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La Domenica in Albis, ovvero la festa della Madonna

È già Pasqua, e otto giorni dopo è la Domenica in Albis, meglio nota a Canicattì come “festa della Madonna”, festa risalente, come racconta padre Agostino Gioia, al 1648, quando Filippo IV, re di Spagna e sovrano anche della Sicilia, vessato da continue guerre, dispose che «in tutte le città o paesi dove esistessero immagini di Maria Santissima sotto qualsiasi titolo, sia dentro che fuori l’abitato, delle più insigni per l’operazione dei miracoli e delle grazie speciali, fossero nella domenica in Albis trasportate nella Chiesa Madre per ivi aver luogo una novena a gloria della Vergine, regina della pace». Quindi, conclude padre Agostino Gioia: «Canicattì aveva la sua immagine miracolosa nella chiesa di San Francesco, perciò fu pronta ed eseguì volentieri gli ordini del suo re, diretti ad accrescere la sua devozione verso l’Immacolata».

Il suo culto è da secoli profondamente radicato nell’anima popolare: e se ne trova conferma perfino nei vecchi registri dell’Archivio del Comune, dove si possono leggere in latino giuramenti di antichi amministratori come questo: «Conceptam voveo ac iuro sine labe Mariam», cioè: «Faccio voto e giuramento per Maria concepita senza peccato»; o voti come quello del seguente classico distico: «Sanguine defendam pri maevum Virginis instans./ Defende extremum tu, bona Virgo, meum», vale a dire: «Difenderò con il sangue il primigenio istante della Vergine. Difendi tu, o buona Vergine, il mio attimo estremo». Ciò conferma la particolare devozione, che hanno sempre avuto per l’Immacolata i canicattinesi, i quali come loro protettrice l’onorano più volte all’anno, festeggiandola e portandola in processione la Domenica in Albis, il Tre di Maggio, l’Otto di Dicembre, il giorno di Natale e per il Capodanno.

La processione della Domenica in Albis è tra le più suggestive, o almeno lo era, potendo i canicattinesi ammirarvi, secondo il quadro ricostruito dal Gangitano, «la lunga sfilata dei Confratelli in sacco bianco e mantelletta di vario colore preceduti da lunghi stendardi e da tamburini, con in mano dorati bastoni processionali a raggera oppure a forma di croce (bacchetti); le Croci astili e gli stendardetti degli Ordini Regolari; le cappe bianche e nere dei Domenicani, le tonache nere dei Conventuali, quelle di color marrone con lievi gradazioni degli Osser vanti e dei Carmelitani, i Mansionari della Chiesa Madre in almuzio, la Maestranza in giacca lunga, calzoni a ginocchio e calze bianche, la sta tua risplendente di ori e di argenti seguita dai Magnifici Giurati dell’U niversità con i loro Mazzieri, mentre l donne avvolte in mantelline di vario colore s’inginocchiavano umilmente sulla soglia delle case ed i tamburi assordavano l’aria mischiando il loro suono a quello delle cornamuse».

Anche le armi del Castello sfilavano in processione; e a portarle era lo squadrone della Maestranza, una corporazione di mastri, che ogni anno eleggeva un capitano e quattro artiglieri, i quali, la vigilia della festa, «al caratteristico suono dei tamburi, allo sparo di bombe e mortaretti, invitavano gli ascritti alla solenne processione del giorno dopo». I Tropia raccontano che «anticamente il capitano godeva molti privilegi, fra i quali quello di liberare il giorno della festa un prigioniero». E il Pitrè aggiunge che «in quel giorno il capitano aveva facoltà di fare imprigionare non solo il socio che non intervenisse, ma chiunque cagionasse qualche disturbo».

Era sorto questo squadrone all’inizio dell’era moderna, quando il regno di Sicilia aveva giurato di difendere il dogma dell’Immacolata Concezione sino all’effusione del sangue: si era deciso allora di portare in processione per la festa della Madonna le armi del Castello, quelle stesse che, secondo la tradizione, il Conte Ruggero aveva tolto agli Arabi nella battaglia di Monte Saraceno e aveva mandato a Canicattì su un carro trainato da buoi, consacrandole all’Immacolata, la quale era intervenuta in suo aiuto a fermare il sole al tramonto per consentirgli la piena vittoria E in ricordo di ciò il Conte Ruggero, e per gratitudine all’Immacolata, a lui apparsa sul campo di battaglia, ne aveva istituito la solenne festa. Ma un’altra tradizione presenta una differente versione dei fatti. I Tropia così la riportano: «Un’altra lezione dice che le armi furono trovate da alcuni contadini, i quali pregarono l’Immacolata di San Francesco, perché il sole si fermasse, permettendo così i lavori d’escavo prima di notte e che il sole si fermò».

Ora non esistono più né armi, né Maestranza, né Castello. Questo è ormai ridotto a pochi ruderi; la Maestranza, alla quale spettava di eleggere ogni tre anni quattro deputati per la festa, è scomparsa da tempo; e le armi sono andate disperse, passando dal Museo di Capodimente, a cui furono cedute nel 1827 dalla proprietaria donna Teresa Bonanno, all’Armeria Reale di Torino. Ma era già dal 1814 che le armi non uscivano più dal Castello, in seguito alla disgrazia in cui aveva trovato la morte mastro Diego Accardo, capitano dello squadrone della Maestranza, colpito da uno di quei bossoli di mortaio che un suo artigliere, come era consuetudine per la festa, andava sparando a intervalli sul sagrato della chiesa di Santa Rosalia.

