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L'ESEMPIO DI UN UOMO DALLA SCHIENA DRITTA

ANTONINO SAETTA

di Antonio Vinci

Prologo

    Agli albori nel Novecento - raccontano i nostri nonni - gli ultimi vassalli protettori dei feudatari fanno ancora avvertire, nelle nostre contrade, i sintomi oppressivi di quella che è stata per lunghi secoli la legge del "mero e misto imperio" di ruggeriana memoria, perpetuatasi nella versione "carnaggi e sottomissioni" operata da quella casta privilegiata che continua a non volere deporre lo scettro del comando ereditato dai despoti padri.

    E, per dare prova di ciò, basta ricordare il Palazzo La Lomia (quello sopra l'arco di Don Cola a la Batìa) dove, noi ragazzi curiosi, scopriamo, ancora in bella mostra in un dammusu, un'antica forca con nodo scorsoio a "memento" per i miseri passanti. Segno, questo, che ci fa pensare all'oscurantismo canicattinese anche durante gli ultimi secoli passati.

    Da noi presunzioni e prepotenze, sussurrati appena a mezza bocca per non rimanerne coinvolti, sono da epoca remota prerogativa di certa classe rurale mafiosa, con cui il resto della collettività ha dovuto giocoforza convivere per non andare incontro a spiacevoli situazioni.
E, in proposito, citiamo un fatto che ci da la misura della fondatezza di quanto affermato, accaduto nel lontano autunno del 1923 in Corso Umberto (vedasi lapide sistemata sul luogo del delitto): Peppi Facciponti, inteso "Giacona", già segnalato dalla legge come uomo di mafia, sta passeggiando tra la gente con quella boria sbruffona di gesti e di parole tipica di quella categoria.
Il maresciallo dei carabinieri Biagio Pistone, originario di Riesi, lo redarguisce, invitandolo al civile conportamento che impone la buona creanza.
Lui, stizzito per il richiamo, tira fuori la pistola e lo fulmina a bruciapelo.
Decine di persone vedono ma, interrogate in caserma, si limitano a fare scena muta. Vigliaccheria? Mancanza di coraggio? No, solo paura dalla mafia imperante in una società intimorita.

    Tuttavia, lo spavaldo lazzarone, anche in assenza di testimonianze documentate,capita male e il fresco Capo del Governo, deciso a fare piazza pulita dell'illegalità diffusa, lo fa condannare a lunghi decenni di galera, fino a che la scomparsa del fascismo e la conseguente malleabilità delle leggi democratiche non lo rimettono in libertà.
Facciponti, libero, perde il pelo ma non il vizio e, dopo il matrimonio con Teresa Ferrante, torna ad inserirsi di diritto nella rigenerata mafia post-bellica, pretendendo addirittura, per le "medaglie" guadagnatesi in virtù dei lunghi anni di carcere (!) , un posto di riguardo.
Ma i tempi sono cambiati e gli emergenti allevatori di bestiame, arricchitisi col commercio dei muli da macello per farne scatolette per le forze armate, oltre ai nuovi campieri con la lupara sotto la coscia della cavalcatura , lo snobbano incuranti e, anzi, alla prima occasione, se lo tolgono dai piedi, spedendolo al Creatore unitamente alla moglie e al cane lupo.
Spunta alll'orizzonte la stiddra e "carnaggi e sottomissioni", appena attutiti dalle leggi fasciste, tornano a prendere vigore nelle campagne, specie quando 1'astro appena citato si afferma oltre i confini circoscrizionali per sedersi di diritto al fianco dei potenti mafiosi corleonesi.

    Si arriva all'inizio degli anni cinquanta e giovani rampanti privi di scrupoli impongono la legge del più forte, sostenuti anche da esperti padrini rientrati dagli States dopo l'esilio forzato imposto dai fascisti.
E ora, dopo questo prologo introduttivo, apriamo il discorso sullo sfortunato giudice Antonino Saetta.


L'uomo

    In procinto di uscire, entra nella stanza dove io e Benito studimo e, mentre si congeda dal fratello con un bacetto, come al solito mi stringe la mano dicendomi: "Mi raccumannu, studiati!" e va via.
Nino Saetta è una persona schiva e di poche parole, serio e riservato, ma con me, stranamente, riesce a sciogliersi in fraterna confidenza.
Si, l'uomo dalla fortunata carriera conclusasi - ahimè! - in tragedia è persona taciturna, ma coraggiosa e arguta, capace di sapere ciò che vuole, sicuro di essere sempre nel giusto.


