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Il Coraggio

Dell’inquietudine

In Memoria

di Mino Bonsangue

Il 31 ottobre presso la Sala Convegni di Palazzo Stella a Canicattì, nell'ambito della manifestazione nazionale "Ottobre piovono i libri", voluta ed organizzata dall'Assessore alla Cultura di Canicattì Giusi Terranova e con la collaborazione di tutti i dipendenti della Biblioteca Comunale, alla presenza di un folto e qualificato pubblico è stata presentata la "donazione Bonsangue" "una piccola Biblioteca nella Grande Biblioteca". Alla Biblioteca Comunale, sono stati donati da Mino Bonsangue oltre 4000 libri. Riteniamo utile pubblicare la relazione del dott. Diego Bonsangue, nipote del donatore, in occasione della presentazione della donazione.



Relazione del dott. Diego Bonsangue

Oggi, per gentile iniziativa della sua amministrazione, Canicattì festeggia, coi toni impegnativi dell’ufficialità, il dono ricevuto da uno dei suoi cittadini, Mino Bonsangue, il quale volle che, all’atto della sua morte, avvenuta il 19 gennaio 1996, gli oltre quattromila volumi custoditi negli scaffali delle sue librerie entrassero a far parte, come collezione autonoma, del catalogo della biblioteca comunale della città nella quale egli nacque il 3 settembre del 1911, ma dove visse ben poco.
Trattandosi di libri, che pure hanno un peso e una consistenza concreta, potremmo dire che si tratta d’un dono più immateriale, che materiale. Ma questa circostanza – sono certo che anche voi siate d’accordo - non rende il regalo meno prezioso, anzi. Anche perché il dono giunge da una persona, che, per quanto probabilmente sconosciuta o dimenticata dai più, si può ben definire un uomo davvero speciale, che merita d’essere ricordato e del quale la sua città natale può andar fiera. Non lo sostengo con la disinvoltura celebrativa del familiare compiaciuto (il sospetto è legittimo, visto che sono pur sempre suo nipote), ma lo affermo da testimone spassionato e sincero.
Affinché Mino Bonsangue non resti per i suoi concittadini un astratto e misterioso benefattore, il mio scopo questo pomeriggio è dunque di farvi conoscere mio zio un po’ più da vicino.
Spero di riuscirci senza annoiarvi. Un compito, che assolvo volentieri e con una certa trepidazione a nome dell’intera famiglia. Prima di farlo, mi sembra doveroso dire sinceramente grazie a voi che avete avuto la cortesia di partecipare a questa cerimonia, che per la nostra famiglia è motivo di grande emozione, visti i tanti ricordi, amabili e struggenti, che ci legano e ci richiamano la figura di nostro zio.
Un secondo grazie, altrettanto doveroso e sincero, va all’Amministrazione comunale di Canicattì, con in testa il sindaco, Vincenzo Corbo e l’assessore alla cultura, la gentile signora Giusi Terranova, che ci ospitano e ai quali si deve questa iniziativa. Un terzo grazie va rivolto al dott. Giuseppe Brancato per le parole lusinghiere che ha avuto la bontà di spendere all’indirizzo di Mino Bonsangue.
Un pensiero riconoscente lo meritano infine anche la direttrice della Biblioteca Comunale, Maria Greco e i suoi collaboratori, che, col loro impegno, hanno reso possibile la costituzione, nonché la competente e amorevole sistemazione di questo fondo librario, permettendo che si avverasse un desiderio fortemente sentito da nostro zio e rispettando la sua volontà di intitolare il lascito alla memoria dei propri genitori: il padre, Diego Bonsangue, prima fabbro di talento, poi commerciante ricco di intraprendenza e fantasia, ma soprattutto uomo di esemplare onestà e di bontà proverbiale, che tutti in paese chiamavano “lu zi’ Decu” (mi viene da commentare che i cognomi all’ origine non vengono poi scelti a caso); la madre, Pietra – ma tutti la chiamavano Pietrina – Stringi, donna intelligente, tenace, coraggiosa, dalla sbalorditiva forza d’animo. Rocciosa come il nome che portava.
Del tutto analfabeta, non solo pretese che i suoi figli studiassero fino al diploma o alla laurea, ma ne seguì passo passo la formazione culturale. Tutti ancora ci chiediamo come riuscisse a farcela, visto che per lei i libri erano davvero lettera morta. Segno d’un misterioso e davvero sublime amore per la cultura, alla quale, con suo rammarico, non era mai riuscita a dare del tu.
