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La repressione del brigantaggio a Canicattì e dintorni da Francesco Bonanno a Cesare Mori
di Salvatore Vaiana


Prefazione di Diego Lodato

Quando il prof. Salvatore Vaiana mi rivolse l'invito a preparare una breve prefazione per il suo libro "La repressione del brigantaggio a Canicattì e dintorni da Francesco Bonanno a Cesare Mori", accettai con vero piacere, perché di lui, di cui conosco l'intenso impegno civile e culturale nel campo della storiografia, ho sincera stima. Egli è un canicattinese di adozione, il quale verso Canicattì e la sua storia nutre un interesse particolare. Questo suo saggio sul brigantaggio ha un taglio di livello scientifico, per l'analisi scrupolosa delle fonti e dei documenti, ed evidenzia la passione dell'autore per la ricerca storica.
Canicattì, per quanto concerne il brigantaggio, è stata alla ribalta della cronaca in Sicilia in occasione della condanna a morte di sette componenti di una pericolosa banda, che aveva come capo l'ex chierico grottese Raimondo Sferrazza (o Sferlazza, come scrivono altri). C'è al riguardo un documento nell'archivio della confraternita di Maria SS. degli Agonizzanti (ora presso il collegio delle Orsoline), con l'intestazione "Ad futuram rei memoriam", in cui si trova la descrizione dettagliata dell'esecuzione, avvenuta in contrada Folche. Scrivono, tra l'altro, i confrati: "…fu data a noi la cura nel mentre che li detti miserandi condannati erano in cappella sotto la cura delli fratelli della Gratia o Bianchi di trattenerci per tutti li tre giorni a nostre spese il SS. esposto, con le prediche, e concorso di tutto il popolo". Raimondo Sferrazza di Grotte, Antonino Cacciatore di Girgenti e Sigismondo Loretta d'Aragona vennero impiccati il 5 maggio 1727, mentre l'agrigentino Francesco Borzellino e gli ennesi Michele Pirricone, Giuseppe Chiaramonte e Antonino Arrostuto furono afforcati il 17 successivo.
Il principe della Cattolica, Francesco Bonanno Del Bosco, che catturò i banditi, era il barone della terra di Canicattì e forse da essi era stato colpito direttamente negli enormi interessi feudali che aveva nell'agrigentino. Ciò spiega perché si assunse volentieri l'incarico con "l'alter ego", ricevuto da parte del viceré, "per l'estirpatione dei ladri – come si legge nel documento dei confrati - e piantò la gran Corte in questa sua sud.ta Terra, [e] fece che li detti ladri fossero stati sentenziati e condannati alla forca in questa".
Corretta è in proposito l'osservazione che Orazio Cancila fa a pagina 43 del suo Così andavano le cose nel secolo sedicesimo (Palermo, 1984): "Quando il banditismo toccava gli interessi dei feudatari, questi si mettevano alla testa delle forze di repressione e prima o poi finivano per avere la meglio. Non è certamente un caso che nel Cinquecento l'incarico di vicario contro i banditi sia stato assunto dal principe di Paternò, che era stato minacciato nei suoi stati da Giovanni Giorgio Lancia. Nel 1727 lo stesso incarico per muovere contro la banda del chierico Raimondo Sferlazza di Grotte, che con 30 compagni estorceva grosse somme ai facoltosi dell'agrigentino, fu assunto da Francesco Bonanno, principe della Cattolica, cioè dal feudatario di un centro rurale dell'agrigentino che probabilmente non era stato 'rispettato' dalla banda".
La vicenda della cattura e dell'esecuzione di tali banditi suscitò uno scalpore tale, che gli storici del tempo, come il marchese di Villabianca, Giovanni Evangelista Di Blasi, Antonino Mongitore, ne parlano tutti. E' al racconto del Villabianca che si rifà il prof. Vaiana, ed è una buona fonte, perché dovere di quanti si dedicano alla storiografia è quello di attingere, come diceva Pietro Giordani, alle fonti e non alle cisterne.
Un altro episodio di banditismo famoso che riguarda la storia di Canicattì è quello legato al celebre brigante Antonino Di Blasi, detto Testalonga, delle cui gesta si è impadronita la leggenda, come bene mette in risalto il prof. Vaiana. E leggendario è il tentativo di aggressione al chiostro delle suore benedettine della Badia, di cui così narra il Sacheli a pagina 6 delle sue Linee di folklore canicattinese (Acireale, 1914), a cui poi si rifà il Dizionario illustrato dei Comuni siciliani alla voce Canicattì: "Il bandito tentava di entrare nella chiesa per penetrare nell'attigua ricca badia delle monache benedettine. Atterrata una porta laterale, vide pararglisi innanzi un vecchio venerando dalla lunga barba bianca, il quale col pastorale gli vietava l'ingresso: era San Benedetto, e la badia fu salva".
Nel passato Canicattì ebbe fama di essere "terrible repaire des brigants", terribile covo di briganti, come si legge a pagina 156 e seguenti del Voyage en Sicile (Paris, 1848) di Fèlix Bourquelot. Così avevano detto al viaggiatore francese gli abitanti di Racalmuto, quando lui chiese loro informazioni, prima di inoltrarvisi, durante il suo giro della Sicilia nel 1848. Gli avevano addirittura parlato della "mauvaise habitude qu'ont les citoyens de Canicatti de rançonner et dévaliser les voyageurs" (la malvagia abitudine che hanno i cittadini di Canicattì di taglieggiare e spogliare i viaggiatori). Certo, era una diffamazione. Ma si sa che tra paesi vicini non corre in genere buon sangue, e la rivalità degenera spesso in maldicenza. Tuttavia, nonostante la paura che avevano tentato di incutergli, il Bourquelot si avventurò lo stesso ed entrò a Canicattì, senza subire danno alcuno né incontrare briganti. Non che non ve ne fossero, ma non erano poi tanti o tanto pericolosi, quanto la diceria dei centri limitrofi voleva far credere.
Figure di spicco a Canicattì, nell'ambito del banditismo siciliano, non ce ne furono, tranne, ma in tono minore rispetto ai Lancia, Sferrazza, Testalonga, Giuliano, quel Salvatore Agliata, detto Gallo, degli inizi del Novecento, che il prof. Vaiana definisce "primula rossa del brigantaggio canicattinese" e di cui scrive: "Gallo, conosciuto per le sue efferatezze, batteva la campagna da diversi anni praticando l'abigeato e l'estorsione, uccidendo e facendo scempio dei cadaveri, trescando con la mafia. A trentotto anni il temerario bandito terminava la sua carriera criminale con numerose condanne per iniziare la vita di ergastolano nelle dure carceri dell'Ucciardone di Palermo".
Questo saggio del prof. Vaiana riesce assai utile per la conoscenza del fenomeno del brigantaggio a Canicattì e nel territorio circostante, così come si è manifestato nell'arco di tempo di circa tre secoli. E' un dotto studio, sorretto da una ricca bibliografia e da una diligente ricostruzione delle condizioni sociali e ambientali del tempo in cui si svilupparono gli eventi. Anche la lettura riesce piacevole, per quella chiarezza di stile, che è il pregio di quanti scrivono per farsi capire, come è loro dovere, da tutti.





1 - Prologo - Le origini del brigantaggio

Non sbagliava il grande storico Fernand Braudel a sostenere che il brigantaggio "è un vecchio aspetto dei costumi mediterranei.[1] È certamente uno dei più tragici problemi sociali della Sicilia moderna e contemporanea, che del Mediterraneo è il cuore; un fenomeno remoto, che risale almeno alla dominazione romana, le cui implicazioni furono analizzate da Diodoro Siculo, storico di Agira.
Diodoro Siculo narra le orribili condizioni di miseria degli schiavi e le loro reazioni ora di rivolta ora di brigantaggio. I suoi scritti sono illuminanti per comprendere le più remote radici di quest'ultimo fenomeno, le forme della violenza, il manutengolismo dei ricchi proprietari terrieri, le complicità della magistratura, la repressione militare come soluzione del problema: tutti aspetti di una realtà sociale destinata a perdurare mantenendo analoghe caratteristiche.

"Per le necessità dell'agricoltura, ciascuno dei grandi latifondisti italici acquistava interi ergastoli di schiavi. Ne tenevano alcuni in catene, altri li sfiancavano coi lavori pesanti, tutti li segnavano con i marchi a fuoco, offesa alla dignità umana. Adoperavano i più giovani come pastori, gli altri secondo le varie esigenze. Si concentrò così in Sicilia una massa di schiavi strabocchevole, al punto che, a sentire le cifre, si restava increduli. I ricchi siciliani infatti gareggiavano coi proprietari italici in superbia, nonché in arroganza e malefatte.
Gli schiavisti italici avevano ormai assuefatto i loro pastori ad una tale criminalità, da non preoccuparsi più del loro sostentamento: lasciavano che si dessero al brigantaggio. Concessa, in tal modo, licenza di crimine a uomini che per forza fisica erano in grado di realizzare quello che volevano, per tali azioni disponevano di tutto il tempo necessario, e che dal bisogno stesso di sostentamento erano indotti alle imprese più temerarie, l'illegalità si diffuse in un baleno. Da principio aggredivano e uccidevano le persone più in vista, sorprendendole isolate. Poi, riunitisi in bande, cominciarono ad assalire di notte le ville più indifese: devastavano, saccheggiavano, ammazzavano chi faceva resistenza.
Via via che cresceva l'audacia di questi banditi, la Sicilia diveniva terreno impraticabile: chi viaggiava di notte non poteva neanche mettersi in strada, chi era solito vivere in campagna non era più sicuro; dovunque violenze, saccheggi, assassini di ogni genere. [...].
I magistrati responsabili della provincia cercavano di porre un freno alla follia di questi schiavi, ma, non osando punirne i reati data la forza e il prestigio dei loro padroni, erano costretti a chiudere entrambi gli occhi dinanzi al brigantaggio che imperversava nella provincia. Gran parte infatti dei padroni di questi schiavi erano illustri cavalieri romani, e potevano perciò essere giudici nei processi intentati dalle province contro i governatori. ecco perché questi li temevano. [...].
[Il console romano] Rupilio, battendo in lungo e in largo l'intera Sicilia, con ben pochi reparti, la ripulì completamente dal brigantaggio, e molto più rapidamente di quanto si potesse sperare[2] " . Nel basso medioevo saranno ancora i ricchi signori della terra, non più patrizi romani ma nobili chiaramontani, a proteggere i banditi. Ai tempi dei conti Chiaramonte, Favara, zona franca di "ricercati per omicidi, rapine furti e debiti [...], divenne un covo di briganti, di cui Agrigento ed altri paesi vicini cominciarono a lamentarsi presso il re" Martino, che fu costretto ad emettere un provvedimento per porre termine a tale stato d'illegalità.[3]


2 - Francesco Bonanno, barone di Canicattì, stermina la feroce banda del brigante Sferlazza

