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TIPI E MACCHIETTE

Se Roma ha avuto il suo Pasquino ed il suo Marforio, se ogni grande o piccola città vanta un tipo ed una macchietta, Canicattì ha dato i natali oltre che ad uomini illustri ai tipi più strani e strambi che si possono immaginare. A parte i parnasìani, persone intelligenti e briose (ricordati nel volume « La mia Canicattì ») abbiamo sotto gli occhi una rosa di nomi che ci riportano immediatamente alla memoria fatti e ricordi esilaranti.
Petali come Tanu Ciglia, Decu Zim-Zam, Decu Librimi, Masi Lafona, Vicìu lu Nanu, Viciu Pìscialettti, Mascìu Peppi tira la coscia, Patri don Luzzu, Stefanu, sono i più significativi personaggi rimasti ancora nella mente di coloro che li conobbero o di quelli che ne tramandano le gesta.
Chi o che cosa rese famosi tali insignificanti indivìdui?
Una imperfezione fisica, il comportamento strambo, un cervello completamente non a posto furono la caratteristica principale dì tali personaggi i quali passando fugacemente sulla scena di questo mondo — in un angusto palcoscenico come quello di Canìcattì — furono gli interpreti di un'epoca, zimbello di fanciulli e dì monelli, vittime dì beffe di ragazzacci esuberanti ed irrìspettosi, Decu Zim-Zam, non meglio identificato, per due soldini, ripeteva con suoni gutturali e con monotona precisione — il suono mai sentito di campane, di tutte le torri più famose e dei campanili delle cattedrali d'Italia. « Tin tìn » faceva la campana delia Torre di Pisa, «Don-Dan-Don» quella di S, Pietro, « Ti Ton Ti ton » quella di Venezia ecc. ecc., ma se uno del crocchio degli ascoltatori porgeva altri due soldini, Decu Zim-Zam ricominciava da capo, esattamente come prima, modulando ì suoni e la voce a seconda del campanile o della torre, senza mai sbagliare, senza mai saltarne uno e per dìecìne e die-cine di campanili (anche quelli inventati) di torri, di minareti... tin tin per Pisa, Don-Dan-Don per S. Pietro...
Masciu Peppi tira la coscia era la vittima consapevole dei monelli di tutte le strade di Canicattì. Appena lo vedevano i ragazzacci, dietro a luì a fare la baia e il solito verso; «Masciu Peppi tira... la coscia....'» ed il vecchietto col bastone alzato, dietro a loro, a... rincorrerli per come poteva, con una gamba claudicante, e ciò per ore ed ore mentre i ragazzi dì un quartiere venivano man mano sostituiti da altri di un altro quartiere. Abbiamo detto che Masciu Peppi era vittima consapevole perché quando i ragazzi se ne stavano immersi nei loro giochi, e lo ignoravano, egli stesso, quasi a sollecitarli li investiva con epiteti non ripetibili.
Altra vittima dei ragazzacci, Viciu lu Nanu, un nanerottolo di 82 cm. scarsi, azzimato, profumato, con bastoncino di bambù, cravattino e cappello floscio.
Al contrario dei precedenti e dì Viciu Pisctalettu e Masi Latona, ricordati più nella fraseologia popolare che per meriti speciali, lu Zi Tanu Giglia fu un vero personaggio.
Al suo confronto il Barone di Munchausen impallidisce: egli era nato per raccontare le storielle più incredibili, ma con tale forza di persuasione, con tale veemenza, con particolari così studiati che coloro che ebbero la fortuna di sentirlo non capirono mai se anche lui credesse alle eclatanti avventure raccontate che lo avevano sempre per protagonista.
Non si può certo definire un esagerato ma un ballista di accreditata scuola: e guai a chi osava accennare ad un sorriso di incredulità alla fine dei suoi racconti. Se non riusciva a dargliele di santa ragione col bastone nodoso erano sputi e vituperi a non finire. Storico è ìl racconto detto del « bummolo », e cioè la brocca piccola, e dal collo esile che veniva usata in estate per tenere l'acqua al fresco. Ebbene era uso dello Zi Tanu Giglia bere attaccando le labbra alla brocca, e far scendere il liquido a garganella, dopo aver portato in alto il recipiente. Una mossa tipica, in molto simile a quella del trombettiere che suona la sveglia. Lu Zi Tanu, ogni sera d'estate, prima di andare a letto, soleva prendere al balcone una bevuta d'acqua fresca, nel modo anzidetto. Egli adorava quel «bummulu> perché era veramente riuscito: teneva proprio l'acqua fresca e quindi lo custodiva come cosa di alto valore, ed ogni volta stava in ansia quando qualcuno si avvicinava alla pìccola brocca, timoroso che urtata, cadesse spezzandosi.
Una sera dunque — come al solito — si accinse alla bevuta e stava per rimettere, soddisfatto, il turacciolo di legno al recipiente quando lo stesso gli sfuggì di mano e cadde giù, giù, giù dal balcone verso l'acciottolato della strada sottostante dove certamente si sarebbe infranto in mille piccolissimi pezzi... se Lu Zi Tanu pronto di riflessi, agile più di una lepre — diremmo oggi — superando la barriera del suono, non avesse attraversato due stanze, sceso tre rampe di scale, e non sì fosse trovato pronto a braccia aperte a riceversi il prezioso «bummolo» che precipitava giù vertiginosamente.
Storica è altresì la storiella detta dell'orologio.
« Un giorno — raccontava lu Zi Tanu — ero andato in un mio podere a vigilare sui mezzadri che stavano trebbiando. Finito il lavoro mi ero messo all'ombra di un albero per riposarmi e mi ero perciò disteso con la testa vicino al tronco. Sotto di me avevo posto la giacca ed il panciotto. Mi svegliai che era passata un'ora ma quale fu la mia sorpresa quando mi accorsi che mi ritrovavo nella posizione esattamente contraria a quella assunta all'inizio della siesta: la mia testa al sole, i piedi all'ombra vicini al tronco. Pensai subito ad uno scherzo di cattivo gusto: un passante, un contadino, qualcuno insomma approfittando del mio sonno si era presa la briga... di rivoltarmi; spiegazione alla quale io stesso non davo alcun credito perché, innanzi tutto, ho il « sonno leggero » e basta un nonnulla per svegliarmi. Ma tant'era: io mi trovavo nella posizione contraria a quella che avevo assunto prima... e non sapevo capacitarmi... quando... ad un tratto — ebbi la soluzione esatta del fatto insolito: il mio orologio da tasca, un grosso cipollone regalo di mio nonno, s'era sfilato dal panciotto e stava sulla giacca che avevo posto sotto dì me a mo' di materasso, proprio nel punto ove — prima — le mie stanche membra giacevano, alla altezza di quella parte del corpo dove la schiena cambia nome. II vetro rotto era la prova provata di ciò che era successo durante il mio sonno: mi ero certamente adagiato sull'orologio, e, rottosi il vetro dì protezione, sulla spera grande dei minuti, cosicché questa, girando durante la siesta mi aveva trasportato su di sé per un ora intera, modificando la posizione originale!
Patri Don Luzzo, era un prete dei tempi passati: chi sa come, chi sa perché aveva indossato l'abito ecclesiastico; certo - non fu all'altezza del delicato ministero e più che come pastore di anime è passato alla storia come un ignorante caparbio e triviale individuo.
Il poeta Peppi Paci nel volume « Li Mascari di Paci » edito nel 1937, mette in versi alcune delle esilaranti storielle che hanno per protagonista il su nominato Patri Don Luzzo. Preferiamo riportare una di dette poesie integralmente per dare un'idea della forma mentis del protagonista e per non privare i nostri lettori di una delle più belle e riuscite storielle in versi del simpatico autore canicattinese.