Lo zio Mino per sua madre nutriva un’autentica venerazione.
Ma torniamo al suo desiderio, che quest’oggi si realizza ufficialmente.
Qualche settimana fa, in vista della preparazione di questo appuntamento, discutevo con mio cugino, Carlo Accardo. Insieme rispolveravamo i nostri rispettivi ricordi personali, richiamando alla mente episodi, aneddoti, momenti più o meno significativi o bizzarri della vita di nostro zio, dando inevitabilmente la stura ad un disordinato e prorompente flusso di coscienza.
Ebbene, in questa operazione, insieme divertente e commovente, di dissotterramento delle memorie individuali e familiari, è emerso un dettaglio che mi era del tutto ignoto. Ovvero il motivo profondo, remoto, autentico, se volete psicoanalitico, in ogni caso straordinariamente rivelatore della personalità di Mino Bonsangue, che lo ha spinto a decidere questo lascito testamentario a favore della biblioteca comunale della sua città natale.
Era mia convinzione che, con questo espediente, nostro zio intendesse scongiurare, la divisione tra i familiari suoi eredi, in pratica lo smembramento d’una biblioteca, che aveva accumulato e costruito in oltre sessant’anni di pazienti ricerche, di appassionati innamoramenti intellettuali, di acquisti costanti e talora assai dispendiosi.
Nostro zio tra l’altro era un cultore e frequentatore delle librerie antiquarie. Tanto, quanto amava trattenersi a lungo nelle botteghe antiquarie, a caccia di pezzi pregiati, mobili d’epoca, pitture, oggetti d’arte di raffinata fattura, coi quali amava arredare e abbellire, sempre con gusto e sobrietà, la propria casa, senza trasformarla in un pacchiano e ridondante bazar di pretenziose anticaglie.
Come ogni bibliofilo, mio zio era gelosissimo dei suoi libri e detestava separarsene. A chi gliene domandasse in prestito uno, preferiva piuttosto acquistargliene un doppione nuovo di zecca! Ecco perché pensavo che, pur di mantenere intatta la sua biblioteca non volendo lasciarla per intero ad uno solo dei suoi eredi per non far torto agli altri, avesse deciso di donarla – va da sé, solo da morto! - alla sua città.
C’era anche questo, ma non era il solo motivo e neppure il principale.
La vera ragione dovevo apprenderla, undici anni dopo la sua scomparsa, dalle labbra di mio cugino Carlo, che aveva a sua volta raccolto, alcuni anni prima, una confidenza di nostro zio. Una versione dei fatti per me inaspettata e sorprendente e, come vi renderete conto tra un attimo anche voi, ben più affascinante.
Ebbene, poco tempo prima d’ammalarsi e di precipitare nella lunga e dolorosa odissea sanitaria conclusasi con la sua morte, quasi fosse spinto da un oscuro presentimento, nostro zio confidò a suo nipote Carlo un episodio lontano della sua adolescenza. Per quanto desiderasse ardentemente, anzi “spinnasse” (come volle precisare, servendosi d’un vocabolo efficacemente vernacolare) per procurarsi un libro che gli interessava tantissimo leggere, non riuscì in nessun modo a trovarlo.
Per lui, bibliofilo dalla curiosità febbrile ed onnivora, fu una delusione fortissima, addirittura una frustrazione angustiosa. Un sentimento – così spiegò a mio cugino Carlo – che desiderava venisse risparmiato a chiunque tra i suoi concittadini, giovane o meno giovane, si fosse venuto malauguratamente a trovare nella sua stessa incresciosa situazione di allora.
Decidendo di lasciare la sua biblioteca alla propria città, intendeva pertanto dare un contributo, se non alla eliminazione, quanto meno alla riduzione di questo rischio.
Preoccupazione squisitamente intellettuale, se volete alquanto elitaria, ma non per questo meno seducente e apprezzabile. Certo, quindici anni fa, l’epoca alla quale risale, più o meno, la confidenza fatta a suo nipote Carlo, nostro zio non poteva ancora sospettare cosa avrebbe comportato la rivoluzione di internet.
Ma questa è un’altra storia, che non offusca minimamente, né ridimensiona il valore e il significato d’un episodio rivelatore di come una smaniosa voglia di sapere, capire ed apprendere possa trasformarsi in un gesto di generosità – perfino di fratellanza – intellettuale a futura memoria.