Durante la dominazione spagnola, il brigantaggio assunse di nuovo dimensioni così preoccupanti da spingere i viceré ad emanare apposite misure legislative e istituire organi di polizia per estirparlo. Iniziò, nel 1543, Ferdinando Gonzaga istituendo una polizia locale comandata da due Capitani d'arme. Continuò Marc'Antonio Colonna curando il primo regolamento organico sui Capitani[4]. Ma gli effetti repressivi furono molto limitati.
Agli inizi del Settecento, il brigantaggio raggiunse punte di particolare gravità in alcuni territori dell'agrigentino, fra cui quello di Canicattì, allora sotto la baronia dei Bonanno Bosco, dal 1711 principi della Cattolica[5]. Centri d'irradiazione del fenomeno malavitoso erano Favara e Grotte.
Nel maggio del 1713 il pretore di Palermo denunciava la pericolosità e l'estensione del banditismo favarese, il quale, "con la tolleranza, se non vogliamo credere con la protettione del vescovo di Girgenti", utilizzava le chiese come luogo di rifugio "valendosene di botteghe a vendere e negoziare pubblicamente le robbe derubate e quel che è peggio di postriboli, introducendovi la pratica e il consortio di donne disoneste[6].
Proprio nel 1711 il principe della Cattolica, incaricato di ripulire il territorio dagli "scorridori di campagna", fece arrestare a Grotte e condurre nel carcere di Naro cinque persone imputate di furto. Alcuni mesi prima era stato il duca Sanfilippo di Grotte ad arrestare nella Chiesa Madre di questo paese (dietro permesso del magistrato ecclesiastico, essendo riservato ai luoghi sacri il diritto d'asilo) alcuni componenti della banda Alicata[7].
Racconta il marchese di Villabianca che, nel 1725, il chierico Raimondo Sferrazza di Grotte abbandonò la vita spirituale per costituire una banda, che porterà "gran disturbo e terrore nel regno". Le imprese preferite dalla banda erano la grassazione e il sequestro di persona; attività da cui i briganti ricavavano "centinaia e migliaia di scudi". Le scorrerie dei briganti determinarono un diffuso stato di insicurezza al punto che "nessuno stimavansi sicuro di sua persona anche dentro il proprio foco", e per frenarle il 7 aprile 1727 il viceré incaricò "la sublime persona del chiarissimo principe della Cattolica, Francesco Bonanno e del Bosco, consigliere di Stato dell'allora re di Sicilia Carlo VI imperadore". Il Bonanno, assistito dal "ministro" Francesco Gastone, partì per la missione da Palermo "alla testa di numerosa truppa alemana e di un trozzo di cavalleria di Ussari con cinque compagnie di capitani d'armi nazionali" e "piantò fastoso sua corte vicariale nella terra di Canigatti, suo vassallaggio". Sorpreso in una grotta del territorio di Alimena, Sferrazza, già ferito a morte "con una palla in bocca, che gli tagliò per mezzo la lingua", fu impiccato "nel campo d'armi della terra di Canigatti" assieme ai suoi soci. I briganti furono condotti nelle carceri del castello di Canicattì e qui sommariamente processati e condannati a morte. Due confraternite locali ebbero l'incarico di preparare il cerimoniale, non solo religioso, del trapasso[8]. Alla esecuzione seguì per diverso tempo un ulteriore macabro spettacolo, descritto dal Villabianca con minuziosa precisione: "Si fe' poscia notomia de' loro corpi estinti, che, fatti in quarti, si feron pendere dalle alture delle portelle e passi pubblici dell'isola e la testa finalmente dello Sferrazza fu inviata a Marsala a marcire sulle pareti del palazzo Fici[9].
Nel 1766-'77, fra Pietraperzia e Barrafranca si formò una banda che opererà in un vasto territorio della Sicilia centrale. Era guidata dal pietrino Antonino Di Blasi, detto Testalonga perché aveva "la testa più alta del campanile della parrocchia" del suo paese [10] . Le sue gesta furono conosciute e ammirate dall'arciprete di Cianciana Vincenzo Felice Sedita, che quando lo incontrò personalmente ne rimase folgorato. L'arciprete non seguì, sulle orme del chierico Sferrazza, il suo eroe, però lo celebrò in versi innalzandolo in quell'Olimpo di briganti "considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia[11]. Il Sedita canta il Di Blasi come "sullevu di la bassa afflitta genti / omu sagaci di dda leggi amanti / chi la natura imprimi in ogni menti", come l'uomo che ricorda ai componenti della sua banda il rispetto della religione e dei luoghi sacri: "Nu' nun saremu cussì sciocchi ed empii / chi vulemu la fidi rinnigari[12] . Appare quindi un brigante dai costumi diversi da quelli di Alicata e soci. L'arciprete forse non sapeva che il Testalonga nelle sue scorrerie si era spinto fino a Canicattì "ad assaltare il monastero delle benedettine". Secondo la leggenda, a salvare le monache intervenne "un vecchio venerando dalla lunga barba bianca", San Benedetto, che "impedì col pastorale l'entrata nella badia" al Testalonga e al suo seguito[13]. L'incarico di sterminare la banda fu assegnato al principe Giuseppe Lanza di Trabia che "piantò suo campo e corte di giustizia nella terra di Mussomeli, suo vassallaggio, al pari del principe della Cattolica, Bonanno, che la formò nella sua terra di Canicattì[14].
I felici esiti repressivi però non eliminarono il fenomeno che ebbe nuovi sviluppi nel secolo successivo: gli uomini di rispetto delle campagne - scrive Renato Candida - diedero vita "a consorterie di tipo mafioso", le quali "lentamente assorbirono il brigantaggio, ponendolo al loro servizio[15]. Brigantaggio e mafia si intrecceranno a loro volta con politica, istituzioni dello Stato (in particolare le forze di polizia) e massoneria in un gioco enigmatico, non ancora del tutto chiarito dalla storiografia, che animerà la tormentata storia della Sicilia dai moti risorgimentali fino a Salvatore Giuliano.


