, figlio di Madonia Francesco attuale imputato in questo processo. A parte al fatto che su tale causale non e stato provato niente, come potrà dimostrare la difesa di Madonia Francesco e che i Giudici della Corte di Assise supportano la motivazione soltanto su mere congetture e fantasiose allegazioni, vi è da dire che in questa ridda di congetture e in questo carosello di allegazioni, Riina Salvatore è completamente estraneo, e l’unico argomento cui fanno riferimento i Giudici è l’asserita affermazione che il Rima era “pa­drino” di Madonia Giuseppe, e, quindi, interessato alla soppressione del Magistrato. La valenza irrisoria dell’argomento non meriterebbe alcun critico commento. Intanto ci sembra opportuno e fondamentale porre dei paletti per evidenziare che tra Riina Salvatore e tutti i personaggi che ruotano attorno a questa vi­cenda processuale non solo non vi è prova di alcun collegamento, ma neanche un labile elemento indiziante che possa autorizzare o, comunque, far pensare ad un lontano interessamento del Riina al terribile fatto di sangue. L’impugnata sentenza si dilunga, nel racconto della travagliata processura che ha caratterizzato il pro cesso per l’omicidio del Capitano Basile, si fa ri­ferimento ai tentativi di aggiustamento del proces­so nelle sue varie fasi, ma mai viene fuori il nome di Riina Salvatore. Si è fatto, altresì, riferimento,ai vari annullamenti della più volte citata sentenza per l’omicidio del Capitano Basile, ma mai nel corso degli anni si fece cenno ad una concreta ed illegittima condotta del Riina al riguardo. Ma i Giudici di Caltanissetta dopo avere dato per certa la causale della condanna di Madonia Giuseppe, Puccio Vincenzo e Bonanno Armando, accennano nel proseguo della motivazione ad altra causale del de­litto e con un ipotetico ragionamento, mai confortato da prove, infatti riferiscono, seppur ufficiosamente il presidente Saetta era stato nominato a presiedere in sede di Appello il maxi—processo e tale fatto avrebbe preoccupato gli uomini d’onore di Cosa Nostra temendo che avendo il presidente Saetta condannato gli esecutori materiali del Capitano Ba­sile, non avrebbe avuto esitazione alcuna a condan­nare Riina e Madonia Francesco. Anche tale ragionamento è quanto meno pretestuoso e non giuridicamente corretto. Vogliamo ricordare a noi stessi che nei processi indiziari quale è certamente il nostro, bisogna dare il giusto rilievo alla causale, che deve essere certa e provata, tale da legare logicamente e concretamente tutti gli elementi indizianti. Nella sentenza impugnata non solo non vi è certezza causale, ma i Giudici della Corte di Assise di Cal­tanissetta ne prospettano ben due: 1) Punizione per la condanna di Puccio, Bonanno e Madonia Giuseppe; 2) Timore che lo stesso in una incerta ed ipotetica presidenza del maxi—uno in sede di appello avrebbe potuto condannare Riina Salvatore e Madonia Francesco. Come si vede, quindi, e l’una e l’altra delle prospettate causali non sono supportate da elementi di certezza, ma su mere ipotesi e su improbabili acca­dimenti, quale deve ritenersi la futura nomina del Dott. Saetta a presiedere il procedimento “maxi—uno”. Non ci sembra nè opportuno nè corretto fare i nomi di altri magistrati che circolavano allora per la detta presidenza. Lo stesso impianto accusatorio era stato proposto per l’omicidio del Sost. Proc. Generale presso la Suprema Corte di Cassazione Dr Scopelliti, si dis­se infatti allora che essendo stato designato l’in­signe Magistrato a sostenere la Pubblica Accusa e non essendo lo stesso ritenuto “avvicinabile” se ne decise la soppressione. Anche Riina Salvatore e Madonia Francesco erano stati accusati quali mandanti di tale terribile omici­dio, ma la suprema Corte di Cassazione ha assolto gli imputati compreso Riina e Madonia per non aver commesso il fatto. Tale sentenza è divenuta ormai irrevocabile. Dicevamo che l’impugnata sentenza fonda il proprio giudizio di responsabilità sulle asseverazioni dei c.d. pentiti, questa nostra affermazione, peraltro, è condivisa dagli stessi Giudici della Corte di As­sise se è vero, come è vero, che pongono a base la impugnata sentenza “nucleo centrale di questo mate­riale probatorio” che è costituito dalle dichiara­zioni dei collaboratori — Per cui le predette dichiarazioni sono considerati validi elementi di prova. Tali affermazioni non possono essere condivise perchè contrari non solo ai fondamentali principi che regolano il regime della prova, ma anche alla più recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione - Tuttavia i Giudici di primo grado non hanno esitato a far specifico riferimento alle dichiarazioni di Ciulla Salvatore, Ganci Calogero, Cancemi Salvatore, Marino Mannoia Francesco, Di Carlo Francesco, Di Matteo Mario Santo, Mutolo Gaspare, riportando in sentenza quanto da costoro riferito e traendone conclusioni non conciliabili con i contenuti delle di­chiarazioni. Questa difesa ha scrupolosamente analizzato le pre dette dichiarazioni e senza alcuna