Ecco dunque perché oggi Canicattì riceve in dono la biblioteca di Mino Bonsangue: per aiutare chiunque tra i suoi cittadini lo desideri a sfamare le proprie curiosità culturali inappagate.
In tutto ciò, se vogliamo, oltre a una sottile vanità, c’è, da parte di nostro zio, anche una garbata autoironia. Quella di capitolare con stile al destino che si prendeva nei suoi confronti una definitiva rivincita.
Allontanatosi giovanissimo da una Canicattì – quella degli anni Venti e Trenta del secolo scorso – che stava stretta alla sua inquietudine di uomo ansioso di dilatare al massimo i propri orizzonti e di sottrarsi alle ventose del provincialismo culturale, Mino Bonsangue, a conclusione della sua vita, vi faceva definitivamente ritorno.
Affidando alla città in cui era nato, non solo il suo corpo ormai senza vita, che giace qui sepolto nella tomba di famiglia, ma, attraverso il dono dei suoi libri, in qualche misura anche il suo spirito.
Nel suo genere, un divertito e commovente colpo di teatro. La parabola d’un uomo che, fuggito non da qualcosa, ma verso qualcosa, trasforma la sua ultima fuga in un ritorno, o viceversa. Perché, in fin dei conti, non c’è luogo che riesca a trattenerci per sempre; non c’è luogo dal quale riusciamo veramente ad allontanarci del tutto.
La cifra di questo paradosso è l’inquietudine.
Una vitale, preziosa, salutare inquietudine.
Già, Mino Bonsangue, all’anagrafe Beniamino – nome che detestava da quando aveva scoperto che in ebraico vuol dire “nato con dolore” - era un uomo inquieto.
Lo era nel senso più alto e felice del termine.
Era posseduto dall’inquietudine di chi è alla ricerca avida e febbrile di qualcosa, che non trova vicino a sé, o che non trova a sufficienza.
Quando questo oggetto del desiderio inappagato coincide, niente di meno, col mondo intero, allora l’inquietudine si impone come stella polare che orienta la tua esistenza, da cima a fondo, dall’inizio alla fine.
E così il tuo scopo diventa non smettere mai di osservare, ascoltare, scoprire, capire, sapere, toccare con mano, per trasformare infine tutto ciò in testimonianza e racconto. Da questo punto di vista, credo che nessun mestiere fosse più adatto a Mino Bonsangue di quello del giornalista.
Quando ancora il giornalismo aveva il combattivo ottimismo e la giustificata convinzione di saper raccontare il mondo, con la tenacia dell’attenzione, la capacità di prestare veramente ascolto, il talento d’affondare lo sguardo dentro la complessità delle cose. Non un giornalismo di chiacchiere a vanvera, pettegolezzi e opinioni a gettone un tanto al chilo, ma di fatti e interpretazioni ragionate.
Quel giornalismo che non rinuncia a rivendicare con orgoglio e a interpretare con intransigenza il suo ruolo di vigile sentinella dei delicati equilibri e del complicato metabolismo sociale e politico, che tengono in vita e in buona salute una democrazia degna di questo nome. Purtroppo oggi la democrazia tende ad essere quasi del tutto soppiantata da una videocrazia volgare, assillante, sguaiata, nonché astutamente diretta dall’alto, con l’effetto di istupidire le menti, sfilacciare il tessuto sociale, incanaglire la convivenza civile.
Di fronte a questo scenario sconfortante, il giornalismo, o quel che con un certo arbitrio continua a definirsi tale, dovrebbe fare un coraggioso, quanto impietoso, esame di coscienza.
Perché è proprio questo “giornalismo”, rachitico e fanfarone, a diseducare lo sguardo di noi contemporanei, a farlo rimbalzare superficialmente sulle cose, ad alimentare frettolosa rimozione e incessante distrazione.
E’ proprio questa “informazione”, querula, arrogante, isterica, inutilmente e malamente sovrabbondante, ad assolvere oggi, per dirla col premio Nobel Dario Fo, il ruolo paradossale e aberrante di disinformare.
Oggi, dunque, che la realtà è invasa, distorta, perfino surrogata dalla cattiva informazione, mi azzardo a scommettere che nostro zio tornerebbe a indossare, più che mai, i panni fuori moda del giornalista scomodo, per farne un provocatorio vessillo di sfida contro lo svilimento d’una professione che, per tutti i cronisti di razza come lui, era e resta una irrinunciabile missione civile.