3 - La repressione del brigantaggio durante il dominio borbonico

La studiosa Giovanna Fiume individua nell'agrigentino un gruppo di paesi in cui il brigantaggio presenta, nella prima metà dell'Ottocento, "una particolare intensità": Favara (epicentro del fenomeno), Grotte, Canicattì, Naro, Campobello, Santa Elisabetta, Aragona, Comitini, Racalmuto, Campofranco, Casteltermini, Mussomeli[16].
La causa della proliferazione del fenomeno è da far risalire ancora una volta, oltre che all'endemico pauperismo, al manutengolismo di alcuni latifondisti. I ricchi signori proteggevano o dirigevano, come fece negli anni venti il narese don Vincenzo Gaetani, feroci bande che scorrazzavano nei territori di Favara, Canicattì, Naro, Racalmuto, Grotte e Aragona.
Le loro attività erano diverse. Scrive il noto commissario prizzese Giuseppe Alongi che "in tempi ordinari la banda ricorre ai mezzi diretti e pronti per far bottino: la grassazione, l'abigeato, la lettera di scrocco, il sequestro di persona[17]. Fra questi, quello di gran lunga più redditizia era l'abigeato, tanto che alla "bolletta da rilasciarsi nelle compre vendite degli animali" del 1838, i Borboni, nel 1852, aggiunsero la "Istituzione del marchio pel bollo degli animali". A Canicattì (Distretto di Girgenti) fu assegnato il marchio composto dalle lettere "TP"[18] .
È possibile farsi un'idea della gravità ed estensione del fenomeno criminale e delle sue connessioni attraverso una panoramica, parziale ma sufficiente, sulla presenza delle bande nei territori limitrofi a Canicattì.
L'agrigentino Giuseppe Picone, che attinge dal Di Blasi, racconta che agli inizi dell'Ottocento i dintorni di Girgenti erano "infestati dalla celebre banda di Favara capitanata dai fratelli Sajeva", sgominata nel 1808 dal cav. Gerlando Bianchini in sei mesi di dura caccia all'uomo[19] .
Di un certo interesse è il racconto di Candida sullo strano miscuglio di carboneria, mafia e delinquenza comune (briganti e ladri) dal 1820 in poi (avrà, infatti, con combinazioni variabili di elementi, tre repliche: nella rivoluzione del 1848, nel 1860 con l'appoggio delle bande al massone Garibaldi e nella rivolta popolare del 1866 a Palermo e provincia che vide la presenza di "briganti e malfattori [20] ): "Le cronache ci dicono che in provincia di Girgenti, durante i moti del 1820 e successivi, a Naro, a Palma di Montechiaro, a Canicattì, a Comitini e a Cianciana, nel corso dei tumulti, si verificarono omicidi a scopo di rapina, saccheggi, furti, incendi e devastazioni, compiuti da mafiosi associati alla Carboneria, che approfittando dei moti e facendo intendere di parteciparvi per patriottismo, commisero fatti criminosi di ogni genere e produssero numerosi storpi, come dicono testualmente le cronache[21] . Recentemente Salvatore Lupo ha confermato e precisato che "durante la cospirazione risorgimentale esisteva una rete clandestina ispirata alla massoneria attraverso la sua filiazione, la carboneria[22] ; e Giuseppe Carlo Marino parla di "alcuni nuclei carbonari dell'agrigentino" fra cui l'"Unione Italica di Canicattì[23]. A Naro, dove era presente la misteriosa setta dei Beati Paoli, lo studente Ignazio Palmeri aderiva alle "idee dei carbonari di Sicilia[24].
Quando nel 1836 visitò Canicattì, l'architetto Eugene Viollet Le Duc era già stato informato della presenza nel territorio di bande di briganti[25]. Il Le Duc però fu piuttosto colpito dall'insicurezza delle strade nelle ore dal tramonto del sole alle quattro del mattino. Fu colpito altresì dal contrasto fra la (apparente) tranquillità della città e la tenuta dei Canicattinesi che si recavano in campagna muniti di fucili e munizioni, e in particolare dallo strano contegno e dal sospetto abbigliamento della locale Gendarmeria a cavallo: "nel cuore di una gola - confessa il viaggiatore francese - li avremmo presi per una di quelle bande di briganti di cui ci segnalavano da per tutto la presenza" (la Sicilia, insomma, si presenta a Viollet Le Duc come una "terra di enigmi[26]) . Alcuni decenni dopo, saranno due studiosi del brigantaggio e della mafia, Giuseppe Ciotti e Antonino Cutrera, a risolvere questi enigmi definendo i confini fra illegalità e pubblica sicurezza. Il Ciotti dirà che il governo borbonico, "inabile" ad eliminare il brigantaggio, "discese a patti col delitto, lo usufruttuò". "I più matricolati ribaldi - prosegue lo studioso - invece del capestro ebbero una divisa, un soldo, talvolta una decorazione, e si resero mallevadori della pubblica sicurezza. La plebe dei ladri fu spesso sopraffatta; ma in mezzo allo scadere dell'aristocrazia della nascita sorse fuori l'aristocrazia del delitto, riconosciuto, accarezzato ed onorato" (in quest'ultima aristocrazia è collocabile don Vincenzo Gaetani, di cui si è detto). Il Cutrera, che cita il Ciotti, confermerà quest'analisi affermando che le Compagnie d'armi rappresentavano "il marcio vero della giustizia[27] .
Agli inizi degli anni quaranta scorrazzava nella zona la "comitiva armata" dei banditi favaresi Martino Giudice Tarantola e Giuseppe Ambuscio Strazzato, ritenuta colpevole di vari reati[28] . Alcuni banditi del girgentino lavoravano in trasferta; si pensi a Giacomo Terrana di Comitini, che attorno al 1840 costituì una banda che operava nelle terre di Ramacca, Caltagirone e Licodia"; a rappresentare l'area dello zolfo egli aveva come soci Angelo Sanfilippo di Aragona, Domenico Castiglione e Angelo Zaffuto di Grotte; a costituire poi una vera e propria interprovinciale del crimine fra i suoi gregari c'erano due pericolosi ricercati, Ignazio Palumbo di Palazzo Adriano e Nicolò Lo Bue di Lercara Friddi.
Nemmeno la rivoluzione del 1848 attenuò le scorrerie delle bande. A Canicattì la situazione dell'ordine pubblico era così insostenibile che il ministro Pasquale Calvi e il commissario di Girgenti Gioeni D'Angiò denunciarono al Presidente del Comitato rivoluzionario locale i frequenti furti e le ripetute attività brigantesche verificatisi nel territorio canicattinese e nell'hinterland[29].
Per combattere il brigantaggio i Borboni utilizzarono un pesante sistema repressivo: polizia, carcere, tortura e pena di morte.
Nel 1813, la polizia dei capitani d'armi fu sostituita dalle Compagnie d'armi, che durarono fino alla istituzione della Gendarmeria a cavallo, nel 1833: erano frequenti riforme dovute, come vagamente intuì Viollet Le Duc, alla degenerazione criminale di molti poliziotti. Ogni Comune doveva inoltre provvedere al controllo del proprio centro abitato con una "Ronda" armata. Dalla denuncia del "Regio Giudice del Circondario" risulta che il "Decurionato del Comune di Canicattì", nel 1827, provvedeva insufficientemente al controllo del paese avendo ridotto da otto a sei il numero dei rondieri, proprio quando, evidenziava il giudice, si sentiva "il bisogno preciso di conservarsi in questi tempi calamitosi la tranquillità pubblica e prevenire qualunque reato che la miseria potrebbe originare". Il Decurionato rispondeva infastidito, dichiarando che il paese godeva di sufficiente "tranquillità" e della adeguata presenza della brigata della Gendarmeria, che "per diritto" andava "unita alla Ronda paesana per la custodia del Comune[30] . La verità è che negli anni venti e trenta i provvedimenti borbonici riuscivano sì a circoscrivere il dilagare del banditismo, ma ad esclusione di alcune aree ad alta intensità criminale: il circondario di Favara, dove si continuava "a vivere tra i delinquenti", e le provincie di Palermo e Trapani.
Nel distretto n° 1 di Girgenti, oltre a numerosi Cancelli di Polizia e Corpi di guardia per la repressione, vi era un alto numero di prigioni pronte ad accogliere i malfattori: le centrali di Girgenti e del Molo di Girgenti; le circondariali di Canicattì, Siculiana, Cattolica, Raffadali, Grotte, Aragona, Racalmuto, Naro, Palma, Favara, Ravanusa, Campobello e Licata[31] . Le carceri borboniche erano basate su un rigidissimo sistema di detenzione e prevenzione che disconosceva totalmente una visione correttiva della pena come quella che, sulla scia delle tesi di Cesare Beccaria, si andrà affermando negli stati liberali. Un (apparente) barlume di umanità nelle carceri traspare da qualche documento storico; ad esempio, nel carcere di Canicattì vi era la "sussistenza povertà Detenuti", che consisteva nel fornire pane, olio per la lampada e medicamenti[32]!
La pena massima per briganti e autori di reati in genere era la morte. Il decreto del 19 dicembre 1838 la riconfermò; e per i malavitosi l'unico tentativo di sottrarvisi era di presentarsi spontaneamente alle autorità, magari con l'intercessione di un'autorità comunale, come avvenne nel 1840 con il "profugo" Carmelo Lo Giudice per il quale intervenne il "capo urbano" di Canicattì Gaetano Bartoccelli.
Oltre che di questo sistema di repressione, i Borboni si avvalsero anche della "collaborazione" dei proprietari, i quali, da parte loro, costituirono delle "polizie private", illegali ma tollerate dalle autorità.
Riguardo alla collaborazione dei proprietari, nel 1875 l'avvocato Andrea Guarneri, primo prefetto di Agrigento dopo l'Unità, pose davanti alla Commissione parlamentare un'interessante domanda: "Il Maniscalco se fece dei prodigi in fatto di sicurezza credono che li facesse con misure eccezionali? Li fece con i grandi rapporti che si era creato con i proprietari delle provincie, i quali si tenevano in obbligo di tenerlo al corrente di tutto, ond'è che di tutto era estesamente informato". L'ex prefetto informava i commissari di qualcosa che in Sicilia era noto.
Le prime polizie private di cui si ha conoscenza risalgono agli anni quaranta. Nel 1848, racconta il Picone, nei dintorni di Girgenti i proprietari terrieri costituirono delle "polizie private" i cui componenti, con un esotico nome mutuato dal turco Yeniceri, furono denominati giannizzeri, nel senso d'intransigenti e fanatici difensori della causa dei signori della terra. A Girgenti col nome di Giannizzeri venivano indicate le "guardie di città", per "garantire la città dai furti", e le "guardie a cavallo", per "la sicurezza delle campagne". I risultati della loro opera erano di questo genere: "Nel borgo del Rabato, avanti la chiesa di S. Francesco di Paola, veduti due cadaveri colla scritta sul petto, Ladro". Un simile barbarico spettacolo "sparse il terrore fra i malvagi e destò il prestigio dell'autorità[33] . A Favara la diffusione del brigantaggio e l'evento contingente dell'evasione di "200 delinquenti" dalle carceri spinsero gli agrari guidati dai nobili Cafisi a costituire il loro gruppo di Giannizzeri, il cui comando fu assunto dal dottor Giovanni Bellavia che, secondo un suo pronipote, "in via privata era anche un capomafia, ed aveva un considerevole gruppetto di aderenti[34] (la supposizione è condivisa dallo storico locale Salvatore Bosco e da Giovanni Lentini, il quale scrive che "sui mafiosi aveva un grande ascendente"). Il personaggio, divenuto leggendario nell'immaginario collettivo locale, presenta tuttora un certo fascino, alimentato da una tradizione orale la quale ci tramanda che "egli, per il prestigio di cui godeva, fu chiamato nella vicina Canicattì per sedare il brigantaggio[35] .
I risultati dell'azione repressiva ad Agrigento, Favara e Canicattì e nel resto della provincia apparivano positivi all'Intendente Salvatore Vanasco[36], che nel suo "Rapporto al Consiglio Generale della Provincia di Girgenti" dell'11 maggio 1858 faceva notare, nel paragrafo "Spirito pubblico e sicurezza", come "risulti da' fatti, e non dalle pompose espressioni, quel tranquillo e pacifico stato che rassicura gli animi, e allieta le famiglie, le città, il reame". Ed ancora nel mese di aprile del 1860, l'ultimo Sindaco di Canicattì borbonica, barone Gaetano Bartoccelli, dichiarava in diverse circolari indirizzate all'Intendente Vanasco che l'ordine e la tranquillità regnavano nel paese[37] . Ma ancora per pochi giorni: l'11 maggio, Garibaldi col suo seguito di "fratelli" sarebbe sbarcato a Marsala. Bande armate di "picciotti" gli avrebbero dato man forte per la riuscita dell'ardua impresa[38] .


4 - La lotta dell'opposizione massonico-sicilianista al brigantaggio durante i governi della destra storica