Benito

    Con Benito ci conosciamo da sempre; anzi, possiamo dire di avere vissuto per tanti decenni in una specie di simbiosi.
Piccolissimi, giochiamo in Via XX Settembre tutte le volte che lui viene dagli zii Lo Brutto.
Più grandicelli, ci accomuna un'accresciuta, disinteressata stima che ci porta quasi a non potere fare a meno 1'uno dell'altro.
Poi le Medie e il Diploma, studiando talvolta a casa mia e più volte nella sua, dove conosco Mimi, il minore dei fratelli, la sorella - poi sposata con Gino Livatino - e la piccola Adriana.
Nino, classe 1922, in attesa della chiamata come Pretore ad Acqui, amoreggia con Gina Pantano, bella signorina piena di lentiggini che ne accrescono la grazia, figlia di Don Carmelino il farmacista e sorella di Peppe, nostro coetaneo.
Finché, innamorati come due colombi, decidono di sposarsi con la benedizione dei papa Stefano e Carmelo.

    Nel frattempo, io e Benito, diciottenni, vinciamo il concorso nelle Ferrovie e dividiamo una stanza in famiglia ad Agrigento.
Passa gualche tempo svolgendo un appagante servizio nell'Ente.
Ci fidanziamo io con Mariolina e lui con Elvira; subito dopo, assieme al buon Pietro Signorino, viene a Cefalù a farmi da testimone di nozze.
Poco dopo gli restituisco la cortesia, facendogli da compare al suo matrimonio assieme alla futura cognata del comune amico Lillo Turco, legale degli iscritti della Camera del Lavoro.
Successivamente e, quando la mog1ie di Benito gli chiede il divorzio, per lui è la fine di un sogno. Amareggiato e sconfitto, lascia Agrigento e si trasferisce a Savona, dove più tardi muore d'infarto a seguito di un difficile intervento a cuore aperto.
Povero Benito!
"Si c'è 'na cosa ca nun si pò scurdari, è chiddra ca ti resta pi sempri scritta ni lu cori", amava ripetere.
E qui, dopo questa necessaria parentesi, torniamo a Nino che è l'argomento cardine del nostro narrare.


Il giudice

    II 25 settembre 1988, data del duplice barbaro assassinio sulla strada Canicatti-Caltanissetta, ci da lo spunto per parlare di lui, già al vertice della Corte d'Assise di Appello di Palermo.
Nino Saetta è un ammirevole uomo che ha speso gran parte della vita al servizio dello Stato in magistratura.
Nei ruoli giudiziari entra nel 1948 all'età di 26 anni come Pretore in Piemonte, poi giudice istruttore.
Nel 1955 lo vediamo Giudice civile e penale sempre tra le valli del Monte Bianco. Indi, intorno al 1957, Procuratore della Repubblica a Sciacca e, appresso, Consigliere della Corte di Appello di Palermo.


"Summit"