Non che anche oggi non esistano giornalisti onesti e valorosi. Sarebbe da sciocchi sostenerlo. Solo che non riescono a fare massa critica bastante a contrastare strategie editoriali di dimensioni planetarie e dalla formidabile potenza persuasiva.
La televisione, osservava a tal proposito Mino Bonsangue, è il vitello d’oro della nostra epoca, fabbrica e palcoscenico in mondovisione del nuovo divismo senza qualità, che trasforma i suoi personaggi da poco in idoli e i suoi spettatori ipnotizzati in idolatri. E lo pensava quando la Tv spazzatura non esisteva ancora, o, tutt’al più, muoveva i primi passi.
C’erano sì le telenovelas, ma non ancora i reality show e neppure il quotidiano fuoco di fila degli insulti via etere.
Quel campionario di volgarità becere e insulse sconcezze che il piccolo schermo (potentissima arma di “distrazione di massa”) si sente in diritto di proporci senza scampo a tutte le ore, in un’orgia di consumismo compulsivo, che procura gratificazioni di breve momento e di poca sostanza.
Ma questo è un discorso che ci porterebbe assai lontano e lo interrompo qui.
Dunque, Mino Bonsangue uomo inquieto per fame di mondo.
Inquieto, ma anche divertente, affascinante, seduttivo, elegante nei modi e nel vestire, sensibile – eccome - al fascino femminile, raffinato buongustaio della vita, frequentatore goloso dei suoi piaceri, delle sue tentazioni, delle sue attrattive. Le inseguì tanto, quanto amò rincorrere e coltivare i suoi molteplici interessi intellettuali: visitava senza sosta musei, biblioteche, teatri, gallerie d’arte, siti archeologici, sale da concerto, cinema; parlava correntemente il francese e aveva letto in lingua originale i capolavori letterari scritti in quella lingua (Balzac, Proust, Flaubert, Stendhal); amava viaggiare e stare a stretto contato con la natura; era un conversatore arguto e piacevolissimo, sempre pronto alla battuta fulminante e mordace, perennemente in agguato dietro uno sguardo sornione, inoffensivo solo all’apparenza.
L’espressione caustica, quasi un aforisma, con cui soleva apostrofare le altrui sciocchezze era: “Ci voli lù gnegnu!”. Trasposta in italiano diventa una frase molto più innocua, “ci vuole l’ingegno!”. Il tono beffardo sta però tutto nel suono irridente di quel vocabolo dialettale, “gnegnu”, che partiva dalla sua bocca come un sasso schizza via da una fionda.
L’altra faccia dell’ inquietudine di Mino Bonsangue fu il suo spirito da irriducibile e combattivo bastian contrario.
Intransigente, all’occorrenza spietato, nello smascherare ed irridere i luoghi comuni, le ovvietà, le opinioni a buon mercato, tanto per aprir bocca. Feroce nelle sue idiosincrasie culturali e politiche. Allergico al conformismo, che giudicava una pericolosa forma di ignoranza e che detestava perché poteva sfociare nella logica vile del branco. Polemico sino all’ultimo per amore di verità e indipendenza di giudizio. Uomo capace di mettere a rischio, come poi è effettivamente accaduto, la sua carriera, pur di non rinunciare a un motto di spirito, a una battuta folgorante, di quelle che tagliano la faccia e scorticano l’anima di chi ne diventa il bersaglio.
Punzecchiature e facezie pronunciate con ancor più gusto se a farne le spese erano i “Lorsignori” dell’epoca, grotteschi esponenti della casta sempreverde dei potenti e dei privilegiati.
Tutt’altro che diplomatico e accomodante, anzi spigoloso e, talora, anche brusco, Mino Bonsangue era massimamente geloso della sua autonomia professionale. Ovunque abbia lavorato, ha lasciato il segno, col suo talento, la sua libertà di coscienza, la sua indipendenza di giudizio, che difese sempre con le unghie e con i denti.
Provava un’insofferenza profonda, oserei dire anarchica, verso le ambiguità, gli accomodamenti e i giochi di potere. Addirittura disgusto per certe infamie e bassezze che arrivano da chi tiene ben strette le leve del comando.
Un atteggiamento che ha pagato professionalmente a caro prezzo.
