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Agostino La Lomia
Un Gattopardo nella terra del Parnaso
di Gaetano Augello


Presentazione di Gaetano Savatteri


C’è un’immagine, all’inizio - o alla fine, se si vuole - di tutto. Quasi una foto, forse in bianco e nero, un po’ sfocata dal tempo o dalla nostalgia. Una cinquantina di persone parate a lutto in una chiesa secentesca. E’ un giorno di gennaio. Fa molto freddo e questo si intuisce dallo spessore dei pastrani e dalle scialline sulle spalle delle donne. Al centro della navata, fra i banchi, una bara massiccia. Sull’altare, con un incensiere in mano, c’è padre Pietro Li Calzi, che officia la messa funebre.
Dalla foto, sia pure sgranata dal tempo o dalla nostalgia, si intuiscono molte cose. Si capisce, ad esempio, che questo non è solo il funerale di un uomo, sia pure famoso, sia pure noto, sia pure eccentrico. No, questo funerale chiude e seppellisce un’epoca. L’orologio segna le tre del pomeriggio del 21 gennaio 1978, ma in realtà la vita dell’uomo chiuso dentro quel tabuto si è svolta soltanto accidentalmente nel suo tempo e nel suo secolo: un errore, una sbavatura del calendario, un corto circuito cronologico.
Così la storia di Agostino La Lomia, con tutti i suoi eccessi e chiaroscuri, con tutte le sue sregolatezze e cialtronerie, diventa inevitabilmente una vicenda di novecentesca drammaticità: forse più Svevo che Pirandello, forse più Kafka che D’Annunzio. La parabola del barone La Lomia disegna l’amara risata dell’uomo che scoprendo attorno a sé un mondo estraneo e sconosciuto tenta disperatamente di inventarsene un altro, parallelo e privato. Dietro le mille buffonerie, il barone di Canicattì - filosofo o guitto, poco importa - nasconde il sogno di poter diventare protagonista di un altro tempo e un altro luogo, distinti e incomparabili con quelli reali, a rischio di incarnare la sempiterna figura dell’aristocratico eccentrico. Un progetto realizzato consapevolmente e, per dirla alla Ennio Flaiano, “con supremo sprezzo del ridicolo”.
Nel suo testo “Agostino La Lomia - Un Gattopardo nella terra del Parnaso”, Gaetano Augello ricostruisce la genesi di un sogno di magnificenza che portava con sé i germi dell’autodistruzione (distruzione della propria reputazione, della propria stessa vita). Lo fa risalendo per i rami genealogici del barone La Lomia, ripercorrendone l’infanzia e i luoghi. Riusciamo a vedere, con gli occhi del bambino Agostino, i corridoi e le sale e i quadri e i cimeli di residenze e palazzi, al punto da poter comprendere come l’immaginazione di un ragazzo sia rimasta suggestionata da quei racconti e da quelle memorie del passato di famiglia. Un passato che Agostino La Lomia decise di mantenere artificiosamente in vita, anche quando la finzione lo faceva assomigliare sempre più alla maschera tragica dell’Enrico IV di Pirandello.
Se fosse solo questo, si potrebbe parlare di una biografia del barone, con le sue opere e i suoi giorni. Ma il lavoro di Augello rivela presto una trama fitta. Dal palazzo del barone si scende in strada, si attraversano piazze e cortili. E da una porta spunta un fabbro, dall’altra un falegname, dall’altra ancora un becchino. Ciascuno con il suo nome e il suo cognome, a volte con il soprannome che lo rende celebre o immortale. Altre foto si allineano nell’album ricomposto da Augello. Dentro una macchia di sole passa un prete, colto nel suo gesto abituale. Un insegnante è fermo all’angolo, sotto casa, appoggiato al portone. Una povera donna con lo scialle sulla testa èquasi sorpresa dal flash al magnesio. Le figure di ieri appaiono in bianco e nero, forse una canna di bambù alla mano, paglietta chiara in testa, abito scuro e colletto rigido.
La filigrana della vita del barone La Lomia finisce per svelare il brulichio di un quartiere, di un rione, di un’intera città. C’è una grande forza visiva in queste storie - o “microstorie”, come a volte vengono definite - a comporre l’affresco di ombre morte che tornano vive. C’è un grande recupero di fatti ed episodi, frutti di un attento studio su documenti e reperti, ma arricchiti dall’inchiostro della memoria personale e collettiva.
Piace immaginare Gaetano Augello come certi fotografi che giravano per paesi e città della Sicilia all’inizio del secolo scorso. Armato di treppiedi, colloca la sua scatola magica davanti a ogni passante di Canicattì: attenzione, pronti, fermi. Click. Poi, dai filtri e dalle alchimie della camera oscura - che è la camera della scrittura - emergono lastre, negativi, dagherrotipi e fotografie. Ciascun personaggio racconta la sua storia. Qui e là si intravede sullo sfondo un cornicione, un fregio liberty, un chiosco o un edificio che non c’è più. Riappare l’architettura fragile di un tempo remoto. Le immagini restituiscono le parole, i ritmi e il sapore di una città smarrita e perduta per sempre. Ma a saperle scrivere - e leggere - finiscono per entrare nel nostro album. L’album della memoria.