Tutto e nulla era cambiato con l'unità della Nazione e i briganti tornarono a riorganizzarsi in agguerrite bande armate. Ancora una volta queste "nacquero da un comune bisogno: la protesta brutale e selvaggia della miseria" e il clero "non indugiava a incitare al brigantaggio anche dal pergamo[39] .
Capostipite e vero cavallo di razza del grande brigantaggio post-unitario è ormai unanimemente considerato Angelo Pugliese, detto don Peppino il Lombardo, di origine calabrese e siciliano di adozione. Il suo erede fu Alberto Riggio, che operò nel territorio di Girgenti. Uscito di scena, il bastone di comando passò al suo aiutante in campo Vincenzo Capraro di Sciacca. La mattina del 28 settembre 1875, Capraro rimase ucciso in un sanguinoso conflitto con gli agenti di P.S. e i Militi a cavallo. La guida della superstite e rinnovata banda Capraro passò a Gaudenzio Plaja. Ma l'autorità del nuovo capobanda non fu riconosciuta dal suo socio Domenico Sajeva di Favara, che decise di formare un suo gruppo composto da otto elementi.
La banda Sajeva pare fosse ben tollerata nel territorio di Favara: "I loro reati - dichiarò il colonnello comandante della zona militare di Girgenti - li consumano nei comuni di Grotte, di Racalmuto e Canicattì, sino a Licata e Girgenti, ma quei di Favara non li toccano, o se toccano qualcuno di Favara é per fare vendetta per conto di Tizio e Sempronio[40] . La nuova promessa del brigantaggio siciliano poteva avvalersi di prestigiose quanto insospettabili coperture e di "siti" e "ville" signorili che, in quasi 2 anni (ottobre 1875 - giugno 1876), gli permisero di portare a termine una sequenza impressionante di delitti. Secondo lo storico Salvatore Bosco, "l'amicizia di signori facoltosi ed influenti" di Favara (il barone Antonio Mendola e il sacerdote Cibella) e di Agrigento (il marchese Salvatore Specchi e il Barone Celauro) consentiva al Sajeva di trovare "un sicuro asilo ove nascondere la propria banda, le armi e le cose rubate[41].
Questo brigantaggio così coperto, organizzato, diffuso e violento, che come araba fenice rinasce continuamente dalle sue stesse ceneri, suscita degli interrogativi: quale realtà sociale ed economica lo produceva? Quali soluzioni adottarono il governo, l'opposizione e le classi sociali interessate alla sua sconfitta? Tennero conto le forze politiche e sociali della lezione della storia? Delle risposte si possono trovare ripercorrendo gli anni turbolenti della Sicilia nell'età della Destra storica.
Nei primi tre lustri unitari, l'area agrigentina dello zolfo - secondo le inchieste di Franchetti e Sonnino, del Parlamento e del prefetto Giorgio Tamajo - era una realtà sociale di miseria, ignoranza e violenza: il tasso d'analfabetismo era altissimo (dagli iscritti nella lista di leva della classe 1860 risulta che Favara aveva 133 analfabeti su 172, Aragona 137 su 161, a Racalmuto 124 su 142, a Canicattì 183 su 222). Fanciulli e giovani lavoravano nelle miniere in condizioni sub umane (a Favara 75 su 184 iscritti alla leva esercitavano il mestiere di zolfataro, ad Aragona 64 su 175, a Racalmuto 152 su 90, a Canicattì 11 su 282). Le miniere erano "covi di delitto, e spesso ricettacolo alla gente della più triste specie[42] . I minatori, nei periodi di crisi delle zolfare, trovavano un'alternativa nell'attività criminale organizzandosi in bande di briganti: "tanti che non lavorano - dichiarò un proprietario alla Commissione d'Inchiesta - si mettono assieme in quattro, cinque giornalieri: di estate fanno furti di campagna, e d'inverno vanno ad assassinare[43].
In questa realtà socioeconomica la diffusione del brigantaggio fu tale da diventare una quotidiana urgenza non solo per i magistrati e le forze di polizia, istituzionalmente addetti alla sua repressione, ma anche per i rappresentanti degli enti locali (i prefetti, emanazione del potere statuale centralista, e i sindaci, cui erano delegate funzioni di ordine pubblico) e per il ceto politico. La questione dell'ordine pubblico fu affrontata in particolare dagli esponenti politici più rappresentativi della provincia: Vincenzo Macaluso[44] e Salvatore Gangitano (Canicattì), Saverio Friscia (Sciacca), Luigi La Porta[45] (Girgenti), Antonio Riggio (Cattolica Eraclea), Giusepe Cafisi (Favara), Gabriele Colonna Romano duca di Cesarò (Aragona), Domenico Riolo (Naro), Gaspare Matrona (Racalmuto). Si trattava di un ceto politico, impregnato d'ideologia sicilianista[46] e in cui "prevalevano gli elementi massonici", che si era formato in parte nei decenni della cospirazione risorgimentale[47] . Buona parte di questi politici - come vedremo più avanti - pur invocando una legislazione statale volta allo sviluppo economico della Sicilia, subordinarono la questione sociale alla soluzione del problema dell'ordine pubblico. La loro idea di sviluppo consisteva essenzialmente in una generica dichiarazione di progresso volto alla difesa degli interessi del ceto proprietario cui appartenevano e di cui erano espressione elettorale e politica.
Solo una piccola parte di loro si pose la questione sociale, ma in termini meramente mutualistici. Agli inizi degli anni settanta, a Canicattì il repubblicano Macaluso, il liberale Gangitano e l'internazionalista Nicola Narbone (con obiettivi evidentemente diversi) avviarono i primi tentativi, mal riusciti, di organizzazione proletaria di mutuo soccorso[48] . Qualche anno prima, una parte dei democratici, fra cui il Narbone, aveva aderito al movimento internazionalista anarchico e posto per la prima volta con Friscia e Riggio la questione dell'emancipazione delle classi subalterne in termini politici. Delineati, nei tratti essenziali, il fenomeno, la realtà socioeconomica che lo aveva determinato e le forze interessate a risolverlo, si tratta ora di conoscere come queste forze si mossero per affrontarlo fin dai giorni delle grandi speranze della dittatura garibaldina.
Caduta la monarchia borbonica, i primi atti di Garibaldi furono l'abolizione della Gendarmeria a cavallo e l'istituzione (con decreto dittatoriale) dei Militi a cavallo cui fu affidata la repressione della criminalità.
Alla fine del 1861, la situazione dell'ordine pubblico si presentava apparentemente calma, in realtà uno stato di profondo malessere sociale serpeggiava specialmente nell'area dello zolfo, la più difficile e delicata di tutta la provincia. Ottimista era invece la relazione del Governatore della Provincia di Girgenti, inviata il 21 settembre al Luogotenente del Re[49] . In effetti, dallo "Stato dei reati" del 1861 in provincia di Girgenti, si evince una situazione di relativo ordine sociale: Canicattì, Grotte e Favara nessun reato e "spirito pubblico tranquillo", Racalmuto due reati e spirito pubblico tranquillo[50]. Fin dai primi anni post-unitari l'area attorno a Canicattì era infestata di briganti dediti alla grassazione e al sequestro di persona. Racconta Angelo La Vecchia che, a causa della coscrizione obbligatoria, "molti bravi giovani, i figli delle famiglie più povere, coloro che non potevano essere nascosti e protetti nei campi dei proprietari o nel feudo della Mafia, diventavano briganti[51]!" . Attorno al 1863, fra questi si distingueva il temibile Giuseppe Tulumello di Racalmuto, dedito principalmente alle rapine. Di fronte a questa situazione d'insicurezza sociale lo Stato reagì adottando la soluzione militare.
Il 17 aprile 1863, l'onorevole La Porta presentò un'accorata interpellanza parlamentare al ministro dell'Interno sullo stato della sicurezza della provincia. Egli riteneva che la sicurezza pubblica si dovesse riordinare e ricostituire "con un personale il quale abbia l'energia necessaria ed il prestigio indispensabile per l'esercizio di quella missione che è la più sacra per la vita e la proprietà dei cittadini". L'onorevole non precisa chi doveva essere questo prestigioso personale, ma riguardo "all'amministrazione delle provincie" auspica che "siano chiamati uomini i quali conoscano le condizioni di quel paese e sappiano apprezzare i difetti e i grandi pregi di quelle popolazioni[52] . Se ne potrebbe dedurre che l'ordine pubblico in Sicilia dovesse essere affidato ai siciliani stessi, e cioè all'aristocrazia e alla borghesia, le uniche in grado di gestirlo e le uniche ad essere gravemente danneggiate dal diffuso brigantaggio, denunciato peraltro dagli stessi elettori di La Porta.
Intanto, in seguito alla applicazione della legge piemontese sulla coscrizione obbligatoria alla Sicilia, i renitenti alla leva che andavano ad ingrossare le bande di briganti erano tantissimi, cosicché il 25 aprile del 1863 iniziarono le azioni militari contro briganti e renitenti, condotte dal Generale Govone. Il 5 novembre, si conclusero le manovre militari e, a dicembre, il generale relazionò in Parlamento sulla missione militare dichiarando che "la Sicilia non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà". Per tale operato ed idee il Govone fu promosso luogotenente generale. Era il colmo e l'opposizione democratica, di fronte ad una così palese offesa all'onore della Sicilia, reagì duramente. Il primo a protestare dimettendosi da deputato fu Giuseppe Garibaldi, Gran Maestro del Supremo Consiglio del Grande Oriente di Palermo, seguito da uno stuolo di deputati massonico-democratici. Ma la repressione militare di Govone non riuscì ad estirpare il brigantaggio, che era di continuo alimentato dal persistente malessere socioeconomico.
Di fronte all'escalation criminale l'opposizione liberale e democratica si servì di diversi giornali, il "Precursore" (Palermo), "L'Operajo" (Agrigento), il "Progresso effettivo" (Favara), come strumenti di denuncia e di lotta al brigantaggio e al governo, ritenuto responsabile del disordine pubblico. Finanziata dal marchese on. Giuseppe Cafisi, il 7 settembre 1867 iniziò a Favara la pubblicazione del "Progresso Effettivo", una gazzetta ebdomadaria di ispirazione liberale e monarchica. Fin dagli esordi il giornale si preoccupò di rompere l'isolamento prima locale e poi regionale e nazionale attraverso una fitta rete di corrispondenze con Canicattì, Racalmuto, Grotte, Naro, Castrofilippo, Ravanusa, Girgenti, Catania, Firenze. Sulla questione scottante dell'"eterno brigantaggio" e dell'ordine pubblico i redattori denunciavano: "La sicurtà (del galantuomo) sparita, qui nel Mezzogiorno: malsicure le campagne, perigliose le strade, accessibili gli abitanti e le città all'assassino, malgrado il lusso d'infiniti guardiani e processanti". Sulle responsabilità e le soluzioni si asseriva: "Non accusiamo soltanto le povere plebi; accusiamo un po' tutti, e pensiamo tutti i rimedi". La sua cronaca settimanale è piena zeppa di atti criminali: omicidi, grassazioni, assalti a mano armata, scontri a fuoco con le forze dell'ordine, abigeati, ecc. Già il primo numero riporta una serie di recenti delitti contro le persone e le cose fra cui quello "commesso in Canicattì a danno del barone Agostino Lalomia, a cui fu involato un ricco servizio di argento, penetrando i ladri dall'ultimo piano del palagio ed aprendosi un varco alla tettoia; due altri assassinii consumati nel cuore del Comune nel breve periodo di cinque giorni; per cui un povero contadino ed un infelice operaio Scrimali e Fama cadevan freddati da parecchi colpi di fucile e crivellati dal pugnale con tale ferocia da far rabbrividire. Eppure Canicattì piuttosto ha goduto di una certa tranquillità: i malfattori pareano avviliti e l'Autorità balda e fidente; ma deh! mutarono le sorti[53]..." . Ma la soluzione, coerentemente con la storia passata e con le recenti posizioni del barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro e dell'avvocato Macaluso, degli onorevoli La Porta e Cafisi, veniva affidata più che alle istituzioni dello Stato, per la sfiducia che si nutriva nelle forze dell'ordine e nella magistratura, alla autodifesa armata attraverso polizie private.
Il Chiaramonte Bordonaro, che a Canicattì aveva notevoli interessi poiché nel 1819 la sua famiglia aveva ereditato dai Bonanno la baronia di Canicattì (e con essa la lotta al brigantaggio), della sua scorta armata non ne faceva mistero, lo scrisse, infatti, in una sua lettera di protesta indirizzata al ministro Lanza: "Un anno fa bastava per garantirsi personalmente, la scorta di pochi armati, mentre oggi occorrono intere bande di bravi ad uso medioevo; che prima si ricattava ed or si ricatta e si uccide; che in altri tempi il delitto cercò favore nelle tenebre ed oggi sfida impunemente la luce del sole. Onde si ribadisce sempre più la convinzione che ogni cittadino debba provvedere da sé alla personale sicurezza, come al bando d'ogni civiltà[54] .
Gli fece eco il Progresso Effettivo: "Avete tolto le armi alle persone dipendenti dal signor Dulcetta, onesto e cospicuo proprietario di Favara, che colle sue grandi coltivazioni dà pane a migliaia di operai. E giusto ier l'altro furongli rubate tre mule, e la guida inerme, datasi alla fuga, poté per miracolo salvar la vita dalle schioppettate! Lasciate per Dio! che si possa almeno difendere da se stesso il cittadino, se, malgrado la corrisponsione delle imposte, non può sperare nella difesa sociale [...]. E' troppo chiara la recrudescenza dell'inquietezza pubblica in Favara e nel d'intorno[55] .
Qualche anno dopo, intorno al 1870, a Favara i fratelli Calogero e Giuseppe Sanfilippo Rinelli, due piccoli proprietari disturbati dalle scorrerie dei briganti, "formarono quella specie di mafia" chiamata Cavalleria[56], che alcuni anni dopo confluirà nella prima organizzazione mafiosa a carattere provinciale dell'agrigentino, i cui centri nevralgici erano Favara, Agrigento e Canicattì[57].
Un altro caso emblematico è quello dei fratelli Matrona di Racalmuto, i quali credettero opportuno curare anche loro il male con il metodo omeopatico del similia similibus curantur. Poiché da tempo il territorio di Racalmuto era infestato dalla presenza di briganti, il 4 dicembre 1873 le vittime, l'avvocato Gaspare Matrona, sindaco del Comune, e i suoi fratelli, utilizzando persone al loro servizio e attribuendosi arbitrariamente funzioni di pubblica sicurezza, ripulirono il territorio dai briganti e per ciò ricevettero delle medaglie d'oro dalla Giunta locale. Anche un'alta autorità dei RR.CC., il colonnello comandante della zona militare di Girgenti, ne tessé sfrontatamente le lodi: "Racalmuto era un paese tristissimo dove tutti i giorni succedevano reati di sangue, furti e grassazioni. Questi cinque fratelli [Matrona] si sono messi d'accordo e hanno detto - non vogliamo più questi delitti -; montavano a cavallo armati fino ai denti, ed in pochissimo tempo hanno reso quel paese il modello non solo della Sicilia ma anche del continente. Sulla strada per andare a Canicattì o a Caltanissetta troveranno un bel palazzo dove ci sono scuole, locale per carabinieri, telegrafo, teatro; insomma hanno fatto di quel paese qualche cosa di buono[58] . In tempi relativamente recenti è stato Leonardo Sciascia a tessere gli elogi ai Matrona, alimentando così un mito che ancora resiste fra i racalmutesi. L'elogio andava in particolare a Gaspare Matrona, sindaco di un "comune amministrato con tanta dedizione, coraggio e generosità che il colonnello propone a modello non solo della Sicilia ma dell'Italia intera. E si capisce che nel giro di mezzo secolo i Matrona furono poveri, sicché fu facile ai loro avversari batterli: col conseguente effetto di un ritorno del malandrinaggio, della mafia, delle usurpazioni e prevaricazioni[59]. D'altra parte, come denunciava La Porta, lo Stato, eccetto qualche raro successo come l'arresto, nel 1869, del capo banda Riggio, non riusciva a garantire neppure una parvenza di legalità (è l'anno in cui a Canicattì tre banditi uccidevano per derubarlo il padre francescano Serafino La Vecchia), e per riportarla proporrà nel 1874 non la presenza e l'affermazione delle leggi dello Stato, bensì il rafforzamento degli "zelanti" militi a cavallo e la loro guida da parte dell'aristocrazia fondiaria. Era la linea politica del "far da sé" di un coerente sicilianista. Su quest'ibrido corpo di polizia (legale sulla carta, ma nei fatti malavitoso) si era soffermato, con opinioni diverse da La Porta e senza gli "enigmi" che assillavano Viollet Le Duc, l'avvocato Macaluso. Fin dal 1861, l'avvocato aveva denunciato i tanti errori e le incomprensioni del giovane Governo italiano nei confronti della Sicilia e su quella linea condurrà diverse battaglie politiche[60] . Egli, nella lotta al brigantaggio siciliano, si avvalse della notevole esperienza accumulata nel 1967, quando, in qualità di sottoprefetto di Lagonegro, "in testa alla guardia Nazionale e alla truppa regolare, eseguiva delle perlustrazioni, sormontando valli e monti a piedi per essere di eccitamento agli altri, premuroso com'era della distruzione del brigantaggio. Tutto ciò in un mese[61]. Deludente fu, invece, l'impegno del governo nell'estirpazione del brigantaggio siciliano, anche per l'inquinamento delle forze preposte a combatterlo: e Macaluso non mancò di denunciare inefficienza e compromissioni.
Il 28 novembre 1869, in un lungo e appassionato appello agli elettori di Canicattì, egli denunciò ancora il Governo, ritenuto responsabile primo dei mali che affliggevano la Sicilia: "La Sicilia non ha più nome. Ogni ladrone vi dice la sua, ma non si astiene dal rubarla. Vengono nudi e pezzenti e ripartono colle azioni sulla banca camorristica - Ecco i detrattori della Sicilia[62]. Sul Giornale "La Pietra" del 10 maggio 1871 parlò addirittura di "Mafia ufficiale", del Governo che "mantiene e protegge quella aborrita istituzione dei Militi a cavallo", della "autorità pubblica che "scende a patti e non isdegna associarsi con i grassatori, coi ladri, cogli assassini[63]. In un suo scritto del 1872 Macaluso si soffermava ampiamente sulla pericolosità dei militi a cavallo, sui loro protettori e sulle relative colpe del Governo: "I militi a cavallo, impasto di ergastolani e di assassini in trionfo, non daranno che furti in permanenza; e tutto il sistema governativo, modellato in Sicilia sul tipo dei militi a cavallo, non sarà che quel che si manifesta da per tutto, causa permanente di proditorii a danno dell'onesto cittadino e della società intiera! Se è così la faccenda pubblica, come non può mettersi in forse chi non vede ove stia e donde provenga la vera causa del permanente sociale disordine? E chi non si persuade ch'è matematicamente impossibile sperar mai sicurezza e tranquillità in Sicilia? Io scrivo in una provincia, ove non evvi cittadino che non sappia il suo doloroso racconto di fatti avvenuti sotto i propri occhi! Io scrivo in mezzo ad un popolo che ha visto cadere sotto il pugnale dell'assassino impunito i più probi ed esemplari cittadini! Ci accusino nel continente di esagerati o di barbari; ma sillaba di Dio giammai non si cancella! La mafia è padrona da per tutto del campo in Sicilia, e lo stesso governo, se non per complicità per codardia, ne subisce le sue leggi di sangue. Per opera della mafia abbiamo il furto in trionfo; per opera della mafia abbiamo la fustigazione e la tortura in trionfo! [...] Perché i militi a cavallo trovano più difensori fra le persone che circondano il ministro dell'interno[64]?" . Ed ancora, due anni dopo, in una lettera insisteva sull'argomento: "I più famigerati assassini e traditori, furono reclutati nell'ormai famoso Corpo dei Militi a cavallo, ironicamente inteso dei "briganti purificati", che la Sicilia subisce e gli italiani sono violentati a nutrire sul lauto banchetto del bilancio dello Stato[65].
In questa paradossale realtà, secondo i proprietari non restavano che due soluzioni alternative: o avere assegnata la direzione dei militi o continuare sulla strada dell'autodifesa illegale. Con tutti i rischi che questa seconda strada poteva comportare. Le risposte antitetiche del Governo e della opposizione massonico-sicilianista alla insostenibilità dell'ordine pubblico sarebbero arrivate da lì a poco.