    II 1957 è l'anno del famoso "summit" all'Hotel delle Palme di Palermo tenuto, appunto, il 18 ottobre tra mafiosi sicuio-americani, cresciuti subito dopo la fine de11a guerra, e uomini di "Cosa nostra" assurti a "capi-mandamento" e "capidecina" con la pistola sempre con la pallottola in canna, per stringere e rendere stabili i rapporti tra le due potenti congreghe.
Alla spicciolata arriva a Palermo la meglio malavita americana: Lucky Luciano, Charles Orlando, Frank Garofalo, Joe Bonanno detto Bananas, Vito Vitale, Carmine Galante, Santo Sorge e altri. Presidente viene nominato il patriarca dei patriarchi Genco Russo, la cui nomea circola anche negli Usa, ma il vero "puparo" della situazione è sicuramente il camaleontico Lucky Luciano.
Per dare storicità all'evento (si disse allora), la riunione avviene nel discreto salone che già aveva utilizzato il riberese Francesco Crispi per riunirvi alcuni membri del Parlamento, nonché Riccardo Wagner per la stesura del suo "Parsifal".
Tra abbracci e baci, i più autorevoli padrini siciliani fanno gran festa agli amici arrivati da oltre oceano. Tra i boss di casa nostra, oltre al già citato Genco Russo, spiccano le figure di Vice' Rimi di Alcamo, Cesare Manzella di Terrasini, Rosario Mancuso e Mirai La Fata di Palermo, Calo' Vizzini di Villalba, certo Domenico Trupia dell'agrigentino e tanti altri "sentiti" che hanno il compito della vigilanza e del controllo del territorio. Si discute del nascente germe mafia-politica, presto consolidatosi organicamente con i membri della D.C. siciliana. Tra loro non possono mancare gli artefici del "sacco di Palermo" (leggi "sviluppo demografico corrotto che porta allo scempio della città" e "controllo dei mercati generali, posti ideali per la diffusione della droga", business, quest'ultimo, guidato a distanza dalla longa manus di Lucky Luciano) .
Si segnalano, nell'occasione, alcuni baldi giovani, in odor di mafia, idonei ad essere promossi boss.
Chiudiamo questo argomento aggiungendo che, nonostante la riservatezza e i mille accorgimenti usati dai mafiosi dei due mondi, l'Interpol riesce a captare i nominativi dei partecipanti e gli argomenti trattati in quel consesso e, poi, con certosina pazienza, ad arrestare, ad uno ad uno, Genco Russo, Frank Coppola, Rosario Vitale, Diego Plaja, Frank Garofalo. Rosario Vitaletti, Filippo Gioè e gli "americani" Calogero Orlando, Joseph Cerrito, Sante Sorge, Gaspare Magaddino e Gaetano Russo.
Felice Chilanti de "L'Ora" ironicamente commenta: "La politica sa tutto e inspiegabilmente tace!"
Certo, allora il giornalista in parola non può sapere quanta arroganza la mafia politicizzata avrebbe espresso nelle delittuose collusioni e quante stragi, nei quarant'anni successivi, avrebbe commesso per calcolo o per tornaconto.
Inizia lo scontro tra vecchia e nuova mafia a colpi di lupara per il controllo del narcotraffico e per il predominio sul territorio.
Il "battesimo" dell'orribile mare di sangue lo da la strage di Viale Lazio.
Segue la mattanza della Zisa, dove in poco tempo vengono ammazzate oltre duecento persone, alcune delle quali dentro l'Ucciardone in cosiddetti "incidenti scanna-scanna", come ci racconta nelle sue pregevoli opere Michele Pantaleone,- appresso è la volta di tanti giornalisti citati in altra parte di questa narrazione.


Il Consigliere

    Ed è nel periodo appena citato che Antonino Saetta viene fuori come temerario giudice di punta.
Lascia Sciacca per diventare Consigliere della Corte di Appello, prima di Genova, poi di Palermo e in ultimo di Ca1tanissetta.
Nel 1985 si occupa, per la prima volta, dell'importante processo relativo alla strage di Via Pipitone Federico in cui viene assassinato il Consigliere istruttore Rocco Chinnici.
Nonostante il tentativo di condizionamento arrivatogli dal compaesano Peppe Di Caro, mammasantissima di Canicattì, che lo minaccia di fargliela pagare "se non fa il proprio dovere verso gli amici", Nino, detto da molti colleghi "testa dura", chiude il processo con una sentenza che aggrava le condanne previste dalla sentenza di primo grado.
Passano solo pochi giorni e la famiglia Saetta subisce 1'incendio del villino di Terrasini: inevitabile prezzo pagato alla di lui fermezza.
Ma non si scompone più di tanto e, fatto riparare il danno, continua a tirare dritto per la sua strada "come torre ferma che non crolla".


