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LEGGENDE E TRUVATURE

di Giuseppe Alaimo




LEGGENDE E TRUVATURE


I luoghi di Canicattì presi di solito per l’ambientazìone delle leggende che si tramandano da secoli, sono due in particolare:

la cosi detta Vaneddra di li ‘ncantisimi (viuzza dei fantasmi), — l’attuale Via Duca degli Abruzzi —, la squallida stradetta senza porte d’ingresso o finestre che vi si affacciano, e la zona di Vito Sullanu, quella contrada che mantenendo nel cuore del proprio perimetro le suggestive sollecitazioni di una città senza nome nonché centinaia dì loculi vuoti scavati nelle rocce adiacenti, meglio si adattano Quale scenario di fatti arcani e misteriosi.

Tra i tanti racconti che appunto sono ambientati in questi due luoghi, ne riporto qui di seguito alcuni fra i più noti e che più di altri sono rimasti nella tradizione popolare, nonché ancora uno ambientato nella piazzetta degli Agonizzanti — l’attuale piazza XXIV Maggio, a qualche centinaio di metri a valle della vaneddra di li ‘ncantisimi.




Lu tesoru di Vitusillanu


Durante lo svolgimento della festa di li Tri di Maiu — la festa del Crocifìsso — la folla era in attesa dei giochi pirotecnici che avrebbero avuto inizio, a Borgalino, davanti la chiesa dello Spirito Santo, alla mezzanotte precisa. Mancavano ancora due ore e la banda municipale suonava sul palco sfarzosamente illuminato dai becchi delle acetilene. In mezzo alla gente un burgisi, tra i più facoltosi e taccagni, era a godersi lo spettacolo. Mentre attento seguiva il succedersi delle note, due individui dal berretto rosso gli si avvicinarono e gli dissero: «Mpari, conoscete la strada di Vitusullanu?». E il burgisi di rimando: «Sì, perché?» — «C’è un tesoro e noi andiamo a cercarlo».

Lu burgisi ebbe un avido lampo agli occhi ed aggiunse in un soffio: « Se c’è un tesoro, vengo anch’io». E quelli: «Per venire occorre essere in due, e dello stesso sangue». E l’altro, pronto: «Mio fratello è qui! ed abbiamo anche i muli». Ed il più anziano dei due: «Allora cercatelo presto, perché occorre andar di fretta: a mezzanotte l’incantesimo finisce e i guardiani del tesoro si svegliano». Trovato il fratello e presi i muli, tutti per la vaneddra di li ‘ncantisimi, si avviarono a Vitusullanu.

Arrivati colà i quattro entrarono in una grotta, tutti insieme; ma appena varcata la soglia il suolo si spaccò e i quattro precipitarono. Rialzatisi i due fratelli e quelli del berretto rosso si ritrovarono in una grande sala dalle pareti di marmo. Avanti l’ingresso che immetteva in un’altra stanza stavano, immobili, due giganti con un bastone in mano.
I quattro, ripresisi dallo stupore, entrarono cauti nella seconda stanza poco illuminata: nel mezzo di essa vi era una statua di un cavaliere in sella di un cavallo di bronzo e con la scimitarra alzata. Ai piedi della statua un forziere aperto, ricolmo di monete d’oro, di monili, di brillanti.
I due fratelli, avidi si buttarono sul tesoro cercando a piene mani di riempire due grandi bisacce che s’eran portate dietro: ma più riempivano, più il tesoro si riproduceva e monete, monili e brillanti, ricolmavano la cassa. Cosi per l’avidità di prendere a più non posso, i due non s’accorgevano che il tempo passava e la mezzanotte fatale si avvicinava. Ad un tratto la luce parve accecarli, tanto fu splendente ed il cavaliere, fino a pochi momenti prima immoto, cominciò a sgranchirsi, risvegliandosi dal sonno profondo.
I due dal berretto rosso svanirono come inghiottiti dalla luce e i fratelli, presi dallo spavento, lasciarono le bisacce e se la diedero a gambe attraversando la prima stanza, ove intanto anche i due giganti si stropicciavano gli occhi.
Usciti all’aperto i due contadini, balzarono sui muli e si avviarono di corsa verso Canicatti. Arrivati a casa, stanchi, avviliti e con la febbre in corpo per lo spavento, si buttarono sul letto.
Da una scarpa, togliendosela, il più anziano dei due fratelli, vide cadere una moneta d’oro che tintinnò sul pavimento. Tre giorni dopo egli mori. II fratello minore visse per tanti anni e portò la monetine ciondolante alla catena dell’orologio sul panciotto ed ogni volta che qualcuno gli domandava dove l’avesse trovata egli raccontava l’avventura accorsagli; ma naturalmente nessuno gli credette mai.