Prefazione di Salvatore Vaiana


«Alle tre del pomeriggio … una mesta cerimonia di addio … vinni lu tempu di lu me arrizzettu, / lassu stu beddru munnu e lassu tuttu»; «”Nunc et in hora mortis nostrae. Amen” … Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida»: non ci sembra una fortuita coincidenza che negli incipit e negli explicit delle opere di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di Gaetano Augello sui Gattopardi siciliani domini Thanatos.
Thanatos si presentò ai La Lomia, come a tutta la compromessa nobiltà borbonica, sotto le sembianze delle camicie rosse garibaldine che mettendo fine al Regno delle Due Sicilie contribuirono alla nascita del Regno d’Italia. Ma i La Lomia riuscirono a rinviare di alcuni decenni la loro fine condividendo quell’ideologia pseudo-progressista che nei grandi romanzi “I Vicerè” di De Roberto e “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa è rispettivamente dei Consalvo («La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi … Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento») e dei Tancredi («Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»).
Dai Borboni la famiglia La Lomia aveva ottenuto diversi titoli nobiliari. Essa era stata innalzata al rango nobiliare nel Settecento, dopo il trasferimento da Cammarata a Canicattì. Qui divennero prima baroni di Renda e poi, nel 1790, baroni di Carbuscia e Torrazze, «in infinito et in perpetuo»! Nel Regno borbonico avevano inoltre ricoperto alte cariche statali, anche se alcuni di loro si erano pronunciati contro di esso: nella rivoluzione del 1848, da una parte il Gattopardo ante litteram Salvatore La Lomia fu eletto al Parlamento siciliano («Il mio bisnonno era deputato al Parlamento» ricorda il nostro barone), dall’altra il «direttore di Grazia e Giustizia del Regno» Gioacchino La Lumia salvò dalla condanna a morte in contumacia il nipote Vincenzo Macaluso, giovane protagonista di questa rivoluzione. Alla vigilia della rivoluzione del ‘60, in qualità di «Ministro della Real Casa» sottrasse ancora una volta il nipote antiborbonico alla morte. Fu ancora l’autorevole intervento del Ministro presso il padre Provinciale dei Cappuccini che permise al giovanissimo cappuccino padre Gioacchino Fedele La Lomia di potersi recare, come era sua aspirazione, al convento di Agrigento, sede del suo noviziato. Il fratello Ferdinando fu alto magistrato e «consigliere della gran corte dei conti».
Dopo l’impresa dei Mille, con una di quelle «conversioni repentine» di cui parla Consalvo, i La Lomia passarono in massa dalla parte dei vincitori: «notevole l’irruzione dei Lomia e Lalomia», ha evidenziato lo storico don Fausto Curto, nel Comitato Civico del 1860, fra i quali il «Bar.llo Agostino Lumia».
Con i Savoia i La Lomia gestirono il potere politico-amministrativo: diversi i sindaci di Canicattì, qualcuno particolarmente discusso. Già nel 1868 rivestiva l’alta carica amministrativa Emanuele La Lomia, che ritornò ad amministrare nel 1881 lasciando segni di pessima amministrazione. Dopo l’Unità, per il popolo di Canicattì essi rimasero i ricchi baroni di sempre, con i magazzini strapieni di grano sudato dai contadini e negato alla povera gente (la rivolta del pane del ’98 si indirizzò anche contro il nonno del barone, sindaco della città). Ancora nel 1903 troviamo al vertice dell’amministrazione Antonio La Lomia, il primo sindaco dell’età giolittiana. Nello scontro politico e amministrativo del primo dopoguerra i La Lomia furono con i Gangitano e i Guarino Amella fermi oppositori del movimento contadino, del sindacato e dei socialisti. Quando i socialisti riuscirono nel 1920 a conquistare il Comune e, guidati dall’avv. Rosario Livatino, amministrarono per due anni la città, i La Lomia erano all’opposizione.
Durante il regime fascista i La Lomia, legati al fascistissimo Luigi Gangitano, si trovarono a loro agio. In questo periodo fece la sua comparsa nel mondo del lavoro il nostro barone, con una iniziativa che non ne mise certo in evidenza doti imprenditoriali.