Un giornalista del suo valore, della sua esperienza e della sua versatilità avrebbe certamente meritato di arrivare a dirigere anche una testata prestigiosa. Ma – ahi lui – nostro zio non sapeva tenersi dentro niente. Non aveva il talento triste del ruffiano. Quel che pensava te lo diceva in faccia, senza sconti.
Dunque niente fatti taroccati, niente giudizi addomesticati.
Davvero il contrario del carrierista!
Una coerenza che ha pagato al prezzo di un progressivo isolamento e di amare ostilità.
Una sorta di esilio interiore, affrontato con grande dignità e forza d’animo.
Ma torniamo alle origini, alla sua voglia di immergersi, misurarsi, raccontare la cronaca viva e tormentata dell’Italia del suo tempo.
Nato nel 1911 (con l’arrivo della luce elettrica, precisava con spiritosa civetteria!), si rivelò ben presto un bambino indocile e un adolescente smanioso di fare esperienze, al punto da essere spedito a studiare in un collegio dei salesiani a Pedara, sulle pendici dell’Etna.
Il suo immenso amore per la montagna (ma lo attiravano moltissimo anche il mare e la pesca) nacque quasi certamente da lì. Come a quel periodo si può forse far risalire la radice di una sostanziale diffidenza verso ogni forma di clericalismo bigotto. Benché apprezzasse l’intelligenza e la cultura di certi sacerdoti, cui rimase a lungo legato, e soprattutto i tesori di sapienza e di arte custoditi dalla chiesa cattolica nelle sue biblioteche e nei suoi luoghi di culto.
Non è un caso che tanti anni dopo si iscrivesse, da allievo ormai vistosamente canuto, alla facoltà teologica di Palermo, dimostrando a sua volta di non essere un laico coi paraocchi. Piuttosto un uomo voglioso di esplorare nuovi territori del sapere, di confrontarsi senza pregiudizi, di intrecciare un dialogo fecondo col mondo cattolico più aperto e avvertito, a partire dai Francescani di Assisi, presso i quali amava soggiornare periodicamente.
All’inizio degli anni Trenta si trasferì a Roma, dove nel 1934 si laureò in scienze politiche.
Ma il sogno di diventare giornalista non lo abbandonava neppure per un momento.
Decise perciò di trasferirsi a Torino, nella cui università conseguì una seconda laurea in Storia e Filosofia e dove, per campare, trovò un impiego da vice direttore all’aeroporto di Caselle.
Da giovanotto avventuroso, prese anche il brevetto di pilota.
Ma il suo obiettivo era lavorare al quotidiano “La Stampa”, il giornale di casa Agnelli, allora assai competitivo rispetto al “Corriere della Sera”.
Per riuscire nel suo intento - lo ricordava spesso con malcelato orgoglio – scelse la strada più ardua e improbabile: cominciò a tempestare la redazione di racconti brevi, scritti allo scopo di dimostrare le sue attitudini e il suo talento, in quella che divenne una tenacissima sfida con la testata e, prima ancora, con sé stesso.
La direzione, però, non faceva altro che cestinarglieli senza pietà, infliggendogli una delusione dietro l’altra.
Finché un bel dì non ebbe la sorpresa di aprire il giornale e di vedervi pubblicato uno di quei racconti. Sarebbe stato il primo di una lunga serie. Ne ho rintracciato una quarantina, o poco più, pubblicati tra l’ottobre del 1939 e il gennaio del 1943 all’interno della rubrica “La novella di Stampa Sera”, il quotidiano del pomeriggio della testata torinese.
Era fatta: il pilota Mino Bonsangue entrava in orbita; l’aspirante giornalista entrava finalmente alla “Stampa”.
Qui imparò il mestiere, facendo gavetta ed esperienza e mettendosi ben presto in luce come cronista di razza.
Una parabola professionale e una stagione tra le più esaltanti della sua vita. La tragica parentesi della guerra venne a guastargli la festa. Fu chiamato alle armi e spedito in Sardegna a fronteggiare da sottotenente lo sbarco degli Angloamericani che però, com’è noto, avvenne altrove, nella sua Sicilia.
Definì quel periodo una spensierata vacanza in divisa.
Dopo l’8 settembre 1943, il giorno del drammatico rompete le righe del regio esercito italiano, col Nord Italia occupato dai nazisti, decise di prendere la via del ritorno in Sicilia.
Una scelta che non ha mai perdonato a sé stesso. Nel dopoguerra fu assunto dal quotidiano “Sicilia del Popolo”, organo della Democrazia Cristiana dell’isola, dapprima in qualità di responsabile della Terza Pagina, successivamente di caporedattore.