CHI DIAVULU CC'E' ?
E n'autra vota, aprire 'un putiva
lu tabirnaculu all'altaru maggiuri;
la chiavi, sa pirchì, nun ci trasiva,
ca nésciri duviva a lu Signuri.
La batti, pi cusà qualchi muddica;
ci sciuscià, la ritorna ad appizzari,
ma inutili; riprova, s'affatica,
suda, arrussica, cumincia a sbruFfari...
'Dici a lu sagristanu, ch'è presenti:
— E chista, o nun è chista? Cu lu sapi?
— Si ssignura, ch'è chissà certamentì!
— Ma chi diavulu cc'è, ca nun si grapi?


Ultimo — e ne potremmo ricordare tanti — di questa serie sarà certamente fra i più ricordati dagli anziani. Stefanu visse prima della I guerra mondiale e fu davvero un personaggio. La sua specialità fu quella degli auguri, delle condoglianze, del ricordo agli interessati di un avvenimento lieto o triste. Giorno per giorno, strada per strada, casa per casa, andava in giro incontrando tutti bussando a tutte le porte e con inverosìmile prontezza faceva gli auguri per l'onomastico, per il compleanno, per l'anniversario del matrimonio oppure le condoglianze, e comunque ricordando a tutti la ricorrenza dì un giorno dì gioia o di un giorno dì tristezza. Tuttavia a quanto ci dicono i vecchi Stefanu era uno squilibrato... e qualcuno aggiunge che fosse anche matto. Pretendeva un soldino, ma uno solo, rifiutando di accettare le monetine di maggiore valore. Ma come facesse a ricordare tutti coloro che in un dato giorno potevano ricevere gli auguri o parole di profondo rammarico per cominciare il giorno dopo verso altri, e all'indomani verso altri ancora, non è dato sapere. Per tale sua non molesta attività era benignamente accolto da tutti e tutti lo trattavano confidenzialmente anche perché a ricchi o poveri, a vecchi o giovani, a donne o ecclesiastici egli si rivolgeva sempre ed immancabilmente col « tu »: anche in quei tempi durante i quali le distanze sociali erano più marcate di quanto non lo siano oggi.

Tratto da: "La mia Canicattì" di Giuseppe Alaimo


solfano@virgilio.it

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