Crollato il fascismo, cominciarono per il barone i guai. A crearglieli furono migliaia di contadini, tanti dei quali avevano sudato nei feudi delle immense distese dei suoi avi: fin dal 1944 organizzati nella Federterra e associati in cooperative, li viddani occupavano le terre dei La Lomia, dei Gangitano, dei Caramazza per costringerli a rispettare l’applicazione dei decreti Gullo.
Come se non bastasse, dal 1° gennaio 1948 la nuova Costituzione italiana fondata sul lavoro e sulla sovranità popolare, nella XIV disposizione transitoria e finale dichiarava che «i titoli nobiliari non sono riconosciuti». Crollava con questa il pilastro su cui si reggeva l’identità, l’essenza dell’essere aristocratico: il titolo nobiliare appunto con tutti i privilegi che ne derivavano. Sarà stato per il nostro Barone un brutto giorno, ma non così tragico da indurlo addirittura al gesto estremo del suo antenato Federico La Lomia: «per un titolo di nobiltà» non ne valeva davvero la pena!
Il 27 dicembre 1950 veniva approvata la Riforma agraria che metteva fine al grande latifondo. Danneggiato dalla Riforma il barone ricorse alla «carta bollata» per una estrema difesa della proprietà dei suoi avi, che avrebbe dovuto essere perpetua per concessione reale. Con l’ultimo scossone all’edificio nobiliare la crisi d’identità dell’epigono Gattopardo canicattinese, ex barone di Renda e Carbuscia, fu profonda e irreversibile.
Agostino La Lomia rimase nei profondi recessi dell’anima un nobile dispregiatore del volgo: «Iu sugnu lumia di ‘ncapu l’arbulu, tu si lumia di ‘nterra» disse con tanto vivace metafora quanto consunta spocchia aristocratica il barone al contadino. Ci racconta Augello che quando un popolano giungeva a palazzo La Lomia era annunciato al “barone” da un colpo di campanella, mentre «due colpi annunciavano i preti, tre gli avvocati, quattro le persone di qualità, cinque le persone gradite». Il blasone, il titolo nobiliare, l’albagia, gli atteggiamenti aristocratici, fantasmi di un morto passato, non scomparvero dunque del tutto dalla mente del barone.
Nel nuovo mondo della dinamica borghesia imprenditrice il barone non riusciva ad inserirsi: «Agostino La Lomia avrebbe voluto trasformare la tenuta di Giacchetto in una moderna azienda agricola» tiene a precisare Augello, ma «non se ne fece nulla data l’incapacità congenita del barone di portare avanti un progetto per un tempo congruo per la sua realizzazione». Quella «incapacità» ne fa un esempio di inetto sveviano; anche se nel suo diario, che potrebbe essere oggetto di indagine psicoanalitica, il barone si auto-ingannava vaneggiando sulle sue notevoli capacità imprenditoriali: «Le spiccate qualità organizzative di Agostino La Lomia» scrive il barone di sé stesso «hanno convogliato verso Canicattì un flusso non indifferente di affari finanziari, che hanno recato all’Istituto di Credito Canicattinese fortissimo movimento e magnifico sviluppo finanziario». Condividiamo con Augello l’osservazione che «la volontà di autocelebrazione» fu «una costante della vita di Agostino».
Tramontato il mondo aristocratico, l’assillo del barone dovette essere il come vivere bene il suo tempo. Sentenziò una volta: «La vita è bella e val la pena di viverla come meglio si può. Al diavolo la società.» Forse era l’inno alla vita come illusoria compensazione e consolazione per un mondo sepolto. S’immerse così nel mondo dell’effimero, dell’eccentricità, dell’apparire. Coerente con una banale e vaga visione della vita essenzialmente materialista, estetica ed edonista, egli condusse un’esistenza “bella” e gaudente, lontana da quella di un uomo pervaso di amore mistico e al servizio dei poveri come padre Gioacchino La Lomia, suo parente di sangue ma non di spirito.
L’esistenza del barone - personaggio che il critico cinematografico Di Giammatteo definirebbe «pigro e distaccato dai problemi del mondo» come il barone Cefalù del film “Divorzio all’italiana” (1962) di Pietro Germi – ci fa pensare a “La dolce vita” (1959) di Federico Fellini, il movie-symbol degli anni Sessanta in cui trionfa «l’effimero culturale, sociale e politico». Avvenimenti mondani, amori e ambienti aristocratici sono al centro di questi due capolavori che il nostro barone amante del cinema e comparsa non può non aver visto e apprezzato.