A quell’epoca, primi anni Cinquanta, risale anche un viaggio di sei mesi negli Stati Uniti, che visitò da costa a costa, incontrando parlamentari, uomini delle istituzioni e anche numerose comunità di immigrati Italoamericani.
Esperienza che lo arricchì tantissimo.
La sua permanenza a “Sicilia del Popolo”, segnata da crescenti incomprensioni e diverbi, si chiuse col divorzio polemico di un giornalista che detestava museruole e guinzagli da una testata che, nel pieno della guerra fredda e del trionfante centrismo, pativa il fiato sul collo del suo editore politico di riferimento, la Democrazia Cristiana.
E così nella seconda metà degli anni Cinquanta entrò a far parte dell’agguerrita redazione del giornale “L’Ora”, quotidiano del pomeriggio di Palermo, che aveva un editore di opposta fede politica, il Partito Comunista.
Una testata tanto connotata dal punto di vista politico, quanto protagonista di epiche campagne di stampa contro la mafia, la corruzione, il clientelismo.
Una scuola di quel che si definisce giornalismo di denuncia e di inchiesta, dove Mino Bonsangue ebbe l’opportunità di mettere in luce le sue straordinarie doti di cronista di nera e di giudiziaria, ma anche, col tempo, di arguto osservatore del costume in una stagione di tumultuosi e contraddittori cambiamenti, e infine di raffinato critico cinematografico e teatrale.
Ma il suo carattere difficile e spigoloso e il suo spirito indipendente gli resero la vita difficile anche al giornale “L’Ora”, che risentiva pure esso del peso d’una contiguità politica, carica di rigidità e dogmatismi ideologici, che stavano stretti a nostro zio, tanto quanto quelli dell’altra sponda.
Risultato: in seguito ad una delle ricorrenti crisi economico- editoriali, che hanno costantemente segnato la storia di quel quotidiano, a metà degli anni Sessanta l’editore decise una riduzione del personale.
Nostro zio, schierato a sinistra ma non politicamente inquadrato e privo di protettori, fu uno dei primi a farne le spese E’ stato sempre il destino dei cani sciolti.
E così, ad oltre cinquant’anni d’età, si ritrovò, dall’oggi al domani, senza un posto fisso, privato del lavoro che amava più d’ogni cosa e per il quale s’era speso per tutta la vita.
Fu uno choc tremendo e furono anni difficili, per lui e per sua moglie, Giacoma, per noi tutti zia Mina, insegnante di lettere, sua amorevole e paziente compagna di vita.
Soffrì, ma non si perse d’animo, non era proprio il tipo.
Viste le difficoltà del mercato del lavoro giornalistico, dovette accontentarsi di campare di collaborazioni esterne: quella breve, come critico teatrale, nel neonato quotidiano di Palermo “Il Diario”; e quella, ben più lunga e gratificante, come critico, sia teatrale sia cinematografico, alla Rai Sicilia.
Grazie ad essa, un pubblico ben più vasto, stavolta non di lettori ma di ascoltatori, imparò a conoscerlo via radio come autore d’una eccellente rubrica di spettacolo e ad apprezzare le sue deliziose note critiche, introdotte dalla struggente colonna sonora di “Luci della ribalta”, il film capolavoro di Charlie Chaplin, che egli scelse come sigla musicale.
Quelle note si rivelarono presto autentici cammei che, in tre minuti e con una prosa sfavillante ed ironica, regalavano tesori di originalità, acume, sottigliezza, profondità di lettura di film e rappresentazioni teatrali.
Il vecchio leone ricominciava a ruggire e lo faceva da par suo! Ma non si limitò a queste pregevoli collaborazioni giornalistiche.
Decise infatti di rimettersi a studiare. Tanto da conseguire nel 1966 l’abilitazione all’insegnamento della storia e della filosofia, ritrovandosi ad esordire come docente di liceo, ben oltre il giro di boa della mezza età, ovvero quando gli altri cominciano a pensare di smettere.
Risultò un insegnante anticonvenzionale e a prova di noia, capace di avvincere letteralmente chi lo ascoltava.
Basti dire che, quando spiegava Kant, non lo descriveva solo come un gigante del pensiero, ma come un sublime poeta della ragione.
