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Vicende storiche dell’assetto urbano di Canicattì

Rappresentare le vicende storiche dell’assetto urbano di una città, in questo caso la nostra, ricercare come siamo nati, come siamo cresciuti, come e perché ci siamo trasformati sino ad essere quelli che oggi siamo, equivale a fare la storia di una collettività tramite la sua vicenda urbanistica.

Si cercherà di farlo individuando i momenti fondamentali di un processo di trasformazione iniziato almeno sei secoli fa e che ha portato alla città dei nostri giorni.

Non è opportuno in questa sede avventurarsi in analisi di carattere demografico: queste sono state ampiamente condotte dagli studiosi della nostra storia civica con tutte le riserve e le incertezze derivanti dall’inadeguatezza delle fonti disponibili.

Ciò che appare altamente probabile è che si è passati dai 1.000 – 1.500 residenti dell’antico borgo del ’400 ai 4000 del ‘600 di cui parla l’Abate Pirri in "Sicilia Sacra", ai 12.000 degli inizi del ‘700, ai 17.000 della fine del regime borbonico che diventeranno 25.000 alla fine dell’800 per arrivare in fine ai 34.000 attuali.

A queste variazioni demografiche, richiamate solo a titolo orientativo, corrispondono evidentemente variazioni dell’assetto urbano delle quali purtroppo manca la testimonianza, almeno sino a metà dell’800, di una valida documentazione cartografica: per altro Canicattì non ottemperò neppure alla disposizione borbonica del 1829 di fornire una rappresentazione cartografica del territorio civico, per cui è venuta meno quella che sarebbe stata una preziosa fonte probatoria sull’assetto urbano agli inizi del XIX secolo.

Si dovrà pertanto operare una ricostruzione indiretta di questo processo di trasformazione urbana sulla scorta di documenti d’epoca o di testimonianze pervenutici da storici o scrittori vissuti nei secoli scorsi.


Fatte queste premesse, possiamo affermare che il processo di trasformazione urbana della nostra città è stato costruito sui seguenti momenti fondamentali:


La "Licentia populandi" concessa al Barone De Crescenzio nel 1467.

L’insediamento dei conventi dei Mendicanti nel periodo che va dalla seconda parte del ‘500 ai primi del ‘600 e la signoria di Giacomo Bonanno Colonna.

L’emergere nel ‘700 di nuovi ceti come neofeudatari, gabelloti, grandi affittuari.

La fine dei vincoli feudali ed il tramonto dell’era borbonica.

Le trasformazioni seguite all’avvento unitario del 1860.

Il novecento è storia dei nostri giorni e questa la conosciamo direttamente.



LA"LICENTIA POPULANDI" DEL 1467

La "Licentia populandi" del 1467 evoca l’esistenza, più che di una comunità cittadina, di una comunità rurale che dimora in un "feudo" per concessione del suo Signore: si tratta, come sanno coloro che hanno fatto studi di storia o diritto feudale, di facoltà concessa al Signore del luogo nel quadro del suo "Beneficium", istituto del neofeudalesimo ancora imperante nella Sicilia degli Aragonesi.

Canicattì è semplicemente una comunità agricola alla quale si permette l’insediamento in una certa zona del feudo nell’interesse del suo Signore.

L’insediamento nasce e si sviluppa quindi per il concorso di due elementi: l’esigenza di aggregazione o di stare assieme dei residenti nella "Terra" feudale e l’interesse del Signore.

Vero è che in qualche carta notarile dell’epoca compare il termine "Universitas", che potrebbe far pensare anche ad una organizzazione di tipo cittadino, così come oggi noi la concepiamo: non è così perché, esaminando il contesto in cui il termine è contenuto, si può rilevare che "l’Universitas" del documento è ancora intesa nell’accezione del termine, cioè come "totalità" dei residenti, un significato quasi algebrico.

"L’Universitas" del ‘400 canicattinese non ha ancora quel significato che troveremo nel ‘600, ad esempio nel testamento di Giacomo Bonanno, laddove il termine esprime un’entità giuridico–organizzativa, distinta dai residenti, alla quale vengono attribuiti determinati compiti o assegnate specifiche funzioni.

La Canicattì della seconda parte del ‘400, cospicua comunità rurale composta forse, come si è detto, da 1.000 – 1.500 residenti, è insediata nella zona alta del territorio, Borgalino, disposta a torno ad una direttrice che, grosso modo, va dall’attuale Piazza Roma a San Biagio.

Di fronte, dall’altra parte del vallone, sta il Castello con le sue dipendenze, concepito solo come residenza fortificata del Signore.


L’INSERIMENTO DEI MENDICANTI E LA SIGNORIA DI GIACOMO BONANNO

La situazione rimase sostanzialmente questa allorchè si verificò l’importante evento dell’insediamento degli Ordini dei Mendicanti, a cui seguì quello delle Benedettine.