La fera di Vitusullanu


Ogni sette anni, a Vitusullanu si svolge una fiera meravigliosa che dura dalla mezzanotte alle sei del mattino. Tutte le mercanzie sono esposte: si vendono animali d’ogni razza, stoffe e ricami d’oriente, stoviglie e frutta.
Si racconta che una notte di molti anni fa, ad un contadino che pascolava le greggi del barone Adamo, scappò una pecora. Il contadino inseguì l’animale e correndo di luogo in luogo, si trovò infine in mezzo la radura dove si svolgeva la fiera di Vitusullanu. Qui si vendevano anche delle arance. Invitato da il jardinara a comprarne, il povero contadino frugando nelle tasche si ritrovò solo tre granuzzi con i quali comprò tre arance che non potè però mangiare perché, stupefatto, constatò essere non commestibili.

Mentre si dava da fare per ritrovare li jardinara che a suo parere l’avevano beffato, improvvisamente tutto scomparve per incanto, la fiera, le mercanzie, la gente, ed egli sì ritrovò nel posto ove prima pascolava.

Dopo due giorni, il contadino ritornò a Canicattì e raccontò la sua avventura al padrone che si fece consegnare le tre arance per le quali regalò al contadino due sole onze. Il contadino se ne andò contento poiché non si era accorto che le tre arance erano d’oro.

Non si sa in quale giorno si svolga la fera di Vitusullanu: per saperlo occorre andare sul posto per quattordici anni di seguito, l’ultima domenica d’Agosto, da soli e senza mai voltarsi indietro; l’ultima notte del quattordicesimo anno, lu gran turco fa trovare la fiera e con un grano sì può comprare tutto; e tutto, per incanto, diventa d’oro.


Lu picciliddru di l’Agurzanti


Nei pressi della chiesa degli Agonizzanti — l’Agurzanti — vagherebbe di notte e fino alle prime luci del giorno, lo spirito di un uomo che prende le forme di un bambino ancora in fasce e gioca dei brutti tiri ai malcapitati passanti. Non poche erano le persone, fino a qualche secolo fa, che dicevano essere state vittime di lu picciliddru.

Verso la fine del 1800. due fratelli, Diego e Vincenzo Giordano, mentre si recavano in campagna all’alba ebbero ad attraversare la chiazza di l’Agurzanti. D’un tratto essi videro, accucciato all’angolo della chiesa, un picciliddru che piangeva.
Mosso a compassione — e credendo che il bimbo fosse stato abbandonato da una madre colpevole — uno dei due fratelli si avvicinò alla creatura e la prese fra le braccia. Mentre lo guardava l’uomo si accorse che il bimbo aveva già i dentini e meravigliato, esclamò: «Tale, li dienti havi». Allora, il bambino con voce da uomo anziano, di rimando: «E nun ha vìstu nenti; haiu anchi li scagluna!» (i denti canìni, cioè). Il contadino rimase come impietrito e fu ancora più spaventato dal fatto che il bimbo, improvvisamente scomparve.

Il Giordano, fu tanto scosso dall’avventura occorsagli che dopo qualche giorno morì di crepacuore.


La truvatura


Sempre in territorio di Vìto Soldano, sì ambienta un’ altra delle leggende canicattinesi; il racconto tuttavìa sembra riferire di un avvenimento realmente accaduto poiché vi è chi assicura dì aver visto con i propri occhi il frutto del ritrovamento di un tesoro.

Quasi un secolo fa — cosi la storia che si racconta — certo su’ Viciu Messina, già apprezzato sovrastante di un feudo del barone La Lumia, ebbe una favolosa visione: sognò che un bimbo angelico gli indicava che in un suo podere — ubicato a Vito Soldano — era nascosto un tesoro.

II Messina decideva dì effettuare le ricerche secondo le indicazioni ricevute in sogno, ma da uomo razionale quale egli era, senza abbandonarsi completamente alla dea fortuna.
In sostanza avrebbe effettuati i lavori nella propria tenuta procedendo a migliorie e nel contempo avrebbe ricercato il tesoro.
Decise perciò di impiantare un vigneto i cui lavori di preparazione sì facevano in quel tempo, a mano.
Cominciò perciò i lavori di scasso e poiché nel sogno aveva perfettamente avuto l’indicazione precisa del luogo dove si sarebbe trovato il tesoro, delimitò i confini del vigneto.

Armato di doppietta — la prudenza glielo aveva consigliato — il Messina si pose al seguito degli operai che procedevano allo scasso, ignari del sogno del padrone e del tesoro che poteva essere ritrovato.

Per due giorni il lavoro procedette senza intoppi, tranquillo almeno per gli operai che zappavano: perché a li su’ Viciu Missina, invece, il cuore quasi balzava fuori dal petto, tutte le volte che il piccone dei contadini si arrestava per l’ostacolo di una pietra difficile a muoversi.