Quelle ore trascorse in classe a parlare coi suoi alunni dei massimi sistemi, con impegno e passione ma senza il sussiego del professore in cattedra, finirono per legarlo, con vincoli di stima e simpatia reciproci, ad una generazione di studenti palermitani, tuffatisi a capofitto nell’onda impetuosa ed esaltante della contestazione giovanile, esplosa in Italia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.
In quella stagione, brulicante di fermenti politici e culturali, di formidabili speranze, di parole d’ordine gladiatorie, di spinte al cambiamento, di tentazioni iconoclaste, di gesti provocatori, di confusi entusiasmi, di gracili illusioni, l’anarchico e libertario Mino Bonsangue conquistò i cuori di quei ragazzi in rivolta, come lui irriverenti e inquieti.
E così quella che, nell’impossibilità di continuare a fare il giornalista a tempo pieno, si preannunciava come una esperienza professionale di ripiego, divenne per lui una nuova esaltante avventura della mente e del cuore.
Questo mette in luce un aspetto della sua personalità che, a quasi dodici anni dalla sua morte, continua a colpirmi e a lasciarmi sempre ammirato.
Cioè la sua invidiabile, perfino commovente, capacità di ricominciare da capo, di non arrendersi, di non commiserarsi, di rimettersi costantemente in gioco con sempre nuove sfide, di ridare una volta di più credito al mondo, a dispetto di ostacoli, difficoltà, dolori, traversie (la sua vita ne fu piena e gliene impose di orribili).
Una magnifica dote, una specie particolare di fortezza, che non ha nulla a che vedere con l’ottimismo ingenuo. La definirei piuttosto generosità dell’intendere e del volere.
Se mi autorizzate una fugace digressione personale, credo che questa virtù, che ha attraversato in modo discontinuo e in misura diseguale la nostra famiglia e che nostro zio possedeva in massimo grado, più di tutti l’abbiano ereditata mio cugino Carlo e mia sorella Paola. Pilla, come la chiamava lo zio Mino, in omaggio a Giacomo Leopardi, che – amava ricordare a noi “caproni incolti” – aveva coniato questo affettuoso vezzeggiativo per sua sorella Paola.
Citazione da persona dotta, ma anche spia d’una sensibilità delicata.
A dispetto della sua fama di giornalista scomodo, di uomo che detestava retorica e sentimentalismi, pronto a lasciarti in mutande con l’arma dell’ironia, nostro zio non era un cinico. Disponeva d’una finezza d’animo e d’una eleganza interiore che lo rendevano capace di straordinari slanci di tenerezza.
Soprattutto con noi nipoti, che amava come i figli che non aveva avuto e ai quali – s’intende - non risparmiava certo i lati ispidi del suo carattere. Proverbiale in famiglia il suo modo di chiosare le castronerie: “Siamo nati per far numero!”, era il suo sulfureo commento.
Difficile tenere testa ad uno che sapeva ironizzare perfino sulle sue malattie, a partire dalla sordità che lo aveva colpito in vecchiaia. “Mi risparmia un mucchio di insopportabili sciocchezze”, soleva dire, nascondendosi dietro una cortina istrionica di finti equivoci e buffi fraintendimenti.
Mia sorella ed io, che ricambiavamo nostro zio di altrettanto amore, fin da ragazzini ci divertivamo un mondo a storpiare per gioco le parole, distorcendone il senso e deformandone il suono in modo caricaturale. Ancora di più ci deliziavamo nell’affibbiare soprannomi e nomignoli a tutto e a tutti.
Un codice strampalato e grottesco che ci ha regalato in passato momenti di autentica libertà interiore.
Lo zio Mino aveva una personalità troppo ingombrante per restare al riparo da questa nostra innocua irriverenza. E così decidemmo di ribattezzarlo “Lo Zeus”, proprio come il re dell’Olimpo. Sia per ironizzare sulla sua indiscussa autorevolezza culturale, sia per sfotticchiare il suo caratteraccio, la sua fama consolidata di brontolone, in fin dei conti bonario, ma sempre pronto a scagliare le saette del suo micidiale sarcasmo.
Se lui fosse qui, ad esempio, il primo a farne le spese in questo momento sarei proprio io.
La sto facendo così lunga per i suoi gusti, che prima comincerebbe a bofonchiare e sbadigliare vistosamente, poi a dare segni di insofferenza sempre più rumorosa, infine mi manderebbe a quel paese senza tanti complimenti.