I Mendicanti a Canicattì furono i francescani conventuali, i frati minori, i domenicani ed i carmelitani. Essi insediarono i loro conventi in aree scelte un po’ distanti dall’antico nucleo quattrocentesco: basta considerare a tal riguardo, ad esempio, la distanza che separa San Domenico o San Francesco dall’attuale Piazza Roma.

L’insediamento, databile fra il ‘500 ed i primi del ‘600, determinò di fatto la formazione di poli attorno ai quali si formarono spontaneamente nuovi insediamenti abitativi.

Particolare di paesaggio pittorico raffigurante il Convento e l'orto dei Carmelitani In un’epoca di grave insicurezza i conventi rappresentarono una sorta di protezione anche civile: essi, oltretutto, costituivano fonti di committenza di lavoro specie nell’artigianato dell’edilizia, in quello degli apparati, addobbi, decorazioni, nell’organizzazione e nella pratica del magazzinaggio.

All’importante evento dell’insediamento dei Mendicanti si deve aggiungere l’opera di un Signore illuminato e colto, Giacomo Bonanno Colonna che, mettendo a frutto le esperienze acquisite nei suoi viaggi e frequentazioni, comincia a concepire un’organizzazione civile per la comunità di cui è Signore. Di Giacomo Bonanno si ricordano soprattutto le fontane monumentali dislocate in nodi scelti con felice intuito, l’istituzione dell’ospedale Monte di Pietà, il potenziamento dell’ "Universitas", l’impulso dato per la costruzione della nuova Chiesa Madre.

Sotto il profilo dello sviluppo dell’assetto urbano, rilevanti e decisivi risultarono soprattutto gli interventi nella zona bassa ed in particolare le fontane monumentali del Nettuno, nell’attuale Piazza IV Novembre e quella dell’Acquanova con il largo viale che le univa e di cui parla Vito Amico nel suo "Lexicon" del 1757.

La fontana del Nettuno, in particolare, trasforma uno slargo naturale, creato dall’ansa del vallone, nella piazza maggiore della città, mentre il viale sposta di fatto verso la zona bassa la direttrice principale del futuro sviluppo urbano.

Conclude questo periodo denso di eventi il disegno della costruzione della nuova Chiesa Madre; essa viene concepita non più come una comune chiesa ma come una struttura edilizia, che deve esprimere anche un primato monumentale nella gerarchia dei valori urbani.

La città del ‘600 è già stata disegnata nei nuovi elementi fondamentali: il Castello che non è più il fortilizio del ‘400, ma il luogo simbolo del potere civile; la Chiesa Madre simbolo del potere religioso; tutt’attorno la rete dei conventi e monasteri riferimento, non solo religioso, di nuove aggregazioni civili; una direttrice indicata per lo sviluppo.


IL 700 ED I NUOVI CETI EMERGENTI

Toccò al successivo 18° secolo registrare le trasformazioni dell’assetto urbano delle quali nel ‘600 si erano poste le premesse.

Si inserisce, a questo punto, un fatto nuovo che ebbe grande rilevanza nel processo di sviluppo della nostra comunità: l’emergere, cioè di nuovi ceti e categorie sociali più intraprendenti, quelli dei neofeudatari, dei gabelloti, dei grandi affittuari.

Costoro acquistano un ruolo egemone nel territorio: non trovano ostacoli perché il Signore del luogo, con cui spesso vengono in contrasto, è ormai obbligato esplicitamente o implicitamente a risiedere nella capitale dell’isola. Essi completano il processo iniziato nel ‘600 con l’insediamento dei Mendicanti.

Costruiscono le loro residenze ad immagine dell’acquisita posizione economica e fra essi spiccano i nuovi baroni, moralmente impegnati ad onorare la fresca investitura nobiliare con edifici di decoro e dignità adeguati: è la Canicattì del ‘700 che troviamo nel "Lexicon" di Vito Amico e che continuerà, sia pure lentamente, a svilupparsi sino all’evento dell’abolizione dei vincoli feudali.


LA FINE DEI VINCOLI FEUDALI E IL TRAMONTO DEL REGIME BORBONICO

Con l’abolizione dei vincoli feudali, attuata con alcune disposizioni legislative nel primo ventennio dell’800, vengono meno gli ultimi ostacoli formali allo sviluppo rappresentati dall’intangibilità giuridica del "feudo".

A Canicattì, il barone Chiaramonte Bordonaro, enfiteuta di quel che restava della "Terra" dei Bonanno, ne acquisisce la libera disponibilità giuridica e procede ad una serie di operazioni di vendita di lotti di terreno, più o meno estesi, creando in tal modo i presupposti per la nascita di nuovi quartieri.

Fra queste operazioni, rilevanti si sarebbero manifestate quelle attuate nella zona bassa dell’abitato che daranno ulteriore spinta allo sviluppo urbano in quella direttrice.