iattanza possia­mo affermare che tutte, nessuna esclusa sono estre­mamente generiche, nessuna riferisce fatti diretta­mente riconducibili. a responsabilità di Riina Salvatore sia pure a titolo di concorso morale. Le dichiarazioni di costoro anche le più acrimoniose, quali quelle di Cancemi Salvatore (per l’80% parla de relato), di Ganci Calogero che, dopo esser si dilungato in racconti non inerenti i fatti per cui è processo, conclude dicendo di non sapere nul­la dell’omicidio del presidente Saetta. Ma anche Ciulla Salvatore non porta alcun contribu­to al castello accusarono se è vero, come è vero, che riferisce di avere avuto molti lutti, l’ uccisione del fratello Antonino, del cognato Carollo Gaeta no, del nipote Carollo Pietro, dell’amico Bonanno Armando, delitti che secondo la sua logica erano riconducibili a Riina e, soprattutto, a Francesco Ma­donia e, quindi, non conciliabile con il suo dedut­tivo assunto accusatorio. Tutti gli altri, grossomodo, riferiscono le stesse cose e molti fanno cenno alla fantasiosa raccolta di denaro che, avrebbe dovuto servire per l’aggiu­stamento dei processi, ma nessuno ha indicato un so lo elemento di riscontro. Cento bugie non fanno una verità, restano cento bu­gie! Che dire, poi, della dichiarazione di Cancemi Salvatore che oltre alle sue mai credute elucubrazioni cerca, sempre e in ogni caso di infangare onoratissimi nomi di Magistrati celando maldestramente l’a­tavico odio che Lui ha sempre nutrito contro i Giu­dici del nostro Paese. Il compendio probatorio utilizzato dai primi Giudici per quanto attiene alla posizione processuale è,dunque, costituito da dati e elementi estremamente in­certi, difficilmente riconducibili a strutture logiche conformi al regine della trova penale e tale realtà rende palesemente inaccettabile la motivazione dell’impugnata sentenza. Sostanzialmente gli elementi di prova indicati nella motivazione si riducono alle dichiarazioni accusatorie dei c.d. collaboratori di giustizia, raccolti nel corso dell’istruttoria dibattimentale e, quindi, il loro contenuto e stato ritenuto dai primi Giudi­ci sufficiente per superare la soglia di positiva verifica utile per rilevare la presenza di elementi probatori riconducibili allo schema logico dell’elaborato principio giurisprudenziale della “convergenza del molteplice”. Così non è non può essere, perchè i primi Giudici sono venuti meno al fondamentale dovere di esamina re e valutare le singole dichiarazioni al solo fine di ritrovare quei riscontri che il processo penale postula nella metodologia della ricerca delle prove e cioè le singole autonomie, originalità, specificità e connotazioni indispensabili per una corretta giuridica valutazione. Per tutti valga quanto i Giudici hanno detto in esito alla credibilità di Ganci Calogero e cioè essi Giudici a pag.8l della sentenza testualmente affer­mano: “Un significativo contributo probatorio è sta to fornito nel presente dibattimento anche dal collaboratore di giustizia Ganci Calogero” Quale? Nessuno! Nessuno se è vero, come è vero che a pag.89 è detto “Nulla è stato in grado di riferire sull’omicidio del Giudice Saetta” Ma quel che più sbigottisce questa difesa è l’affermazione dei primi Giudici contenuta a pag.82 della sentenza ove è detto: “ha infatti dimostrato la sua massima disponibilità, riferendo quanto a sua cono­scenza senza chiedere alcuna contropartita in cambio delle sue rivelazioni, che hanno coinvolto anche le persone a lui più care e vicine fra le quali il padre e i fratelli Stefano e Domenico. I Giudici hanno dimenticato che Ganci Calogero come contropartita di una lunga serie di condanne all’ergastolo per tutte le stragi da lui confessate che, certamente, avrebbe riportato, ha avuto la liberta. Identico discorso vale per tutti gli altri pentiti. I primi Giudici con siffatto ragionamento non giuridicamente corretto hanno dimenticato una delle più fondamentali connotazioni della chiamata in reità e cioè il disinteresse alla stessa. Nel caso che ci occupa, tutto può dirsi, ma non l’assenza del disinteresse è ciò ha una rilevanza di notevole dimensione. In buona sostanza non e ammissibile nè concepibile,perché contrario ai più elementari principi giuridici, dire che “ i pentiti” hanno detto, quindi possiamo affermare la penale responsabilità” Osserva la Corte che l’impugnazione dev’essere dichiarata inammissibile. Ed invero, l’atto di impugnazione nell’interesse dell’odierno imputato si avvale di una premessa di carattere generale sulla inattendibilità a priori dei collaboranti che non dimostra, a differenza di quanto affermato dalla Corte di Assise di Caltanissetta, la sola inattendibilità intrinseca dei collaboratori di giustizia, dovendosi quest’ultima ricavare- semmai- da altri elementi del tutto interni alle dichiarazioni e con un percorso logico-giuridico espressamente previsto dall’art.192 c.p.p. Vale evidenziare che l’art.581 c.p.p. stabilisce che l’impugnazione si propone con atto scritto nel quale, tra l’altro, sono enunciati:

1) i capi ed i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione; 2) le richieste; 3) i motivi con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

Ne deriva, quindi, che un atto privo dei requisiti prescritti, che si limiti ad esprimere la volontà di impugnare senza indicare i capi o i punti cui intende riferirsi o senza enunciare i motivi di doglianza rispetto alla decisione censurata ( ed anche in ciò consiste la specificità), non può costituire una valida forma di impugnazione e, quindi, non può produrre gli effetti introduttivi del giudizio di grado successivo, cui si collega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione di inammissibilità. In particolare, per quanto attiene all’appello, è da considerare che, ai fini della sua validità, non è sufficiente che l’atto di gravame consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate ed i limiti dell’impugnazione ma è altresì necessario – pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza- che le ragioni su cui si fonda il gravame siano esplicitate con sufficiente grado di specificità, da correlare peraltro con la motivazione della sentenza impugnata. E’ evidente,quindi, che a fronte di una articolata e complessa motivazione emessa dai Giudici di primo grado, se da un lato il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale ed assoluta, dall’altro esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime. Tanto è richiesto a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d’ufficio e non sanata per effetto dell’ eventuale attività processuale della parte nei cui confronti viene esperita l’impugnazione. Per quanto sopra premesso, appare chiaro come nell’appello della difesa di Riina Salvatore manchi la specificità del motivo di doglianza che il legislatore ha previsto nel rito penale con particolare riferimento ad ogni ipotesi di impugnazione. L’appello proposto dalla difesa dell’imputato si limita ad asserire che sussistono nel processo elementi tali da permettere l’affermazione innocenza dello stesso, secondo i canoni di cui all’art.192 c.p.p., ma non spiega nel dettaglio le ragioni di fatto e di diritto che giustificano tali asserzioni a fronte del complesso sillogismo motivazionale della sentenza di primo grado. Appare chiaro che nel motivo di appello riportato manchi quella specificità del motivo di doglianza che il legislatore ha posto a fondamento in ogni ipotesi di impugnazione. Il limitarsi ad asserire che “che cento bugie non costituiscono una verità ” oppure che “ i Giudici di primo grado hanno affermato la penale responsabilità di Riina Salvatore ..fondando il loro giudizio su mere ipotesi e sulle fantasiose asseverazioni dei c.d. collaboratori di giustizia” non spiega, nel dettaglio, le ragioni di fatto e di diritto giustificanti l’asserzione. Generico è, infatti, il richiamo agli “ elementi” che non sarebbero stati vagliati adeguatamente dalla Corte di Assise e, d’altro canto, non viene spesa alcuna parola per confutare le affermazioni dei primi giudici laddove questi hanno ritenuto, per l’imputato Riina, precise e riscontrate le propalazioni dei collaboratori. Non si prende in specifico esame critico i singoli passaggi motivazionali esposti al riguardo in sentenza per confutarne la valenza giuridica sotto il profilo di una loro eventuale incompletezza o dei vizi logici in essi riscontrabili.