Nella sua dolce vita il barone, «d’ozi beato», si imbatté nella forza vitale dell’amore, inteso come travolgente godimento: «dove c’è da godere mi ci butto» disse. Eros pervade non casualmente parecchie pagine dell’opera di Augello; e tocca esseri umani (maschi, femmine e omosessuali: «la mia barba la toccano le belle donne ed i pederasti di classe» disse con intramontabile spocchia il barone all’arciprete), piante (il “pinus pinea” simbolo del “fallo fecondo”) e animali (si pensi alla «contrapposizione» Annarino «fallo duro» e Turiddu Capra «uccello nero e deciso»!). La “filosofia” del barone, mette in rilievo Augello, si fonda sulla triade vita-eros-morte: «il nascere è già avviarsi alla morte e per questo occorre godere del momento che passa». Furono quelli del barone dandy momenti di una vita piena di amori, «veri o - insinua Augello - presunti», di incontri con le moderne etère; di amori blasfemi: «Le ragazze che di notte allietavano gli ospiti del grande albergo avevano tutte frequentato il suo letto… Soddisfatti i sensi, tornava ad inginocchiarsi per rendere grazie a Dio». E per lui l’amore è «più forte persino della patria, dell’onore e della vita», anche se precisa che la vera vita è la morte, che volle prefigurarsi - forse per esorcizzarla! - con la rappresentazione del suo funerale.
Nella vita di Agostino Eros e Thanatos furono due presenze sicuramente forti, forse coincidenti. E chissà che la morte non si sia presentata al barone di Canicattì sotto le sembianze di una bella etèra per portarlo via in un viaggio senza «la gioia del ritorno», come sopraggiunse al principe di Salina: «La bella signora che appare al principe agonizzante» osserva il critico Spinazzola «suggella la sua ultima scoperta, ossia la coincidenza degli opposti nell’identificazione di Eros con Thanatos» Ci preme evidenziare, infine, due aspetti di quest’opera, uno formale l’altro contenutistico. Sul piano formale essa si caratterizza per la scrittura agevole, per il senso critico con cui l’autore non esita a evidenziare i tratti negativi, le debolezze e le contraddizioni del barone, e infine per lo stile ironico e talvolta pungente, così parnasiano e congeniale all’autore: tre caratteristiche che ne rendono piacevole ed edificante la lettura.
A livello contenutistico essa non è sic et simpliciter la biografia del barone; è anche un viaggio acculturante nelle tradizioni, nel costume, nell’arte e nella storia di Canicattì.
Con quest’ultimo sudato lavoro, frutto di numerose, approfondite e meditate letture, Gaetano Augello si conferma, in estrema sintesi, oltre che esperto biografo, un serio storico locale e profondo indagatore dell’animo dei suoi concittadini. È la conferma di un lontano impegno storico e culturale.
Augello ha infatti esordito per la prima volta come scrittore nel lontano 1965-66 con una pregevole tesi di laurea dal titolo “Condizioni economiche e demografiche del Comune di Canicattì”, alla quale hanno attinto a piene mani gli studiosi di storia locale (è un vero peccato che a suo tempo non sia stata pubblicata per una fruizione di massa dei suoi contenuti).
Egli è diventato poi uno studioso di quell’originale sodalizio letterario e di costume che fu l’Accademia del Parnaso Canicattinese: è gia trascorso un lustro dalla pubblicazione de “L’Accademia del Parnaso e la poesia di Peppi Paci”, e ne apprezziamo ancora la piacevolezza della lettura e l’utilità dei nuovi e preziosi documenti pubblicati in appendice.
Recente infine è la biografia “La Canicattì di mons. Vincenzo Restivo”. L’arciprete Restivo è un protagonista di primo piano degli ultimi sessant’anni di storia canicattinese che meritava di essere ricordato alle nuove generazioni; e Augello l’ha fatto senza remore ideologiche.
Queste sue opere costituiscono il retroterra culturale della presente pubblicazione che sinceramente e senza retorica ci auguriamo non sia l’ultima.