5- La sinistra storica al governo smantella temporaneamente il brigantaggio

Fin dal 1867 una parte della Sinistra storica era insoddisfatta del quadro politico-partitico parlamentare che, dirà l'on Lazzaro, nel 1870 si presentava come "un immenso straordinario e sempre oscillante centro". Da qui l'esigenza di una nuova formazione politica di cui si fece promotore fratello De Sanctis coadiuvato da un "Comitato" formato dal fior fiore della massoneria, fra cui il La Porta e il Duca di Cesarò[66] . Il resto della Sinistra storica si coagulò attorno ai massoni Crispi e Nicotera, provocando così una spaccatura nel fronte della sinistra massonica meridionale. Il manifesto programmatico del nuovo "partito" includeva fra le priorità la questione dell'ordine pubblico. Tale priorità e la presenza dell'opposizione meridionale nella nuova aggregazione c'induce a pensare che quest'opposizione avesse il beneplacito di una parte importante della massoneria o che i Templi nazionali fossero state luoghi di incontro, discussione, mediazione e progettazione politica di grande rilevanza. La prima verifica della forza elettorale del nuovo gruppo furono le elezioni politiche dell'8 novembre 1874. Elezioni che in provincia di Girgenti furono tormentate prima da illecite pressioni politiche sull'elettorato e dopo dall'omicidio del narese Torriceli, in cui fu coinvolta la Destra ministeriale e la Giovane Sinistra agrigentina.
Dopo le tormentate elezioni dell'otto novembre, nell'agosto successivo, il ministro dell'Interno Cantelli, in una lettera inviata all'onorevole La Porta, respingeva le proposte da quest'ultimo formulate, dichiarando che non fosse "ancora esaurita la serie dei provvedimenti coi quali si opera all'applicazione delle leggi ordinarie" e che se "tutti i mezzi che la legge poneva a disposizione del governo si fossero chiariti insufficienti, non avrebbe esitato ad incontrare quella maggiore responsabilità che le circostanze e l'obbligo gli richiedevano". Cosa che avverrà con la disposizione delle nuove "Istruzioni per il servizio del malandrinaggio in Sicilia" del 1° settembre '74 e con il decreto 10.9.1874 del Consiglio dei ministri, che affidava il coordinamento delle forze militari e di P.S. della Sicilia alla direzione del "Comando Generale delle Armi" di Palermo.
A novembre, il governo inviò inoltre in Sicilia, come ispettore, Luigi Gerra. Questi, però, fu contestato dai proprietari siciliani e dallo stesso La Porta, in quanto la presenza di un funzionario dello stato "avrebbe potuto minacciare molti interessi consolidati". "A questo punto - nota lo storico Giuseppe Carlo Marino - mutò di colpo l'atteggiamento dei "proprietari" e della classe sicilianista che pure [...] aveva lamentato con insistenza e persino con pedanteria, la debolezza dell'azione governativa[67] . Le leggi eccezionali, insomma, "mirando ad estirpare il brigantaggio, avrebbero potuto nel contempo ridurre la influenza dei ceti possidenti e della mafia, ed eliminare dal giuoco il dubbio apporto dei militi a cavallo[68] . "É questo il momento che nella storia sicula va sotto il nome dell'opposizione mafiosa, il momento cioè in cui, se non si fonda il potere politico della mafia, certamente lo si collauda vittoriosamente[69] .
Nello stesso mese il duca di Cesarò pronunciò ad Aragona un discorso antigovernativo dai toni molto accesi, e quando il 5 dicembre fu presentato in Parlamento il progetto di legge del governo sulle misure straordinarie d'ordine pubblico si distinse per la sua veemenza nel dibattito parlamentare, favorito in ciò dalle petizioni presentate dai cittadini di numerosi comuni siciliani: da Girgenti a Mistretta, da Prizzi a Trapani. Per tutto il primo semestre del '75 la stampa di area massonica (repubblicana e liberal-progressista), con in testa "La Lince" e "Il Precursore", martellò insistentemente contro i Provvedimenti di P.S, sostenendo "l'inopportunità delle leggi eccezionali" e in particolare "la necessità che il servizio sia affidato a persone del paese": "chi oserebbe dar colpo alla Sicilia intera delle azioni di pochi individui, sol perché il governo non ha voluto capire una buona volta che le persone addette alla sicurezza pubblica debbono conoscere i luoghi, il dialetto e le persone, e che quindi debbono essere siciliane esclusivamente[70]?" .
Un atto rilevante dell'opposizione (variamente definita e definibile: democratica, meridionale, sicilianista, mafiosa, massonica) fu la "Petizione alle Camere legislative d'Italia sui provvedimenti straordinari" sottoscritta e trasmessa dal bar. Nicolò Turrisi Colonna, dal prof. Simone Cuccia, dall'avv. Camillo Finocchiaro-Aprile e dal prof. Andrea Guarneri. Le invettive antigovernative si facevano sempre più frequenti e di una violenza verbale inusuale da parte di Crispi, Cesarò, Rasponi, Morana, Paternostro, La Porta, ecc. La stampa amplificava con frequenti e lunghi articoli la montante protesta; "Il Precursore" pubblicò addirittura fitte pagine di verbali delle sedute parlamentari: significativo è l'articolo dal titolo "Il brigantaggio governativo". Nonostante venisse respinto da tutta la sinistra meridionale, il 9 giugno 1875 la Camera approvò il progetto di legge sui provvedimenti straordinari di P.S. per la Sicilia.
Nella seduta parlamentare del 12 giugno, in un crescendo che pareva senza fine, il Cesarò, che in quanto proprietario non nascondeva un interesse personale in quella battaglia, parlò in particolare della situazione in provincia di Girgenti, soffermandosi sui covi dei briganti, sui difetti dei militi a cavallo e delle truppe regie, e ancora sulle responsabilità esclusive del Governo. Oltre che movimentare il dibattito parlamentare, provinciale e comunale, inviare petizioni, e utilizzare la stampa, il baronato politico mobilitò perfino la massoneria. Sarà il ministro dell'Interno a comunicare il 27 giugno al prefetto di Palermo che le logge avevano pregato Garibaldi di venire in Sicilia poiché qui "gli animi erano molto agitati per la temuta prossima esecuzione di provvedimenti eccezionali" e che il loro "fratello" avrebbe risposto affermativamente[71].
Il 18 marzo 1876, lacerato da contrasti interni, il governo Minghetti fu battuto in parlamento dal voto contrario dell'eterogenea opposizione. Il Re chiamò al governo il capo dell'opposizione, il massone Depretis, che ebbe come ministri uomini di fede massonica come Nicotera, Zanardelli ed altri. Le elezioni politiche di novembre, nonostante le indebite pressioni del governo sui prefetti (omicidio Torricelli), sanzionarono la svolta di marzo, la Sinistra ottenne, infatti, il 70% dei suffragi: era anche la vittoria del programma moderato del notabilato dell'area agrigentina dello zolfo, che festeggiarono con "musica e bandiere" la vittoria di Depretis, di Zanardelli, di Nicotera, di Crispi, di La Porta, del Duca di Cesarò e di Giorgio Tamajo.
La Sicilia aspettava alla prova dei fatti la Sinistra storica nella sua volontà di cambiamento denunciata per tre lustri, specialmente nella soluzione dell'ordine pubblico e nello sviluppo economico. E qualcosa (di effimero) avvenne.
Uno dei primi atti fu l'abolizione degli odiati Militi a cavallo, sostituiti con il R.D. 27/3/77 dalle guardie di pubblica sicurezza a cavallo: un atto che avrà fatto sommo piacere al nostro Vincenzo Macaluso.
Nel 1878, iniziò a Palermo il processo ad uno fra i più famigerati briganti siciliani, il favarese Domenico Sajeva e ai suoi gregari e manutengoli. Gli avvocati di questi ultimi erano riusciti con un'abile mossa a far separare il processo dei loro clienti da quello dei briganti, nel tentativo di recuperarne l'immagine agli occhi della Corte e quindi averne l'assoluzione o almeno pene ridotte. Di ciò si accorgerà il Prefetto di Palermo, che informò al ministro Depretis. Sajeva fu processato e condannato all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Palermo. I manutengoli Celauro e Trainiti ebbero invece pene meno severe.
Il processo Sajeva fu accompagnato da processi altrettanto importanti a bande di briganti sia della Sicilia occidentale (processi di Corte d'Appello di Palermo) che della Sicilia orientale (processi di Corte d'Appello di Catania), che si conclusero tutti con pesanti condanne. Essi rappresentarono la sconfitta momentanea del brigantaggio. "Il brigantaggio classico è finito definitivamente" scriverà, infatti, il commissario Alongi, ma non la mafia in guanti gialli che ne era uscita più o meno indenne.
Il persistente malessere sociale di una economia non più feudale ma latifondista produrrà da un lato una nuova generazione di briganti, tra i quali Giuseppe Salamone e Benedetto Grillo entrambi di Barrafranca[72], Melchiorre Candino, Francesco Paolo Varsalona, Salvatore Agliata di Canicattì, Paolo Grisafi di Caltabellotta ecc., dall'altro il primo movimento contadino siciliano: i fasci dei lavoratori. A Canicattì il movimento, guidato da Gaetano Rao, conobbe momenti di grande entusiasmo organizzativo e di lotta.