Il Presidente

    Nel 1986, ne11'ultimo incarico di Presidente della prima sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo, si occupa di alcuni importanti processi di mafia, tra i quali quello a carico di Giuseppe Madonia, Armando Bonanno e Vincenzo Puccio, supposti esecutori materiali dell'omicidio del Capitano Basile avvenuto a Monreale durante la festa del Crocifisso - Anche stavolta arriva puntuale 1'ammonimento pesante e minaccioso "di non calcare la mano sugli imputati sotto processo", ma lui continua a non mollare.
Scrive oggi il Sostituto Procuratore della Repubblica Gaetano Paci: "La storia di questo processo e del suo turbinoso svolgimento costituisce una delle pagine più dolorose della casistica giudiziaria, al punto da venire considerata l'espressione emblematica della capacità organizzativa mafiosa ad intervenire illecitamente nell'esercizio della funzione giudiziaria".
E continua: "Nonostante la linearità e la molteplicità degli elementi di prova acquisiti a carico degli imputati, raggiunti da prove schiaccianti, persino secondo il giudizio di altri uomini d'onore, si susseguono taluni sconcertanti e paradossali decisioni dei giudici di merito (e anche della solida istruttoria svolta dal giudice Borsellino) determinandone l'assoluzione".
Ma una nuova Corte presieduta dal rigoroso Saetta chiude il processo, con sentenza del 23 giugno del 1988, giudicando colpevoli gli imputati e, per questo, condannati al carcere a vita.
Poco dopo il deposito della sentenza, il Presidente e il figlio Stefano vengono trucidati sullo stradale Canicattì-Caltanissetta; sì, proprio nei pressi del paese natio.
Aggiunge ancora il Paci: "La Corte di Assise di Caltanissetta, che condanna all'ergastolo Toto Riina e Francesco Madonia quali mandanti e Pietro Ribisi quale esecutore materiale, evidenzia che 1'omicidio dell'integerrimo giudice e del figlio è maturato come movente distorsivo di Cosa nostra alla sua tenace resistenza verso i pesanti tentativi di condizionamento da lui disattesi".
Per i mafiosi lo smacco è troppo grande e per Nino arriva la sentenza di morte.
"Sentenza" - aggiunge il desolato figlio avvocato Roberto" - "stimolata anche dalla proverbiale, indiscussa fermezza di papa".
Conclude il Sostituto Procuratore: "La storia personale dì Nino Saetta costituisce immenso patrimonio di valore per non rimuovere quei principi di imparzialità da lui sempre tenuti presenti. Il Presidente non ha fatto nulla di straordinario per diventare eroe, essendosi solo limitato a svolgere il proprio dovere e, per questo, viene ammazzato da "Cosa nostra".


I giornalisti

    "È il micidiale conto" - scrive Elsa Vinci nel libro "I Misteri del Palazzo Antimafia" - "che la piovra presenta a Domenico Sica, Alto Commissario per la Sicilia, ammazzandogli il giudice di punta Antonino Saetta sulla strada Agrigento-Caltanissetta".
È questo il tempo in cui molti giornaiisti dicono del delirante bubbone che ammorba la nostra Sicilia: Sciascia, Lodato, Bolzoni, La Licata, D'Avanzo e altri, tra cui la citata Vinci, in un affollato dibattito al Circolo della Stampa di Palermo, regolato dal moderatore Calacìura, direttore del giornale "L'Ora", e presenziato dal Procuratore Pietro Grasso e dagli Onorevoli Orlando, Galasso e Mancuso. In seguito, lo stesso argomento, per l'eco suscitata in quella riunione, viene discusso al "Maurizio Costanzo Show" di Canale 5 alla presenza dell'autrice e di alcuni uomini politici.


Conclusione

    Palermo ha assistito a cento stragi. Ha visto sulle strade insanguinate della città migliaia di cadaveri, mentre "L'Ora" battezza la capitale "città mattatoio" per la crudeltà con cui vengono trucidati dalle pallottole uomini di valore quali Pio La Torre, Michele Reina, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, Cesare Terranova, Lenin Mancuso, Boris Giuliano, Emanuele Basile e il capitano Russo.
Sì, per ordine dei sanguinar! corleonesi, alcuni finiscono i loro giorni murati per sempre nei pilastri di cemento armato, quando i suddetti, ormai padroni della città, non si prendono la briga di lasciare i cadaveri sul selciato delle chiese se non, addirittura, davanti alla Questura.


Canicatti nel male e nel bene

    Prima di porre termine a questa breve dissertazione, ci permettiamo dire la nostra su questa bella terra canicattinese ove da tempo sembra aleggi la presenza di un essere crudele che giostra a piacimento ogni cosa, sicuro com'è di non dover dare conto a nessuno.
Sì, di un'idra dalle tante teste sempre al varco, che, dopo avere assorbito il "pasto Saetta", sente prepotente il bisogno di una nuova preda per tenere sulla corda la giustizia.
Ed ecco che la scelta cade sul Giudice Livatino, uomo di legge incorruttibile quanto il Saetta, oltre che, pure lui, compaesano.
Ne fa un boccone! (Oggi Romina Marceca nell'articolo "L'ultima vittoria del giudice ragazzino" scrive: "Aveva visto giusto e il tempo gli ha dato ragione quando il suo intuito indicò come killer, del pregiudicato Giovanni Poni, Francesco Cacciatore, reggente di Cosa nostra agrigentina, prosciolto da Anna Maria Ciccone che credette al falso alibi dell'accusato").
Canicatti resta in attesa della successiva vittima.
Insomma, usando le parole del Poeta, "... e, dopo 'l pasto, ha più fame che pria", la mafia sente ancora 1'irrefrenabile bisogno di sangue, magari sempre in zona, in quello stesso stradale, chilometro più chilometro meno.
Speriamo di no, per carità!
Canicattì ha già pagato un grandissimo tributo di vite umane con il sacrificio dei suoi due giudici di valore . E tanto basta e avanza !
Perciò dimentichiamo per sempre questo luogo predestinato di macabro appuntamento con la morte.