Un’antica carta topografica del 1837 ci presenta un territorio urbano già occupato da costruzioni nell’aria compresa tra le attuali via Foscolo e via Margherita, in quella compresa fra le vie Vittorio Emanuele -Pilo - Capitano Ippolito – Battisti.

L’abitato si presenta ancora attraversato dal vallone e quattro ponti permettono le comunicazioni fra le due parti della città.

Questa è la Canicattì che aspetta il grande evento unitario del 1860.


L’AVVENTO UNITARIO DEL 1860

Il periodo che va dal 1860 alla fine dell ‘800 è certamente uno dei più intensi vissuti della nostra collettività sull’onda dell’entusiasmo suscitato dall’impresa dei Mille e dalle speranze dell’avvento unitario.

Di quel periodo debbono essere segnalati alcuni fatti o decisioni di rilievo che hanno inciso in maniera determinata sull’assetto urbano della città.

Il primo è stato certamente la copertura del vallone dentro l’abitato fra l’attuale imbocco di via Nazionale e la Piazza IV Novembre che eliminò la discontinuità fra le parti Est ed Ovest della città.

Con i lavori, che comportarono un impiego finanziario notevole e che si protrassero per diversi decenni, si bonificò una fascia territoriale su cui poi si sarebbero realizzati importanti insediamenti edilizi: basti pensare all’ex "Casa del Fascio", al Teatro Sociale, Casa Ruoppolo, etc…

Con la copertura del vallone, quello che era stato "il fossato che fa le veci di strada" (Viollet Le Duc – "Lettre sur la Sicile") divenne un’arteria stradale che per lungo tempo sarebbe stata la "passeggiata" cittadina. Il secondo fatto è costituito da due importanti decisioni e cioè la scelta dell’area per il Cimitero e di quella della stazione ferroviaria.

Con queste decisioni si crearono due barriere urbanistiche di fatto che accentuarono ulteriormente l’espansione urbana verso sud: la città, bloccata a Nord del Cimitero e ad Est della Ferrovia, non poteva che espandersi in direzione Sud, ciò che sarebbe poi avvenuto.

Il terzo elemento è stato quello dell’esproprio dei Beni Ecclesiastici del 1866: un avvenimento che viene citato come occasione in parte mancata.

I comuni siciliani e così anche Canicattì pensarono di approfittare dell’occasione offerta per superare, senza grandi spese, lo stato di arretratezza ereditato dal regime borbonico nel campo delle scuole, delle sedi municipali, dei locali per la Giustizia, degli Ospedali, degli istituti di beneficenza pubblica, delle carceri.

Spinti forse dalla voglia di far presto non seppero, però, concepire un disegno razionale sull’utilizzo di questi complessi monumentali e di essi ne fecero un uso spesso indiscriminato che produsse gravi decadimenti strutturali ed in taluni casi la rovina.

A Canicattì il Monastero dei Francescani divenne ospedale e ricovero di mendicità; il convento dei Domenicani con raffazzonati rimedi che deturparono anche parti significative dell’originario prospetto seicentesco, divenne scuola e per qualche tempo anche caserma militare; sul

Monastero delle Benedettine non venne fatto mai alcuno studio di utilizzabilità e per esso si improvvisarono destinazioni precarie, come locali postali, biblioteca, sede del partito fascista, scuola materna, con la conseguenza che l’uso non appropriato ha determinato l’attuale stato del complesso; il convento dei Carmelitani, l’ampio e spazioso convento citato nel "Lexicon" di Vito Amico, proprio per il "non uso" andò presto in rovina sino addirittura a scomparire come se non fosse mai esistito.

Appare strano che nessuna delle amministrazioni dell’epoca abbia pensato di utilizzare qualcuno di questi complessi monumentali per farne sede del Municipio, così come fecero diversi Comuni vincitori (Racalmuto, Naro, Grotte, Palma di Montechiaro, Mazzarino, etc.).

Le pertinenze di questi Conventi, infine, costituite spesso da aree di pregio vennero vendute e nessuno pensò alla possibilità di creare spazi di uso pubblico.

Si tratta naturalmente di considerazioni fatte col senno del "dopo", ma ciò non deve impedire di metterle in risalto.


IL NOVECENTO

Si è arrivati al ‘900, il secolo di qualche giorno fa. Le sue vicende urbanistiche le abbiamo vissute assieme con il suo carico di luci e di ombre, di grandi intenzioni e di preoccupanti cali di quella tensione morale ed intellettuale che deve sempre guidare i processi di sviluppo. E’ una storia troppo recente per poterne fare la scrittura ed anche perché di questa storia un po’ tutti ne siamo stati protagonisti.

Nel 2000 che stiamo vivendo saremo impegnati nello sforzo di una "città" capace di ordinare e promuovere le energie e le potenzialità dei suoi residenti.

Potremo riuscire se avremo la consapevolezza di questo ruolo.

di Giuseppe Iannicelli







solfano@virgilio.it

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