6- La Primula Rossa del brigantaggio canicattinese: Salvatore Agliata detto Gallo

Il nuovo secolo, che si apriva sul piano nazionale all'esperienza giolittiana, presentava a Canicattì una situazione relativamente migliorata: "Le condizioni della popolazione, data l'aumentata istruzione, sono migliorate di molto, quantunque in generale gl'istinti primitivi non sono ancora totalmente domati. In un impeto d'ira il canicattinese dimentica tutti i buoni propositi e commette reati di sangue. Frequente il pascolo abusivo e piuttosto rari i furti (consumati d'ordinario durante i periodi di disoccupazione o di carestia). Da alcuni anni le statistiche giudiziarie segnano una notevole diminuzione de' reati in genere[73] .
Fra il 1904 e il 1914, uno straordinario funzionario dello Stato inizierà in Sicilia, a Castelvetrano, la sua carriera nella Pubblica sicurezza: Cesare Mori. Promosso vicequestore per meriti nella lotta alla mafia e trasferito agli inizi del 1915 a Firenze, ritornò nel maggio del 1916 per la seconda volta in Sicilia: in quel mese Salvatore Agliata cadeva nelle mani delle forze di polizia, mentre il suo socio Grisafi organizzò una nuova banda. Gallo, conosciuto per le sue efferatezze, batteva la campagna da diversi anni praticando l'abigeato e l'estorsione, uccidendo e facendo scempio dei cadaveri, trescando con la mafia. A trentotto anni il temerario bandito terminava la sua carriera criminale con numerose condanne per iniziare la vita di ergastolano nelle dure carceri dell'Ucciardone di Palermo[74].
Mori ritornò in Sicilia nel 1920 a dirigere il servizio speciale per la repressione della delinquenza: quella secolare del brigantaggio e quella relativamente più recente della mafia. Fra i centri ad alta densità criminale c'era Canicattì: "Nel famigerato 1919 - scrive Candida -, le strade di Canicattì furono bagnate dal sangue di un impressionante numero di persone uccise a colpi di arma da fuoco o di pugnale. Quell'anno il paese registrò 109 omicidi e mezzo[75]…" . Era il periodo del grande risveglio sociale e sindacale, in cui le masse contadine occupavano le terre sfidando con il coraggio del bisogno e anche degli ideali gli agrari e i mafiosi. Nello scontro caddero tanti capilega, Alfonso Canzio a Barrafranca, Giuseppe Rumore e Nicola Alongi a Prizzi, e tanti altri[76] . In Parlamento l'on. Giovanni Guarino Amella, ex sindaco di Canicattì, denunciava, come in occasione della commemorazione di Nicola Alongi, il latifondismo e i latifondisti assenteisti che armavano la mano dei gabelloti e dei campieri per impedire con la violenza lo sviluppo della Sicilia. Da borghese democratico egli non accettava l'espressione borghesia mafiosa e non usò la parola mafia per indicare gli assassini di Alongi, però individuò con chiarezza nella divisione del latifondo e nello sviluppo di attività produttive la soluzione ai mali della Sicilia[77]. Nella sua Canicattì i contadini occuparono il feudo di Grottarossa, ma egli, sul giornale Il Fuoco da lui diretto, dissentiva per gli esiti negativi dell'iniziativa, mentre il giornale Falce e Martello, diretto dal socialista Domenico Cigna, metteva in risalto le giuste rivendicazioni contadine[78] . Chi preferiva occuparsi (in versi) della delinquenza comune, ma non della mafia agraria, era il giornale La Graccia; mentre il gen. Luigi Gangitano sul Dovere nuovo denunciava le condizioni che la favorivano: il buio della notte a causa della mancanza di luce elettrica[79]. Ecco i versi eloquenti della "Graccia[80] :

Quasi ogni notte in piazza Borgalino
si celebra la festa dei birbanti,
senza chitarra, senza mandolino,
senza messe cantate né cantanti:
solo il fragore di bombe e di mitraglia
fa divertire un mondo la canaglia.

Se voi per osservare, puta caso,
di casa vostra la finestra aprite,
vi sentite sferzare il mento e il naso
dal fischio d'una palla a balistite:
così la ridda dei delinquenti
vi invita a richiudere i battenti.

Sor delegato mio, che fate voi?
Che ne dite di questo baccanale?
Che ne dite di questi nuovi eroi
Da sega-circolare e da pugnale,
che sparando di notte e in tutte l'ore
ci tolgono la pace col terrore?




7 - Con il brigantaggio ai ferri corti

Nel 1924, Mori ritornò, la quarta ed ultima volta, in Sicilia nelle vesti di prefetto, incaricato da Benito Mussolini di combattere la mafia. Fra le operazioni da lui dirette e riuscite vi fu la cattura del brigante Paolo Grisafi e dei suoi uomini.
La notte del 26 gennaio 1927, le squadre del Prefetto circondarono il rifugio della banda Grisafi costringendola alla resa: era la fine della banda, ma non delle gesta criminali di Marcuzzo. Condannato a scontare la pena nel carcere dell'Ucciardone, rivide qui l'ex socio Salvatore Agliata, un incontro affatto piacevole a causa di loro "vecchi rancori". Marcuzzo, ricorda il Prefetto nel suo Con la mafia ai ferri corti, "procuratasi chissà come un'arma, uccideva a colpi di rivoltella il bandito Gallo[81].


8 - Epilogo - L'estinzione del brigantaggio

Nel secondo Dopoguerra, risorse un nuovo brigantaggio tinto di vernice politica che ancora una volta la mafia dei guanti gialli utilizzerà fino all'esaudimento dei suoi fini.
La ripresa delle attività banditesche furono denunciate da Giovanni Guarino Amella, primo sindaco di Canicattì dopo lo sbarco anglo-americano, nel corso del convegno delle rappresentanze comunali e provinciali tenuto a Palermo fra maggio e giugno del 1944:

"Oggi c'è per noi un problema contingente urgentissimo: stroncare la ripresa della delinquenza che sta paralizzando tutta la nostra attività agricola… i sequestri di persona nelle campagne: ben dieci sequestri nel giro di pochi mesi, per i quali le famiglie, dopo vari giorni di angosciose ansie, hanno dovuto pagare centinaia di migliaia di lire;
gli abigeati di interi armenti di buoi, di pecore e di maiali;
gli assalti in forza di fattorie, compiuti da bande di decine di persone, armate di bombe a mano e di fucili mitragliatori…
Tutto questo terrificante succedersi di sequestri di persone, di assalti di fattorie, di rapine e di violenze tiene tutti in allarme, e in molti paesi la vita cittadina si spegne nelle prime ore della sera e si esita anche di giorno ad aprire la porta a chi bussa e si rinunzia a vivere nelle casine di campagna e si teme di andare a sorvegliare o a dirigere i lavori campestri, poiché a nulla vale l'essere circondato da più persone di fronte a bande numerose armate di armi da guerra, che operano con grande audacia[82]".

Ancora una volta, come già nel lontano 1920, Guarino Amella non parlò di mafia, ma più riduttivamente di una semplice ripresa della delinquenza comune, né analizzò i rapporti fra le due manifestazioni criminali. Eppure Renato Candida scrive che "nel dopoguerra, e fino a tutto il 1955, vi sono state sistematiche eliminazioni di individui, uccisi nel tragico ciclo di lotta fra le mafie per il predominio nella conduzione delle terre e nello sfruttamento delle varie ganghe di abigeatari e ricattatori affiliati, dipendenti o controllati dalla mafia. Nel solo 1955, Canicattì, nella guerra fra gli appartenenti alle consorterie rivali, ha lamentato 8 assassinii e 11 tentativi di omicidio, quasi tutti effettuati in pieno giorno e nelle pubbliche e affollate piazze e strade del paese[83] . Nell'agrigentino gli atti di banditismo con assalti ai treni, conflitti a fuoco, estorsioni e rapine trovavano ampio spazio nella cronaca dei giornali: "Conflitto a fuoco tra un possidente di Canicattì con alcuni malviventi in contrada Vecchia Dama", "Rapinati viaggiatori diretti a Favara", "Cinquanta banditi assalgono il treno Licata-Canicattì" sono alcuni titoli apparsi sul "Giornale di Sicilia", rispettivamente il 25 agosto, il 3 e 20 settembre del 1945[84]. Chi, qualche anno dopo, parlò chiaro sul rapporto fra banditismo e mafia fu il senatore comunista Giuseppe Berti:

"La mafia genera nel suo seno incessantemente il banditismo e pretende di dirigerlo, di incassarne la maggior parte dei proventi; si parla del 50, del 60 e talvolta del 70%. Nondimeno vi sono tra queste due forme di degenerazione criminale della vita sociale siciliana delle contraddizioni che in certi particolari momenti diventano assai gravi. I banditi per loro stessa natura rischiano molto di più, hanno una vita molto più pericolosa e più dura e introitano di meno. Per di più dipendono interamente dai loro protettori mafiosi e dalle influenze politiche di cui godono i capi mafiosi[85].