Gaetano Augello si è laureato in Lettere Classiche nell'Università degli Studi di palermo discutendo, col Professore Piero Landolini, una tesi sulle "Condizioni demografiche ed economiche del Comune di Canicattì"
Ha insegnato latino e greco nel Liceo Classico "Empedocle" di Agrigento, italiano e latino nel Liceo Classico "Ugo Foscolo" di Canicattì, italiano e storia nell'Istituto magistrale "Saetta e Livatino" di Ravanusa e nell'Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri "Galileo Galilei" di Canicattì.
Dall'anno scolastico 1983-1984 ha diretto successivamente la Scuola Media "Pietro Asaro" di Racalmuto, la Scuola Media "Senatore Salvatore Gangitano" di Canicattì e l'Istituto di Istruzione Superiore "Gino Zappa" di Campobello di Licata.
Dal 2002-2003 è dirigente scolastico dell'ITCG "Galileo Galilei" di Canicattì.
Ha curato l'introduzione "Cenni storici sulla Scuola Gangitano di Canicattì" e "Cronologia dei Capi di Istituto" per la "Carta dei servizi scolastici e Piano dell'offerta formativa" della Scuola Media "Gangitano" anno scolastico 1999-2000.

Ha pubblicato:

"L'Accademia del parnaso e la poesia di Peppi Paci" Campobello di Licata, Tipolitografia Casuccio, 2001.
"La Canicattì di Mons. Vincenzo restivo, Canicattì, Grafiche Avanzato, 2005.


Il volume è in vendita presso:
Libreria Pirandello - Viale Regina Margherita - Canicattì
Edicola Caramazza - Villa Comunale - Canicattì
Libreria Kalos - Via XX Settembre, 56/B - Palermo
Libreria Modusvivendi - Via Quintino Sella, 79 - Palermo

solfano@virgilio.it

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