Uno dei contadini raccoglieva mano a mano i sassi e li trasportava ammucchiandoli presso una siepe: alla fine dei lavori di scasso i sassi raccolti sarebbero serviti per fare altre siepi intorno al vigneto. E cosi il lavoro procedette per altri due giorni ancora senza intoppi e senza sorprese, con maggiore tranquillità anche per lu su’ Viciu Missina che mano a mano considerava il sogno sempre più vano, ma che ringraziava Iddio di avergli dato la possibilità di procedere ad un lavoro utile per l’impianto di un vigneto che comunque gli avrebbe dato frutti.

Al quinto giorno i lavori per lo scasso del terreno erano già ultimati ed un bel mucchio di pietre era già stato posto ai margini del campo. Uno degli operai procedeva a rompere i sassi più grandi mentre gli altri manovali raccoglievano sterpi e radici. Rompi un sasso, spezza l’altro, ad un tratto da una delle pietre più grosse che si era spaccata con un rumore diverso, vennero fuori, spargendosi intorno per terra, un mucchietto di monete d’oro.

Lu su’ Viciu Missina che non aveva perduto d’occhio nessuno dei lavoranti, in un balzo — doppietta spianata — fu davanti l’operaio addetto allo spezzettamento dei sassi e secco e deciso lo invitò a chiamare gli altri.
Questi si radunarono presto e tenuti a bada dall’arma di lu su’ Viciu, assistettero emozionati alla conta delle monete che a manciate di dieci e dieci, formarono due grossi mucchietti di quattrocento pezzi ciascuno: uno dei mucchietti venne assegnato ai lavoratori e, l’altro, a lu su ’Viciu.
Gli operai ciascuno con il proprio gruzzolo, soddisfatti ed ammirati per la giustizia che il padrone aveva determinato nella divisione, finalmente congedati con la raccomandazione di tener segreto il ritrovamento, si allontanarono diretti verso Canicattì.
Lu su’ Viciu Missina, raccolte le proprie monete in un ampio fazzoletto rosso, allora molto in uso fra i bergesi, guardò felice e soddisfatto il campicello: il fanciullo angelico del sogno che si era avverato gli aveva concesso di acchiappare la fortuna per ben due volte: oltre quattrocento monete d’oro che tintinnavano nel fazzoletto ed un vigneto che per trentanni gli avrebbe assicurato frutta saporita e vino generoso.

Come si è detto in principio della truvutura di lu su’ Viciu Missina ci fu gente che assicurò non trattarsi di un racconto leggendario: è certo che il protagonista del racconto visse effettivamente e che le monete che alcuni videro vennero identificate come bizantine con l’effige di Costantino IV imperatore del VII sec. d. C.: il macigno che fu spezzato altro non sarebbe stato che una brocca di terracotta rivestita dì terriccio, solidificatasi nei secoli e trasformata in masso.


Il tesoro incantato


Sempre nella zona di Vito Soldano si svolge il seguente avvenimento leggendario di cui Canicattì può disporre. Mi preme aggiungere che il racconto, per quanto riguarda la seconda parte e con varianti non essenziali è stato il tema di una composizione poetica del Prof. Enrico Cacciato che intitolò il poemetto «II gioiello di Vito Soldano».

Narra dunque il mitico racconto che in tempi antichissimi sorgeva a poche miglia dall’odierna Canicattì, una città maestosa e prospera. I musulmani sbarcati sulle coste meridionali dell’isola, dopo avere occupato Agrigento, si spinsero verso l’interno mettendo a ferro e fuoco città e villaggi. Il forte esercito arabo si stabili in un primo tempo nella zona tra Grotte e Racalmuto ed ivi costruì due castelli, una zona militare che avrebbe garantito la sicurezza degli approvvigionamenti, e sarebbe dovuta essere il punto propulsore verso le conquiste più audaci all’interno della Sicilia.

Il capo dell’esercito invasore era il Soldano Vito; uomo di indiscusso coraggio, fiero e crudele. Egli concepì il grande disegno di occupare i terreni ameni e ricchi che si estendevano verso la valle del Naro e quindi di distruggere la florida città che ivi sorgeva.

La resistenza degli antichi abitanti della «città senza nome» fu pressocché nulla essendo gli stessi non uomini d’arme, ma dediti alle arti ed alle mollezze di una vita comoda.