La strage di contadini a Portella delle Ginestre del 1° maggio 1947, voluta nel pieno delle lotte per la riforma agraria dai latifondisti, dai padrini politici e dalla mafia ed eseguita materialmente dalla banda di Salvatore Giuliano, chiarisce limpidamente quale fosse il gioco delle parti degli avversari delle vittime innocenti.


Riflessioni conclusive

Il quadro storico che si è venuto via via delineando consente alcune considerazioni, non esaustive ma più che plausibili.
La durezza del carcere, l'adozione della pena di morte, le frequenti riforme degli organi di polizia, l'istituzione di polizie private, il pubblico ludibrio cui erano esposti i briganti avevano circoscritto ma non eliminato un fenomeno che aveva profonde radici nel terreno socioeconomico; radici che il viceregno spagnolo prima e la monarchia borbonica poi non avevano voluto recidere, né potevano recidere se non negando se stessi. La speranza quindi poteva risiedere solo in un cambiamento radicale della natura dello Stato. Cambiamento che avvenne nel 1861, ma che non realizzò le secolari agognate trasformazioni nell'economia e nella società. I governi dell'Italia liberale nulla fecero per risolvere i problemi della Sicilia, semmai li acuirono non vedendo nel brigantaggio la spia di un antico malessere sociale, ma sic et simpliciter un pericoloso problema di ordine pubblico da estirpare manu militari. Valida, in questa prospettiva, l'analisi sulle cause sociali del brigantaggio fatta nel 1878 da Pasquale Villari in Le lettere meridionali[86]. D'altra parte la classe dirigente isolana, espressione di un elettorato a base censuaria, rappresentò non gli interessi complessivi del popolo siciliano, ma quelli dell'aristocrazia e borghesia proprietarie, che mostrarono il loro volto nella protesta sicilianista del 1874, chiarendo così quale fosse la loro vera idea di progresso: la conservazione della grande proprietà terriera ed il controllo del territorio attraverso la gestione diretta dell'ordine pubblico[87] .
Riguardo al ventennio fascista, l'operazione Mori, per dirla con le parole di uno fra i primi attenti storici della mafia, "si svolse nelle forme tradizionali usate nella lotta contro il brigantaggio". "In complesso il risultato fu di liberare l'alta mafia, che aderì interamente al fascismo, mentre la nuova mafia fu tenuta sotto controllo e assunse un atteggiamento dormiente, per usare un termine delle associazioni massoniche, mentre un'altra parte entrava nelle file del partito fascista e continuava in tal modo ad esercitare una sua influenza diretta locale, attraverso le organizzazioni del partito[88] . Scrive Salvatore Lupo, citando documenti del periodo fascista depositati presso l'Archivio Centrale di Stato, che "nel '32 nel centro di Canicattì, vengono consumati tre omicidi "le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti" rimandano a "delitti tipici di organizzazioni mafiose"": ogni commento è superfluo.
Mutate le condizioni storiche (boom economico degli anni cinquanta, emigrazione di massa[89] , spostamento degli interessi mafiosi dalla campagna alla città, dall'abigeato alla speculazione edilizia e alla droga) che lo avevano prodotto ed esaurita la sua funzione, il brigantaggio si estinguerà definitivamente.

Ciò che in estrema sintesi emerge da quest'excursus storico è che il brigantaggio nasce come reazione primitiva e individuale di una società contadina affamata e oppressa da baroni e dominatori stranieri, e che dagli inizi dell'Ottocento finirà per essere strumentalizzato dalla mafia; mentre il mondo contadino, a partire dai Fasci, perseguirà per il proprio riscatto la strada della lotta collettiva e dal suo seno nascerà il primo movimento antimafia della storia della Sicilia.


NOTE ESPLICATIVE E BIBLIOGRAFICHE :

