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LA STRAGE DEL 21 DICEMBRE 1947 A CANICATTI'

di Diego Lodato

Il 21 dicembre 1947 era un giorno di domenica. La Piazza IV Novembre si presentava ben diversa da quella di ora: con il suo ampio piano rialzato al centro consentiva l'incontro, l'assembramento e la conversazione. E piena di gente era il pomeriggio di quel giorno, come pieno era il Corso Umberto, a quei tempi cuore e salotto della città, con la gente che vi passeggiava tranquilla. Dalla locale Camera del Lavoro era stato indetto uno sciopero generale. Erano stati sospesi perfino gli spettacoli cinematografici del Teatro Sociale. Ed erano state bloccate anche le vie d'accesso alla città. I carabinieri, con il moschetto a tracolla, facevano la ronda tra la gente che passeggiava lungo il Corso.

Sullo svolgimento dei fatti di quella giornata c'è il racconto di un teste oculare, e quindi fonte primaria. Si tratta del farmacista Diego Cigna, primo sindaco elettivo di Canicattì dopo la guerra, battagliero socialista democratico e uomo di sinistra da sempre e per sempre, incarcerato più volte dal regime fascista e proposto per il confino politico. Egli narra: "Il mattino del 21 dicembre 1947 appresi che varie squadre di comunisti circolavano per il paese intimando a tutti gli esercizi di chiudere per aderire allo sciopero generale e che ai riluttanti dicevano: «Oggi se ne parla, scorrerà sangue»". Egli poi continua così: "Verso mezzogiorno credetti opportuno chiudere la farmacia. Nel pomeriggio verso le 13 mi recai a prendere un caffè nel bar Contrino. Ad un certo punto notai una forte animazione nella strada e vidi venire l'assessore Antinoro Carmelo, il quale concitatamente pregava il Contrino di chiudere il Caffè. Nel vedere che la situazione prendeva una brutta piega, mi affrettai a rientrare nella mia casa che è quasi di fronte al Caffè Contrino. Dopo alcuni minuti intesi lo sparo di molti colpi di arma da fuoco e subito pensai che il proposito manifestato la mattina dai dimostranti, cioè di far scorrere sangue, si era attuato".

Negli atti della Corte d'Assise di Agrigento lo svolgimento della strage viene così raccontato: "Dopo un comprensibile attimo di smarrimento, dietro lo stimolo ed il palese incitamento del Mannarà, dell'Onolfo e dell'Acquisto, gli scioperanti si addossarono sui carabinieri per dividerli l'un dall'altro, per travolgerli e passare oltre e l'Onolfo in particolare, con l'aiuto di altri, afferrò a tal fine il carabiniere Cocchiara cercando di disarmarlo. Quest'ultimo oppone resistenza, al limite delle proprie forze, per non essere sopraffatto, esplose tre colpi in aria, ottenendo il momentaneo allontanamento degli aggressori. Ma subito dopo, mentre il Mannarà gridava: «Avanti compagni non abbiate paura, i carabinieri hanno l'ordine di non sparare», i dimostranti tornarono all'attacco ed alcuni di essi, rotto l'esile cordone, si portarono a tergo dei carabinieri. Contemporaneamente si sentirono dei colpi d'arma da fuoco ed in breve vi fu uno spara spara generale, cui i militari reagirono come poterono".

E fu una strage. Vi trovarono la morte il palmese Angelo Lauria e i canicattinesi Salvatore Lupo e Domenico Amato. Vi perdette la vita anche il carabiniere Giuseppe Iannolino, deceduto dopo quattro giorni di ricovero ospedaliero. Tanti altri rimasero feriti, come anche alcuni carabinieri, quali Rosario Cocchiara, Giuseppe Giuliana, Francesco Donzello, Calogero Alù e il tenente Rodolfo Bongiovanni. Tra i feriti ci furono Giovanni Giardina, Carmelo Morreale, Liborio Cosentino, Calogero Leone, Salvatore Carlino, Giuseppe Attardo, Vincenzo Fazio Terrozzo, Antonio Contrino, Nicola Di Rosa, Gaetano Acquisto, Diego Nuara, Carmelo Onolfo. Morti e feriti, vennero in gran fretta, con ogni mezzo, trasportati all'Ospedale Civile Barone Lombardo, che si riempì subito di parenti e amici, in una grande confusione in cui tra le lacrime echeggiavano grida di disperazione e di dolore. Tanti altri, colpiti più lievemente, si fecero curare in casa per evitare conseguenze giudiziarie.

Per tale strage vennero poste sotto processo cinquantanove persone, di cui sedici in stato di detenzione, otto in latitanza e il resto a piede libero. Il sindaco comunista Francesco Cigna quel giorno era assente da Canicattì. E' emblematica al riguardo questa dichiarazione del sindacalista comunista Antonio Saccaro, storico segretario per decenni della Camera del Lavoro: "Quel giorno, purtroppo, Francesco Cigna era a Gela per impegni personali di lavoro, altrimenti la sua presenza, per il suo forte carisma, avrebbe potuto evitare il peggio". Sorge naturale qualche interrogativo. Come mai il sindaco comunista era assente "per impegni personali di lavoro", in quel giorno di sciopero generale? Non doveva essere lui il primo a dare l'esempio e scioperare? Come era uscito dalla città, se le vie d'accesso erano state bloccate? Come "avrebbe potuto evitare il peggio, per il suo forte carisma", se fossero stati altri a sparare?

Quando ebbero inizio gli arresti, alcuni si diedero alla fuga. Tra i latitanti c'erano Antonio Mannarà e Salvatore Guadagnino, fuggiti in Iugoslavia. L'accusa principale che venne mossa agli imputati fu quella di strage aggravata "per avere, in concorso tra di loro, in Canicattì il 21 dicembre 1947, al fine di uccidere, esploso su una massa di civili e su tredici militari dell'Arma dei carabinieri, numerosi colpi di arma da fuoco, in maniera tale da porre in pericolo la pubblica incolumità". L'accusa di strage non venne però accolta nella sentenza, sicché le condanne più gravi, che furono quelle inflitte ad Antonio Mannarà, Gaetano Acquisto e Antonio Onolfo, si limitarono a nove anni di reclusione, ridotte poi a sei dalla Corte d'Appello di Palermo il 17 dicembre 1953.

C'è da rilevare la univocità della sentenza sulla colpevolezza dei condannati nei tre gradi di processo: Corte d'Assise, Corte d'Appello e Corte di Cassazione. Tanti giudici togati e popolari si sono trovati tutti d'accordo: e ciò, nonostante la difesa, rappresentata e sostenuta da Lelio Basso, avvocato di parte, oltre che di partito. La sua arringa impostata sulla "fame" si rivelò assai debole. Se la fame era tale e tanta, come mai a Delia, Serradifalco, Castrofilippo, Racalmuto, etc. se ne stettero tutti tranquilli?

Il 14 luglio del 1943, in piena guerra, sì che c'era la fame. L'assalto da parte di uomini, donne e bambini alla Saponeria, dove c'erano anche dei generi alimentari, provocò la spietata reazione del tenente colonnello americano George Herbert McCaffrey, ufficiale dell'AMGOT, il quale con la sua Colt automatica, calibro 45, sparò ferocemente contro quella povera gente, facendone strage. Sei furono i morti di quell'orrendo eccidio. A loro va tutta la nostra umana pietà, come anche alle quattro vittime del 21 dicembre 1947 e alle altre sei del ricovero di Via Capitano Ippolito, dove il 12 luglio 1943 avvenne la prima strage nazista in terra italiana.

Diego Lodato












solfano@virgilio.it

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