E allora, per chiudere e non attirarmi i suoi fulmini postumi, torno alla ragione che ci ha raccolti qui oggi: i libri che Mino Bonsangue ha regalato alla sua città.
Chi avrà voglia di consultare questa “piccola biblioteca nella grande biblioteca”, come recita l’efficace logo scelto dal Comune di Canicattì per pubblicizzare questo appuntamento culturale, potrà verificarne la ricchezza e varietà di titoli, ancorché fermi, quanto ad aggiornamento, alla metà degli anni Novanta.
Vi troverà classici greci e latini, narrativa italiana e straniera (specie francese e russa), poesia, testi teatrali, libri di cinema, arte, filosofia, storia, religioni, saggistica, politica, sociologia. E chissà quant’altro mi sfugge in questo momento.
Ebbene, l’augurio della nostra famiglia è che la biblioteca di nostro zio, oltre che un pronto soccorso per eventuali crisi di improvvisa “astinenza culturale”, serva come via di fuga verso un “altrove” senza il quale ogni luogo in cui ci è dato di vivere, provinciale o cosmopolita che sia, prima o poi ci appare angusto e soffocante.
Per nostro zio, da ultimo, questo “altrove” coincise col sogno, lungamente accarezzato e purtroppo deluso, d’un viaggio in Transiberiana, la leggendaria ferrovia che attraversa tutta l’Asia, collegando Mosca a Vladivostok. Un’altra fuga – stavolta solo immaginata – del suo spirito inquieto.
Possa la biblioteca di Mino Bonsangue essere, per Canicattì che la eredita, questo piccolo, irrinunciabile “altrove”, lo spazio magico nel quale lo spirito si affina, l’immaginazione lievita, gli orizzonti si allargano, la mente sconfina.
La ricchezza sorprendente di questo “altrove” per me oggi è racchiusa nel ricordo dei suoi bellissimi occhi azzurri. Ne andava giustamente fiero.
L’ictus, che lo colpì nel suo ultimo giorno di vita, ne alterò il colore, ma, misteriosamente, non riuscì a spegnerne la luce. Quando emise il suo ultimo fiato dentro l’ambulanza che lo conduceva dall’ospedale verso casa, gareggiando invano col traffico di Palermo e l’impazienza della morte, fui io a calare definitivamente il sipario delle sue palpebre sullo spettacolo di quella luce nella quale continuava a sfavillare la sua ardente passione di vivere e di conoscere il mondo.
Questo mondo, proprio questo, così malmesso, affannato, deperibile, eppure così avvincente, a saperlo guardare e apprezzare. A volerlo raccontare, anche solo per dar voce alla sua sofferenza, che altrimenti rimarrebbe muta. Da cronista di razza, lui seppe farlo, con gusto e disincanto, ben consapevole che il giornalismo nasce e muore ogni giorno; che una notizia oggi è vera e domani può non esserlo più, o non esserlo del tutto; che il quotidiano che leggi al mattino, la sera è buono solo a incartarci il pesce.
E’ il segreto tormento, ma anche la ragion d’essere di chi fa il mestiere che faceva lui, mai soddisfatto e mai stanco di cercare verità con la data di scadenza. Costantemente agitato dal demone della curiosità, faticoso ma infallibile antidoto alla noia e alla paura di vivere.
Il giornalismo come metafora della nostra esistenza: fragile, provvisoria, dolorosa, imperfetta, eppure meritevole d’essere assaporata e raccontata ogni giorno. Con la disposizione di spirito di chi affronta l’imprevisto come opportunità ed avventura, non necessariamente come minaccia e accidente.
Con la grandezza d’animo di chi vuol conservarsi lucido fino alla fine per “vedere” come va a finire.
Grande ammiratore dell’Ecclesiaste, il superbo cantico della Bibbia sulla vanità del mondo, che leggeva e rileggeva con animo cocciutamente laico, nostro zio ci ha insegnato a vivere la vita fino in fondo senza rinfacciarle d’essere effimera.
Saggezza di uomo, talento di giornalista.
Una lezione preziosa, mai appresa abbastanza da noi, suoi nipoti, “nati per fare numero”, ma fortunati per aver conosciuto la sua arguzia e goduto del suo affetto.
Grazie zio, anzi “Zeus”, per avercela impartita coi tuoi occhi innamorati del mondo e sfolgoranti di luce.
E grazie a voi tutti per la paziente attenzione.

Canicattì, 31 ottobre 2007

Diego Bonsangue


solfano@virgilio.it


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