[1] F. Braudel, Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, 1976, vol. II, p. 784.
[2] Diodoro Siculo, La rivolta degli schiavi in Sicilia, Sellerio editore, Palermo, 1983, pp.13-15.
[3]A. Arnone, Mito, storia e toponomastica nel territorio di Favara, Favara, edizioni Medinova, 1997, p. 98.
[4] T. Mercadante Carrara, La delinquenza in Sicilia nelle sue forme più gravi o specifiche (Relazione al I Congresso nazionale contro la delinquenza e l'analfabetismo - Girgenti 21-25 maggio 1911), Palermo, 1911, pp. 54-56.
[5]D. Lodato - A. La Vecchia, La città di Canicattì, Papiro editrice, Enna, 1987, p. 45.
[6]ASP, Real Segreteria, incartamenti, filza 145, cit. in D. De Gregorio, La Chiesa agrigentina, vol. III, Agrigento, 1998, p. 15.
[7]C. Valenti, Grotte. Origini e vicende storiche, Amministrazione comunale di Grotte - Assessorato alla cultura e alla pubblica istruzione, 1996.
[8]"I fratelli della Grazia o dei Bianchi - racconta il barone Agostino La Lomia - presero per tre giorni sotto la loro cura i sette condannati e li portarono in cappella per prepararli ad una Santa Morte, mentre i confrati degli Agonizzanti fecero un triduo a proprie spese, esponendo nella loro Chiesa il SS. Sacramento con prediche e concorso di tutto il popolo e misero nella piazza principale (oggi Piazza IV Novembre) lo stendardo della confraternita come monito e come foriero della imminente esecuzione. […]. Così si amministrava la giustizia a quei tempi, la coreografia, i neri cappucci, i lugubri rintocchi, le pubbliche esecuzioni servivano da esempio e venivano poi tramandati i fatti e i particolari dalle generazioni che temevano e ubbidivano alla autorità costituita. Il boia, venuto da Palermo al seguito del Vicario Regio, esegui le sentenze dando la precedenza agli inforcati che furono tre addì 5 maggio 1727 e strangolandone quattro addì 7 maggio 1727. I corpi dei giustiziati furono sepolti nella Chiesa di S. Calogero. Masciu Caloriu Bichino, [trasportatore di cadaveri e artigiano scultore], iniziò poco dopo il suo paziente e originale lavoro, invase la terra di Canicattì di Cristi ossei, ricavati preferibilmente dagli arti inferiori, Cristi che da vero artista regalava agli abbienti e ai devoti del culto dell'Armi Santi Decollati. (Cfr. Fausto di Renda (A. La Lomia), Le anime dei corpi decollati, in "L'Illustrazione Siciliana", a. VII, n. 3-4, Palermo, marzo-aprile 1954.
[9]Villabianca, I banditi di Sicilia, Palermo, Edizioni Giada, 1988, pp. 62-65.
[10] V. Linares, Racconti popolari siciliani, vol. I, Palermo, Editrice Reprint, 1994, p. 146. Con Linares, che si rifà in parte al Villabianca, le gesta trasfigurate di quei banditi diventano, nel 1840, il romanzo popolare Il masnadiere siciliano, che Luigi Capuana bollerà come "saggio primitivo, incerto, impacciato", giudizio in parte condizionato dalla sua interpretazione del brigantaggio, espressione di un delirante sicilianismo acritico (L'Isola del sole - La Sicilia e il brigantaggio, Palermo, 1977).
[11] I banditi. Il banditismo sociale nell'era moderna, Einaudi, 1971, p. 12. Sul "bandito classico tipo Robin Hood quale esisteva in Sicilia" cfr. H. Hess, Mafia, pp. 11-12. Nel saggio L'Isola del sole il Capuana, pur respingendo la leggenda di un brigantaggio siciliano alla Robin Hood, considera credibile la figura di Testalonga come "brigante positivo". Chi considerò, sulla scia del Sedita, un Robin Hood il Testalonga, trasfigurandolo in leggendario eroe positivo, fu la tradizione popolare, di cui è stato interprete Ignazio Buttitta: "Lu Ninu Testalonga a ddi poviri dicia: "Iu levu a chiddi ricchi, ch'hannu la barunia"".
[12] V. F. Sedita, Avvinturi di Ninu Di Blasi, alias Testalonga, latru celibri ni la Sicilia, a cura di S. Mamo, Cianciana, 1912.
[13]F. Nicotra, Dizionario illustrato dei Comuni siciliani - Canicattì (monografia), Canicattì, Emporio "Trinacria", 1908, p. 77; disponibile presso la Biblioteca Comunale di Canicattì (BCC).
[14]Villabianca, op. cit., pp. 65-68.
[15]R. Candida, Questa mafia, S. Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1956-'83, p. 61.
[16]G. Fiume, Le bande armate in Sicilia (1819-1849), Palermo, 1984.
[17]G. Alongi, La mafia, Sellerio editore, Palermo, 1977, pp. 72-73.
[18]T. Mercadante Carrara, op. cit. pp. 89-92.
[19]G. Picone, Memorie storiche agrigentine, Agrigento, Industria grafica T. Sarcuto s.n.c., 1984.
[20]Cfr. N. Colajanni, Nel regno della mafia. La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi, Palermo 1971, p. 49; F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. I, Palermo, 1984, pp. 200-201; G. C. Marino, L'opposizione mafiosa. Mafia politica Stato liberale, Flaccovio, Palermo 1986, p. 80-81.
[21]R. Candida, op. cit., p. 67.
[22]S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli editore, Roma 1996, p. 59.
[23]G. C. Marino, Saverio Friscia, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, p. 42.
[24]M. Riolo Cutaja, Frammenti, Palermo 1989.
[25]E. Le Duc, Lettres sur la Sicile à propos des événements de juin et julliet 1860, Paris, 1860 (BCC). Su E. Viollet-Le Duc cfr. S. Di Matteo, Il viaggio in sicilia di Eugene Viollet-Le Duc, in "Rassegna Siciliana di storia e cultura", I.S.S.P.E., a. III, n. 8, Dicembre 1999, pp. 5-18.
[26]Sono "enigmi" che, a differenza del campobellese Pepè, il viaggiatore francese non sa e non può risolvere: lo straniero parla ma non comprende, il siciliano comprende ma non parla. Sono enigmi che ai non siciliani derivano, lo ha capito bene Andrea Camilleri (cfr. La mossa del cavallo, Rizzoli, 1999), dall'ignoranza o dalla superficiale conoscenza della cultura siciliana (pensiero, comportamenti, modalità espressive, costumi) e della lingua per decodificarla. Lo straniero colto e intelligente può intuire, come Le Duc intuisce, che brigante rima quasi con gendarme, che i confini fra le attività delle due figure sono sfumati.
[27]A. Cutrera, La mafia e i mafiosi (1900), Brunc Leopardi editore, 1996.
[28]Giornale dell'Intendenza di Girgenti, maggio 1844 (BCC).
[29]Corrispondenze in ASCC, 1848. Cfr. D. Lodato - A. La Vecchia, op. cit., pp. 60, 63.
[30]Atti e delibere del Decurionato del Comune di Canicattì, 1827, ASCC.
[31]Giornale dell'Intendenza della Provincia di Girgenti, anno 1859, gennaio, pp. 5-6, Girgenti, Stamperia di Vincenzo Blandaleone (BCC).
[32]Atti e delibere del Decurionato del Comune di Canicattì, cit.
[33]G. Picone, op. cit., p. 612.
[34] S. Bosco, Favara le sue miserie le sue disarmonie, Modica, Tipolitografia "Moderna", 1989, p. 53.
[35]G. Lentini, Una figura tipica dell'Ottocento di Favara, Tipografia Gallo, 1976, pp. 49-50.
[36]Sul "famigerato" Intendente cfr. V. Macaluso, Cenni sulla vita di Salvatore Vanasco, 1860 (BCC).
[37]ASCC, Delibere e corrispondenza del Decurionato, aprile 1860.
[38]Per il passaggio di Canicattì dai Borboni ai Savoia cfr. D. Fausto Curto D'Andrea S.D.B., Canicattì '60. La Canicattì dei nostri catananni, voll. I-II, Grafiche Fama, Caltanissetta, 1986-1989.
[39]S. Lo Presti, Briganti in Sicilia, GELKA, Palermo 1996, p. 43.
[40]Archivio Centrale di Stato (ACS), L'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia 1875-1876, a cura di S. Carbone e R. Grispo, Cappelli editore, p. 576.
[41]S. Bosco, op. cit., p. 60.
[42]Cfr. V. Savorini, Condizioni economiche e morali dei lavoratori nelle miniere di zolfo e degli agricoltori della provincia di Girgenti, Girgenti, Stamperia provinciale-commerciale, 1881.
[43]L'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia 1875-1876, op. cit., p. 645.
[44]Vincenzo Macaluso fu uno dei primi affiliati alla ricostituita massoneria siciliana post-unitaria; a Firenze aveva fondato "la loggia massonica Rosolino Pilo, della quale fu venerabile"; nell'ordine gerarchico dei gradi massonici fu "Gran Isp Gen Gran 33 "; inoltre a Roma ricoprì l'incarico di "Delegato Straordinario nella valle del Tevere", cfr. P. Scrimali, Vincenzo Macaluso, Stab. Tip. De Pasquale, Licata, 1910 (BCC).
[45]G. Portalone Gentile, Un democratico siciliano: Luigi La Porta, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Caltanissetta, 1980. L'autrice ritiene "probabile che [La Porta] fosse entrato presto all'interno dell'organizzazione massonica".
[46]Sul sicilianismo cfr. G. Giarrizzo, Vicende del sicilianismo, in "Tuttitalia: Sicilia", 1962; G. C. Marino, L'ideologia sicilianista, 1971; N. Dalla Chiesa, Il potere mafioso, 1976; S. Vaiana, Sicilianismo e mafiosità, in "Nonsoloagricoltura", a. 1° n. 2°, giugno 1999, pp. 17-20.
[47]G. Portalone, P. La Lomia, la sua famiglia, la sua città e l'ambiente agrigentino, in AA.VV., Giocchino La Lomia. Atti del convegno (Canicattì, 2-4 febbraio 1995), a cura di C. Naro, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1995, p. 34.
Quella dell'agrigentino era una massoneria pluralista (vi aderivano liberali, repubblicani, democratici e internazionalisti) che trovava momenti di salda unità in battaglie come quella sull'ordine pubblico. Alcuni, come i "fratelli" Macaluso, La Porta e Friscia, costituivano l'anello di congiunzione delle logge provinciali con i vertici del Grande Oriente d'Italia.
[48]S. Vaiana, Le prime società operaie a Canicattì e dintorni, in "Nonsoloagricoltura", a. I, n° 1, marzo 1999 (BCC).
[49]Archivio di Stato di Palermo (ASP), Gabinetto-Prefettura, b. 1, A Sua Eccellenza il Luogotenente Generale del Re nelle Provincie Siciliane, Girgenti, 21 settembre 1861.
[50]ASP, Ibidem, Stato dei reati e avvenimenti che hanno avuto luogo nelle Comuni della Provincia dall'1° al 15 dicembre 1861.
[51] A. La Vecchia, Canicattì, storia tradizioni e varia umanità, ed. Meta, Canicattì, 1995, p. 82.
[52]Atti parlamentari, 17 aprile 1863, cit. in G. Portalone Gentile, La Sicilia post-unitaria nel dibattito parlamentare, 1/Studi storici, Istituto siciliano di studi politici ed economici, Palermo, p. 120.
[53]Il Progresso Effettivo", Favara, 7 settembre 1867.
[54]G. Chiaramonte Bordonaro, Lettera al ministro Lanza, cit. in V. Macaluso, Agli Onorevoli Deputati al Parlamento, Girgenti, 1874 (BCC).
[55]Il Progresso Effettivo", Favara, 21 settembre 1867.
[56]S. Bosco, op. cit., p. 52.
[57]F. Lestingi, La Fratellanza nella provincia di Girgenti, in "Archivio di Psichiatria, Scienze penali e Antropologia criminale, 1884; T. V. Colacino, La Fratellanza. Associazione di malfattori, in "Rivista di Discipline carcerarie in relazione con l'Antropologia, col Diritto Penale, con la Statistica", 1885.
[58]A.C.S., L'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-1876) , op. cit., p. 580.
[59]N. Tinebra Martorana, Racalmuto. Memorie e tradizioni, Assessorato ai Beni culturali del Comune di Racalmuto, 1982, pp.12-13.
[60]Cfr. V. Macaluso, Rimostranze al Governo di Vincenzo Macaluso, Girgenti, 1861 (BCC).
[61]P. Scrimali, op. cit., p. 11.
[62] V. Macaluso, Cittadini elettori del Collegio di Canicattì, Girgenti Tip. Luigi Carini, 1869, p. 3 (BCC).
[63]V. Macaluso, in "La Pietra - Giornale per tutti", Tip. Faziola e C., Firenze, 10 Maggio 1871.
[64]V. Macaluso, Un primo saggio di esemplare punizione ovvero la destituzione del segretario signor Pietro Cupani per l'avv. Vincenzo Macaluso, Girgenti, Tip. G. Fasulo e C. Pancucci, 1872, pp. IX-X (BCC).
[65]V. Macaluso, Agli onorevoli deputati al parlamento italiano, Girgenti, 1874 (BCC); A.S.P., G.P., b. 31, f. "Proclami rivoluzionari".
[66]Oltre ai sunnominati il Comitato era composto da personaggi tutti o quasi affiliati alla massoneria: Abignente Filippo, Allis A., Coppino Michele, De Luca F., La Cava Pietro, Maiorana Calatabiano S., Monzani C., Peraccini N., duca di Sandonato, Solidati Tiburzi L., Sorrentino T., Vicini G. - Cfr. Le elezioni del 1874 e l'Opposizione meridionale, Milano 1956; A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, 1992.
[67]G. C. Marino, L'opposizione mafiosa, Flaccovio editore, Palermo, 1986, p. 133.
[68]G. Falzone, Storia della mafia, Palermo, Flaccovio editore, Palermo, 1987, p. 135.
[69]Ibidem, p.132.
[70]Sicurezza pubblica in Sicilia, in "Il Precursore", n. 83, Palermo 26 marzo 1875.
[71]ASP, Gabinetto-Prefettura, b. 31, f. 20, Lettera al ministro degli Interni al Prefetto, Roma, 27 giugno 1875.
[72]Sui briganti Salamone e Grillo cfr. S. Vaiana, Una storia siciliana fra Ottocento e Novecento. Lotte politiche e sociali, brigantaggio e mafia. clero e massoneria a Barrafranca e dintorni, Salvo Bonfirraro Editore, Barrafranca, 2000.
[73]F. Nicotra, op. cit., p. 78.
[74]S. Lo Presti, op. cit., pp. 110-114.
[75]R. Candida, op. cit., p. 165.
[76]Sulla figura di Alongi cfr. G. C. Marino, Vita politica e martirio di Nicola Alongi contadino socialista, Novecento - Comune di Prizzi, Palermo-Prizzi, 1997; S. Vaiana, Nota critica a "Vita politica…" di G. C. Marino, 22 novembre 1997, in Biblioteca Comunale di Prizzi e in BCC.
[77]S. Vaiana, Giovanni Guarino Amella (1872-1949) , in "Canicattì nuova", a. XXVII, ni 14-19, settembre-novembre 2000.
[78]C. Firrigno, Genesi, sviluppo e tramonto di un giornale "Falce e Martello" (Canicattì, 1920-1922) , tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo - Facoltà di Scienze Politiche, A. A. 1996-'97, passim.
[79] D. Lodato, La secolare accademia del Parnaso Canicattinese. Canicattì, gli Arcadi, il Barone, Edizioni Arti Grafiche Avanzato, Canicattì, 1998, pp. 65-67.
[80]Delinquenza, in "La Graccia", a. II, n° 5, Canicattì, 6 marzo 1921.
[81] C. Mori, Con la mafia ai ferri corti, Flavio Pagano Editore, Napoli, 1993, pp. 133-144.
[82] G. Guarino Amella, Assemblea delle rappresentanze comunali e provinciali della Sicilia, seduta del 4 giugno 1944, in "Consulta regionale siciliana", vol. I, p. 388.
[83] R. Candida, op. cit. pp. 167-168.
[84] E. Di Natali, L'attentato contro il vescovo dei contadini, Tipografia Aurora, Canicattì, 1999, pp. 47-48.
[85] G. Berti, La situazione in Sicilia e i nostri compiti, in "Rinascita", novembre 1948
[86] "Per distruggere il brigantaggio - osserva l'acuto meridionalista - noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi; ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. […] Chi può mettere in dubbio che il nuovo governo abbia aperto gran numero di scuole, costruito molte strade e fatto opere pubbliche? Ma le condizioni sociali del contadino non furono soggetto di alcuno studio, né di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni". Cfr. R. Villari (a cura di), Il Sud nella storia d'Italia, Laterza, Bari, 1981.
[87] In questa logica non vi era alcuno spazio per la piccola proprietà contadina, né alcuna attenzione per le condizioni dei minatori, per cui alla fine la questione sociale si riduceva a generiche declamazioni filantropiche di vago progresso sociale.
Dovranno passare tre lustri dalla caduta della Destra storica per sentire la voce forte della vera Sicilia che risvegliandosi da un sonno trentennale, riprende attraverso le prime organizzazioni e le prime lotte di contadini e zolfatari la lotta per il suo risorgimento tradito in sul nascere; prima ancora che vanificato dalle ingiustizie e dalla corruzione della sua classe dirigente.
Nonostante il livello di coscienza gradualmente maturato, le masse operaie e contadine affamate vedranno, però, puntualmente eluse le loro richieste: dalla generosa adesione all'impresa garibaldina, ai fasci siciliani, alle affittanze collettive, alle lotte per l'applicazione dei decreti Visocchi e Falcioni e a quelle per l'applicazione dei decreti Gullo, e infine alle lotte per la realizzazione della Riforma agraria del '50 sarà un susseguirsi di sconfitte. Una lotta secolare che si intreccia inscindibilmente con l'affermazione della mafia agraria e dei centri occulti di potere. Baroni, borghesi, gabelloti, mafiosi, massoni trameranno e spargeranno tanto sangue per proteggere e affermare il loro controllo sulla terra: il risultato è la Sicilia odierna.
[88] S. Romano, Storia della mafia, Milano 1963.
[89] Sul movimento migratorio a Canicattì nel periodo 1900-1965 cfr. G. Augello, Condizioni economiche e demografiche del Comune di Canicattì, Università degli Studi di Palermo - Facoltà di lettere e Filosofia, Anno Accademico 1965-1966, pp. 122-137 (BCC).


Da: Per la Sicilia

[Per le immagini che corredano il testo, (non presenti nell'opera cartacea) non è stato possibile indicare gli autori, perchè sconosciuti.]


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