Fu impresa facile pertanto per il Soldano Vito occupare la città e soggiogarne i cittadini i quali furono costretti a pagare per il loro riscatto somme ingenti in oro e gioielli. Tuttavia il crudele capo delle armate musulmane volle radere al suolo la città sin dalle fondamenta ed imposte alla contrada il suo odiato nome. Tre lunghi anni trascorsero gli abitanti indigeni in schiavitù, subendo tutte le crudeltà dei conquistatori: vergini intatte furono contaminate dall’uomo mostruoso che arricchì il proprio harem di nuove schiave. Tutto subì il popolo soggetto sperando nell’aiuto della Madonna, un simulacro della quale, in pietra, era stato nascosto dai più devoti in una grotta della vicina contrada Gulfi quasi di fronte alla vecchia e distrutta città.

Il crudele Soldano seppe del simulacro e non tollerando che si facesse oltraggio alla religione dei conquistatori, cercò a, mezzo di spie di conoscere il luogo ove i cristiani tenevano nascosta la statua, per distruggerla. Ma un gruppo di audaci prevenne l’atroce disegno del musulmano e impossessatosi della venerata reliquia, riuscì a fuggire con essa fino al castello di Canicatti, il simulacro della Madonna fu posto nella chiesa del Castello.

Se come tutte le leggende anche questa ha un fondamento di verità, pare che la Madonna in pietra che si trova Oggi nella Chiesa Madre di Canicattì nella prima cappella a sinistra di chi entra, sia stata appunto trovata nel vecchio castello.

Qui i fuggitivi trovarono l’aiuto di Ruggero, signore di Canicattì. Il normanno postosi alla testa dei suoi soldati ai quali s’erano aggiunti quegli uomini pronti a tutto pur di liberare la zona dal giogo tanto odiato, venne presto in contatto con le truppe del Soldano. Nella pianura che si estende sino alle propaggini di quella contrada alla quale il conquistatore aveva dato il proprio nome, avvenne lo scontro. La. battaglia fu feroce e cruenta. Era tanto l’odio accumulato contro gli arabi invasori durante i tre anni di soggezione che i cittadini dell’antica città, unitisi alle schiere di Ruggero, combatterono senza risparmiare un solo musulmano.

La contrada dove si svolse la battaglia, disseminata di cadaveri e di carogne di animali fu chiamata da quel giorno «la Carnara» e cioè il carnaio, e tale nome ancora oggi porta.

II Soldano Vito, vistosi perduto, si ritirò con pochi fidi in una grotta per non cadere vivo nelle mani di Ruggero, portando con se i tesori accumulati in tre anni di rapine e dì aggressioni. Tra i suoi uomini vi era il Mago Saraceno e questi compi l’ultimo esorcismo in favore dei musulmani scampati alla carneficina. Con la sua magia il Saraceno sprofondò la grotta e con tutti i tesori travolse nelle viscere della terra il Soldano e gli arabi al suo fianco. Poi si pose alla guardia della caverna rendendosi invisibile a tutti tranne alle donne vanitose che passavano davanti la grotta dei tesori.

L’unica vendetta del Saraceno poteva infatti essere esercitata contro le femmine la cui vanità superava le loro virtù di donne, dì madri, di spose. Una donna bellissima alla quale piacevano i sollazzi, le sete, i gioielli, volle sfidare l’antico mito. Si presentò al Mago Saraceno e davanti la caverna chiese al repellente guardiano il più bel gioiello per la sua collana. Il Mago rispose che la donna avrebbe potuto avere la gemma che mai si fosse vista per bellezza, grandezza e valore, solo se si fosse presentata a lui accompagnata dal figlio, unico e bello, che la donna aveva avuto dal suo felice matrimonio.

La femmina non ebbe titubanze ed, anzi, la vanità ebbe il sopravvento sulle apprensioni che una richiesta simile avrebbe dovuto provocare nel cuore di una madre. Il giorno veniente la donna dunque si presentò col figlioletto tra le braccia insistendo presso il Saraceno per lo adempimento della promessa. Ma la donna non aveva ancora finita di fare la richiesta che si trovò fra le braccia il bimbo trasformato in diamante e, «di brillante gli occhiuzzi suoi belli, le labbra di corallo porporino, d’oro zecchino i suoi biondi capelli, di perle rilucenti i suoi dentini e di smeraldo i piccoli piedini», (cosi Enrico Cacciato nel ricordato poemetto). La poveretta, alla vista di tanto scempio svenne mentre il mago Saraceno sghignazzando sparì nell’antro cavernoso, rendendo invisibile la madre ed il suo bimbo ormai privo dì vita.

La donna è rimasta davanti la caverna ma nessuno può più vederla, estremo dispregio per la sua vanità ed essa continua a piangere e gemere chiedendo invano al mago feroce di restituirle vìvo il figlioletto. Durante le notti d’inverno quando più soffia il vento, i gemiti della donna vanitosa s’odono dinnanzi alla più tetra delle caverne di Vito Soldano.

Giuseppe Alaimo da: " Piccole storie di una città: Canicattì"


solfano@virgilio.it
























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