E qui vogliamo cogliere l'occasione per mettere in luce una Canicattì non solo terra di mafia, in fondo rappresentata da una sparutissima minoranza di esseri destinati, prima o poi, al dissolvimento.
Canicattì è un meraviglioso paese in continua evoluzione. È il paese che ha "inventato" il "grappolo d'oro"; ci riferiamo all'uva Italia, famosa nel mondo, che tanta ricchezza ha portato e continua a portare ai suoi abitanti.
E ancora oggi, quantunque i suoi ventimila ettari di vigneti degli anni novanta si siano ridotti di oltre il 50%, gli industriosi agricoltori rimasti sulla breccia riescono ancora a dare continuità alla bella impresa iniziata più di trent'anni fa.
Certo, oggi non si vedono più in stazione le colonne di carri frigorifero pronti ad essere riempiti dai sei milioni di quintali di prodotto pregiato, trasportato con quattro lunghi treni per notte verso l'Europa e oltre.
Già, treni sostituiti, nel rispetto di un programma più mirato, da funzionali mastodonti articolati che sanno dare risultati più congeniali.
Senza dire che il canicattinese è uomo intelligente, capace di adattarsi a ogni progresso innovativo, sensibile al galoppante cambiamento; ed è appunto per questo che non ci pensa due volte a mutare là sua attività da agricola a commerciale.
Ed ecco venir fuori i grandi centri cpmmereciali, i tanti nuovi negozi di abbigliamento, arredamento, alimentari e varie: i Calabrò, il Grande Migliore, il Papino, il Cadillac, sì, gli immensi "Megastore" capaci di offrire di tutto e di più ai suoi quasi quarantamila residenti e a una clientela pendolare di oltre centomila persone provenienti dai paesi limitrofi, che viene a fare le grosse spese tra le nostre vie principali ricche di mercé ricercata, esposta in eleganti vetrine.


Considerazione

    Tornando a un discorso più generale, cosa rimane oggi del sangue versato da Chinnici, Saetta, Falcone, Borsellino, Livatino e tutti gli altri che sarebbe lungo enumerare? Niente! Solo macerie!
Sì, dopo 25 anni di pool antimafia, restano solo macerie, scrivono nell'ottobre 2007 i bravi D'Avanzo e Bolzoni a proposito dei magistrati "cannibali" di Palermo, oggi divisi su tutto, spaccati in tribù giudiziarie che si sbranano tra loro fino a sciupare quella che è stata l'idea geniale di Caponnetto, ormai sacrificata sull'altare di rancori violenti, di lotte intestine tra caselliani, grassiani e messineani solo per stabilire se Cuffaro, ex Presidente della Regione, sia colluso con la mafia o meno. Ma davvero non hanno altre cose importanti da risolvere , magari coperte di polvere, visto che, tra l'altro, trattasi solo di misera, sporca faccenda politica?
Sì, una sporca faccenda politico—mafiosa definita da Pietro Grasso con la colorita espressione "l'acqua per i pesci"!



Post scriptum

    Più di una volta, nel corso degli anni della sua vedovanza, ho notato la Signora Saetta in meditazione dinanzi al sacrario che custodisce le spoglie dei suoi due cari, dove spesso i passanti sostano per recitare una prece per 1'anima dell'eroe della giustizia e del sicuramente incolpevole Stefano.
Lì, in quel punto prescelto come luogo simbolico, ubicato al centro del1'emiciclo del vecchio camposanto che racchiude molte tombe monumentali del primo Novecento appartenenti ai nobili del paese.
E, solo una volta, l'ho vista a Palermo presentatami da Benito prima di morire: un po' sfiorita dall'inevitabile scorrere degli anni, ma sempre altera e non priva di tracce dell'antica beltà.


Tratto dal sito: Centro di Documentazione Città di Canicattì









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