In definitiva, nell’appello in esame, alla parte volitiva non si accompagna una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo Giudice. Il tutto si riduce ad un’attestazione di non condivisione di tali ragioni ma, come si può notare, non è di certo sufficiente la globale enunciazione di principi di diritto asseritamente violati a fondare un atto di impugnazione ammissibile, tenuto conto che i motivi in esso contenuti sono teoricamente adattabili a qualunque impugnazione.

Di fronte ad un atto di appello di tal fatta non si vede che sindacato sarebbe concesso a questa Corte non essendo stata specificata la natura della doglianza, a parte una generica non condivisione dell’istituto della chiamata in correità o della prova indiziaria.

E’ principio di diritto, poi, che l’inammissibilità dell’impugnazione non è soggetta a sanatoria neanche mediante la proposizione di motivi aggiunti e dev’essere rilevata dichiarata d’ufficio dal Giudice di Appello in ogni stato e grado del giudizio.

Va ordinata, quindi, l’esecuzione dell’impugnata sentenza che merita integrale conferma nelle sue statuizioni principali ed accessorie nei confronti di Riina Salvatore.

L’appellante va condannato alla rifusione delle spese e competenzerelative al presente grado di giudizio nonché alla rifusione di quelle a favore delle costituite parti civili che liquida in complessivi € 3.100,00 di cui € 2.800,00 per onorari di difesa, oltre IVA e CPA, per le parti civili Pantano Luigia Maria, Saetta Gabriella e Saetta Roberto; in complessivi € 2.582,28 di cui € 2.300,00 per onorari di difesa, oltre IVA e CPA per la parte civile Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Giustizia e Regione Siciliana; nella complessiva somma di € 1.549,37 di cui € 1.400,00 per onorari di difesa, oltre IVA e CPA, per la parte civile Provincia di Palermo; in complessivi € 1549,37 di cui € 1.400,00 per onorari di difesa, per la parte civile Comune di Palermo, oltre IVA e CPA; in complessivi € 2.200,00 di cui € 2000,00 per onorari di difesa, oltre IVA e CPA per la parte civile Comune di Canicattì.

Ai sensi dell’art.544 comma 3° c.p.p.,in considerazione della gravità dell’imputazione, si indica in giorni novanta il termine del deposito della motivazione della presente sentenza. Ai sensi dell’art.304 comma 1 lett.c) va ordinata la sospensione dei termini di custodia cautelare per l’imputato Riina detenuto durante la pendenza di detto termine.

PQM

Visti gli artt.581, 591 lett.c), 598 e 541 c.p.p., dichiara inammissibile per genericità dei motivi l’appello proposto in data 11/10/1999 da Riina Salvatore avverso la sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta in data 5 agosto 1998, depositata in data 31 luglio 1999 e per l’effetto

ORDINA

L’esecuzione dell’impugnata sentenza. Visto l’art.592 c.p.p., Condanna Riina Salvatore al pagamento delle spese di questo grado di giudizio. Visto l’art.541 c.p.p.

Condanna altresì l’imputato a rifondere alle parti civili costituite le spese da esse sostenute nel presente grado di giudizio che liquida: 1) per Pantano Luigia Maria, Saetta Gabriella e Saetta Roberto nella complessiva somma di € 3.100,00 di cui € 2.800,00 per onorari di difesa, oltre IVA e CPA; 2) per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Giustizia e la Regione Siciliana nella complessiva somma di € 2.582,28 di cui € 2.300,00 per onorari di difesa, oltre IVA e CPA; 3) per la Provincia di Palermo nella complessiva somma di € 1.549,37 di cui € 1.400,00 per onorari di difesa, oltre IVA e CPA; 4) per il Comune di Palermo nella complessiva somma di € 1549,37 di cui € 1.400,00 per onorari di difesa oltre IVA e CPA; 5) per il Comune di Canicattì, nella complessiva somma € 2.200,00 di cui € 2000,00 per onorari di difesa, oltre IVA e CPA. Visto l’art.544 comma 3° c.p.p., indica in giorni 90 ( novanta) il termine per il deposito della motivazione della sentenza. Visto l’art.304 comma 1° lett.c) c.p.p., Ordina la sospensione dei termini di custodia cautelare nei confronti del detenuto Riina Salvatore durante la pendenza del termine di cui all’art.544 comma 3° c.p.p.

Così deciso in Caltanissetta in data 8 gennaio 2003.

Il Giudice estensore

Il Presidente


solfano@virgilio.it


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