Dopo tale disgrazia ai mortai si sostituirono i mortaretti e alle alabarde delle copie di latta e ferro. E con queste sfilava per le vie cittadine lo squadrone della Maestranza per il “giuoco della bandiera”, la mattina della Domenica in Albis, con partenza verso le ore dieci dalla chiesa degli Agonizzanti. Andava innanzi a tutti un tamburinaio, lo seguivano gli artiglieri con in mezzo il capitano e il gonfaloniere, quindi venivano i mastri dello squadrone e poi i confrati di Maria SS. degli Agonizzanti in doppia fila. I mastri dello squadrone indossavano il frac e in mezzo a loro incedeva un alfiere, che portava una bandiera bicolore, celeste da un lato e gialla dall’altro, sulla quale figurava il monogramma della Vergine ricamato in viola. Tale bandiera, quando lo spazio lo permetteva, in qualche piazza o strada larga, veniva al rullo del tamburo girata e rigirata, lanciata in aria e ripresa con la massima cura, in modo da «afferrar sempre il manico in quella vertiginosa giravolta», come scrive il Pitrè, il quale si rifà al Di Martino. Se ne ha conferma nella monografia dei Tropia e ne La Terra di Canicattì del Gangitano, in cui è detto tra l’altro che l’alfiere, oltre a lanciare la bandiera a grande altezza per riprenderla poi prima che potesse toccare terra, faceva con essa «ogni sorta di sbandierate e di esercizi di equilibrio».

Gran parte aveva, pertanto, la Maestranza in tale festa: spiccava nella vigilia, quando il capitano e i quattro artiglieri percorrevano le vie cittadine al suono di un tamburo per dar segno della festa che veniva; e spiccava anche nel pomeriggio della domenica, quando verso le diciassette partiva da San Francesco per la Chiesa Madre l’imponente processione con la bellissima statua dell’Immacolata e lo squadrone dei mastri in testa a tutti col bell’abito di gala, il cappello a cilindro e un grosso cero in mano.

Un tempo erano portati in processione anche i Cerei delle varie categorie sociali, ma notizie certe si hanno solo di quelli dei pecorai e dei bordonari, gli uomini addetti nei feudi al trasporto del grano con i muli; e son notizie degli anni 1720 e 1721. In epoca più recente, invece, si era affermata con successo la pittoresca rietina, la sfilata per le vie della città di tantissimi muli e cavalli, che, sfarzosamente bardati e con le bisacce ricolme di frumento donato alla Madonna, incedevano, il giorno della festa, verso le ore dodici, in doppia fila davanti alla banda, con in sella i loro padroni, i cosiddetti burgisi, che portavano un agnello o un capretto vistosamente addobbato e tenevano in mano un alto cero adorno di offerte di denaro. Pure scomparsa è la consuetudine di portare in giro la mattina della festa gli ornamenti dell’immacolata: lo stellario, la corona, il manto azzurro, il mazzetto e la gistra, cioè il cestino di fiori artificiali del baldacchino della vara. In tempi più remoti, quando la Domenica in Albis era compresa nel periodo proibito per le nozze, era consentita un’eccezione per la celebrazione di un solo matrimonio: e la sposina era in genere una ragazza, preferibilmente di nome Maria, alla cui dote provvedevano talune Opere Pie o la Maestranza.

Come nel passato, la processione si svolge di pomeriggio, tra i festosi rintocchi delle campane, le allegre note della banda e gli assordanti spari di mortaretti. Davanti a una gran folla di fedeli avanza lentamente la vara, sulla quale spiccano fascetti di spighe, mazzetti di fave e rami di mandorlo, segni propiziatori per intercedere dalla Vergine abbondante raccolto. E intanto si leva alto dalla vara il grido di viva Maria Immacolata!, che un deputato della festa urla a ogni offerta di denaro: e ciò fino alla chiesa dello Spirito Santo, dove, dopo una breve sosta in Piazza IV Novembre per lo spettacolo del lancio dei palloni e dello sparo della maschiata, arriva e termina, tra scampanii e botti, la processione. Quindi la gente si dirama e per le vie si spande, ma non trova più le luminarie e i giuochi pirotecnici di una volta, il cosiddetto castieddru di fuocu.

Fino a circa venti anni fa la processione si concludeva alla Chiesa Madre, dove l’Immacolata restava otto giorni; e solo dopo un solenne ottavario, la cui usanza risaliva al 1762, passava alla chiesa dello Spirito Santo, dove le stellarianti del quartiere di San Francesco, ogni mattina verso le ore sette, si recavano in processione con lo stendardo della Vergine e cantavano in coro:

Evviva Maria!
Maria è sempre viva!
Evviva Maria che Dio la creò!

(Da "La città di Canicattì" di D. Lodato e A. La Vecchia, Papiro Editrice, Enna 1987)
solfano@virgilio.it

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