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Sanguinosa sparatoria alle Botteghelle

I gravi fatti di sangue successi a Canicattì il 12 novenbre 1820



Così avrebbe titolato la Gazzetta locale nell' esporre i gravi fatti accaduti 183 anni fa.
Per chiarire quanto sto per raccontare, è bene fare una premessa. Siamo nel novembre del 1820, agli sgoccioli di una delle tante rivoluzioni abortite quasi due secoli or sono, l'ordine stenta a riaffermarsi, la popolazione è stanca, affamata e avvilita da una rivoluzione fallita e dagli innumerevoli balzelli che angariano la povera gente, una delle tasse più odiate è quella sul macinato altrimenti detta "polizza".
L'8 novembre 1820 al suono di tromba e tamburo si promulgò il bando reale: "Nessuna persona può andare a molire frumento e orzo senza polizza, che risulta fissata a tarì 17,3 a tumolo". Il 10 si istituì alle Botteghelle l'ufficio dell'esattore Notaio don Giuseppe Rizzo. Alle manifestazioni di protesta, il Prosegreto don Pietro Palumbo, ordinò diversi arresti.
Sabato 11 il Presidente della Giunta don Francesco Lombardo, il Giudice circondariale don Antonino Gangitano, il barone don Agostino La Lumia ed altri deputati si consultarono con rappresentanti del popolo per trovare il modo di sostituire la tassa sul macinato con altra meno invisa alla popolazione, senza riuscire a trovare una soluzione idonea.
Domenica 12 novembre 1820, si aprì l'ufficio dell'Esattore alle Botteghelle, malgrado le proteste popolari.
Nel pomeriggio, forse con l'intento di scoraggiare uno sbocco violento alla protesta, don Pietro Palumbo, don Francesco Morello, don Domenico Sena ed altri otto impiegati all'esattoria, si nascosero armati in casa del Prosegreto Palumbo ed al sopravvenire della folla tumultante lasciarono partire qualche scarica di fucileria contro i dimostranti, causando un morto e quattro feriti. La folla per un attimo indietreggiò, ma immediatamente ingrossata dal sopravvenire di altri dimostranti attirati dagli scoppi, come l'onda di un mare in tempesta si scagliò inferocita contro Palumbo e compagni. Gli sparatori vista la mala parata e avendo i cavalli li presso si diedero alla fuga, Morello essendo privo di cavalcatura scappò a piedi tentando di montare sul cavallo del Palumbo, ma essendo obeso non riuscì. Palumbo cercò di aiutarlo ma senza successo. 1 fuggitivi erano intanto arrivati sotto le chiuse di don Giuseppe Sammarco all'altezza di un grosso noce, gli inseguitori si erano fatti pericolosamente vicini, il Palumbo diè di sprone al suo cavallo così lasciando il Morello terrorizzato e paonazzo in balia della folla rabbiosa che raggiuntolò, lo bastonò fin a quando sembrò morto. Il poveretto giacque pesto, sanguinante e gonfio come l'impasto del pane lievitato troppo a lungo.
Abbandonato il Morello esamine, la folla rivolse la sua collera verso la casa di don Pietro Palumbo che fu ben presto saccheggiata e data alle fiamme.
Intanto il tumulto e le fiamme attiravano l'attenzione di due latitanti, tali Napoli e Puma che battevano la campagna vicina e aggregatisi alla folla l'arringavano dicendo che bisognava bruciare anche la casa di don Filippo Caramazza a Borgalino, la casa fu assalita, i magazzini depredati di quaranta quintali di formaggio e di gran quantità d'orzo e fave e ne seguì l'incendio, i saccheggi continuarono.
Nei giorni a seguire furono saccheggiate la casa dell'Esattore, quella di don Giuseppe Lo Brutto a Giardinelli, il palmento di don Vincenzo Grifo alla Montagna, la casa di campagna di don Francesco Antinoro e quella di don Gioacchino Testasecca ai Gulfi.
Intanto ai due latitanti se ne aggiunse un altro, tale Spoto, ed i tre affinata la tecnica, invece di sobillare la folla al saccheggio, si diedero ben presto a farsi pagare una vistosa componenda dai maggiorenti che dovettero far buon viso per non aver distrutta la casa o peggio.
L'unico a resistere fu mastro Vito Meli, che alla richiesta di denaro rispose che preferiva mangiarselo a polvere e palle da sparare addosso ai tre ricattatori.
Il 18 novembre i benestanti avevano spopolata alla chetichella Canicattì cercando rifugio a Naro, a Palma, a Racalmuto, la baronessea Adamo, fingendo di fare una passeggiata giunse a Corrici e da lì trovata una lettiga si rifugiò alla Grasta. Gli eccessi continuarono parecchi giorni sia in paese che nelle campagne vicine.
Una parvenza di ordine sarà riportata a Canicattì dal generale Filippo Roth con seicento soldati che al suono della tromba proclamò che: "Nessuno si rischiasse di dare alloggio e da mangiare a tutti li briganti e specialmente a Luigi Napoli, Domenico Di Puma e Salvatore Spoto".
Quanto sin qui narrato non è fantasia, ma la fedele trascrizione di una cronaca dell'epoca giunta per caso in mia mano. I nomi e i fatti riportati sono quelli desunti dalla cronaca, che anche se anonima reputo attendibile perché riporta tanti altri eventi della vita canicattine-se dell'epoca verificati e verificabili.
La vicenda narrata si riferisce al periodo che seguì la Rivoluzione del 1820 e alla conseguente anarchia che inevitabilmente genera un tentativo di rivolgimenti sociali soprattutto quando non riesce a partorire quelle riforme che la gente comune si attende. .
I gravi episodi che per brevità ho riassunto, trassero origine dall'imposizione di un balzello iniquo e cioè la tassa sul macinato o polizza che dir si voglia che colpiva in pratica il consumo di pane e pasta, alimento base di una popolazione affamata da inopportuni gravami e da un'amministrazione inetta ed incapace quando non corrotta. La tassa sul macinato fu più volte abolita nel corso delle rivolte della prima metà dell'ottocento, per essere subito ripristinata con il fallimento delle stesse.
Nel 1860 uno dei primi editti di Garibaldi intese abolire l'odioso tributo, ma con l'Unità esso tornò in auge grazie ai buoni uffici del nuovo governo riparatore che anche con questo mezzo tentò di ingrassare le esangui casse dei Savoia cronicamente vuote e con buona pace dei morti di fame del Sud, ma, questa è un'altra storia ..........

Pietro Macaluso








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